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Sogno di un’estate romana
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E-book261 pagine4 ore

Sogno di un’estate romana

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Info su questo ebook

Roma, luglio 1966. Michele è tornato a casa come ogni estate. Da vent’anni vive a New York, ma il richiamo della sua città, delle sue strade e dei monumenti è come il canto delle sirene per Ulisse.
Il rapporto con la famiglia è complicato. Quando aveva diciassette anni i suoi genitori lo hanno trovato a letto con un uomo più grande e non capiscono il suo modo di vivere.
In quell’estate qualcosa cambia, forse a causa dell’incontro con Davide, un giovane cuoco in cui Michele rivede se stesso da ragazzo.
Davide ha ventun anni, tanti sogni nel cassetto e un senso del dovere che lo spinge a occuparsi della sua famiglia da quando era un adolescente. Suo padre però non è contento di lui, l’atmosfera in casa è sempre tesa.
Michele e Davide si incontrano – o meglio, si scontrano – un pomeriggio per caso. Quel momento è l’inizio di qualcosa: un’amicizia, un sentimento prezioso.
Con mille problemi a ostacolarli, Michele e Davide affrontano i mesi estivi come se vivessero in un sogno, consapevoli che con le prime settimane di settembre tutto finirà.
Ma se l’amore prendesse il sopravvento? Un amore improvviso che raggiunge il suo culmine in una notte su un balcone che si affaccia su Piazza di Spagna.
LinguaItaliano
Data di uscita5 lug 2022
ISBN9791220703444
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    Sogno di un’estate romana - Erika Tamburini

    1

    MICHELE: RITORNO A CASA

    Roma, 1966


    Roma gli era mancata. Se ne rendeva conto ogni volta che tornava e sentiva i raggi del sole sfiorargli il viso. Ogni volta che l’aereo atterrava a Fiumicino e lui respirava l’aria di casa. Lo avvertiva sulla pelle, nelle ossa, ma anche nell’anima, che quello era il luogo a cui apparteneva: la città dove era nato e cresciuto e che gli era rimasta nel cuore anche se viveva lontano da anni. Michele lo sapeva, non era una questione di famiglia o di amici, ma era proprio Roma a mancargli: le sue strade, i monumenti, l’afa in estate e le splendide primavere dove l’unica cosa che si aveva voglia di fare era andare in giro e osservare le persone, chi ci viveva, il paesaggio meraviglioso che appariva all’improvviso dietro ogni angolo. Quegli scorci della città lo trascinavano indietro nel tempo, gli mancavano le ottobrate romane: un lungo mese, quando si era fortunati, in cui l’aria si rinfrescava, ma invece dell’autunno, ad accogliere gli abitanti e i turisti era un ritorno alla primavera. Ed era quello il periodo che preferiva per visitare i luoghi che più amava, magari al mattino presto, prima che Roma si svegliasse, quando si poteva ammirare l’immortale bellezza della città eterna indisturbati.

    Quel giorno di inizio luglio, anche se il caldo aveva stretto con una terribile morsa la città, nel momento in cui era uscito dal gate un senso di pace e benessere si era impadronito di lui.

    Era bastato un lungo respiro e il suo umore non aveva fatto che migliorare. Un sorriso gli si formò sul volto quando trovò un caro amico ad attenderlo fuori dall’aeroporto.

    Non era una sorpresa, immaginava che ci sarebbe stato, ma allo stesso tempo era come avere un personale comitato di accoglienza, qualcuno che dimostrava quanto gli era mancato. L’auto di famiglia era lì e ad aspettarlo c’era Domenico, l’autista, che appoggiato alla macchina fumava tranquillo una sigaretta e aspettava pacato, come se avesse davanti tutto il tempo del mondo. Non appena lo vide gli andò incontro sorridendo.

    Michele osservò avvicinarsi quell’uomo che conosceva da tutta la vita, notando le rughe che, di anno in anno, gli avevano segnato il volto e i capelli bianchi tra la chioma che una volta era stata nera. Il tempo era passato anche per il vecchio autista, eppure la gioia che sembrava provare nel vederlo, quella era sempre la stessa, anzi non faceva che aumentare a ogni suo ritorno a casa.

    Quando da ragazzo Michele tornava da oltreoceano o dai suoi viaggi, Domenico lo accoglieva con lo stesso sorriso e un: «Bentornato, Michè.» Dopo la laurea, anche se con tono scherzoso, per l’autista era diventato dottore proprio come suo fratello maggiore e suo padre. Il modo in cui gli si rivolgeva, però, era del tutto diverso, più amichevole e pieno di affetto e orgoglio. E anche quel giorno gli diede il benvenuto allo stesso modo. «Bentornato, dottò. Me credevo che t’eri perso, o che te fossi dato, invece de passà le vacanze a casa te ne volevi annà ar mare con l’amici tua.»

    Michele sorrise a quelle parole, al modo in cui l’autista della sua famiglia gli si rivolgeva, quella cadenza romana che mascherava, nemmeno troppo bene, solo in presenza dei suoi genitori, ma non con lui. Domenico, anche se invecchiato, era lo stesso uomo che lo aveva accompagnato in aeroporto anni prima. Era lo stesso uomo che lo aveva salutato con un abbraccio e le lacrime agli occhi ricordandogli che da lui e sua moglie sarebbe stato sempre il benvenuto se l’America o qualsiasi altro posto non gli fossero piaciuti. Roma era casa sua, per loro era come un figlio e Michele avrebbe trovato sempre le porte aperte nel loro piccolo appartamento.

    Domenico e sua moglie non avevano avuto figli; Michele ricordava quando da bambino chiedeva come mai. Sonia, con un sorriso malinconico, mentre impastava le fettuccine per la domenica, affermava che il destino aveva deciso altro per loro. All’epoca gli era dispiaciuto per quelle due persone così gentili e solari, poi aveva compreso come avevano riversato tutto il loro affetto su di lui, amandolo con tutti i suoi pregi e i suoi difetti. Amando ogni suo gesto, ogni lato del suo carattere, persino quello sognatore che non lo aveva mai abbandonato fino a quando era diventato adulto e che il suo vero padre non aveva mai capito del tutto.

    Districatosi dall’abbraccio di Domenico, Michele mormorò impacciato: «Sono felice di rivederti, ma sai che non c’era bisogno che venissi a prendermi, non con questo caldo. Avrei preso un taxi.»

    L’autista scrollò le spalle, prendendo i suoi bagagli per caricarli sull’auto. «Te pare che te facevo buttà li sordi pe dalli a quelli che manco conoscono le strade de Roma? Sò tutti ladri loro lì, e poi chi glielo spiegava a Sonia mia che saresti venuto da solo, me volevi fà morì? Mica sto qui perché me l’ha detto tu padre, ma è mi moje che m’ha obbligato. Ha fatto er diavolo a quattro, tanto che pareva fosse lei a comannà alla villa.»

    La risata di Michele a quelle parole riempì l’aria calda di Roma. Ricordava il carattere di Sonia, delle volte sembrava lei la padrona di casa ed era l’unica che teneva testa a suo padre.

    «E i miei genitori non hanno protestato?» domandò, immaginando la risposta.

    «Che te pensi, tu padre fa tanto er duro, ma quando deve discute co lei vedi come abbassa le penne, e poi andò la trova ’na cuoca brava come Sonia mia?»

    «Non dirmi che funziona ancora la scena in cui minaccia di licenziarsi se le cose non vanno come vuole lei?»

    «Funziona, me pare ovvio che funziona. Devi vedè la faccia de tu padre al solo pensiero de mangnà quarcosa cucinato da ’n altro, o peggio da tu madre.»

    Michele rideva proprio come un ragazzino, ignorando gli sguardi curiosi delle persone che gli passavano accanto, come se quello che stava facendo fosse disdicevole. Ricordava la faccia di suo padre quando sua mamma aveva voluto imparare a cucinare; c’era stato un periodo in cui aveva tentato degli esperimenti culinari e lui e suo padre, disperati, sperando che lei non lo scoprisse, si alzavano di notte per mangiare pane e marmellata e altri stuzzichini fatti da Sonia che sarebbero serviti per la colazione. Per la gioia dell’intera famiglia, l’interesse della signora Arduini per la cucina era scemato in fretta, lasciandole l’orrore al solo pensiero di dover cucinare anche solo un uovo e rimettendo l’anima in pace a tutti gli abitanti della casa.

    Michele rise ancora e salì al posto del passeggero; avrebbe voluto stare davanti, accanto all’autista, ma sapeva che Domenico non glielo avrebbe mai permesso. Per quanto gli volesse bene, non sarebbe incorso nelle ire di suo padre, e poi già immaginava le sue proteste sulle apparenze. Lo trattava come se fosse un re, quando non lo era nemmeno alla lontana. La sua era una famiglia di ricchi avvocati; benestanti lo erano sempre stati, ma tutte quelle formalità e quel cerimoniale lui non li aveva mai capiti. Senza nemmeno chiedere si mise seduto dietro, osservando la strada che cambiava sotto i suoi occhi e ascoltando le chiacchiere dell’autista che man mano gli raccontava le ultime novità da casa.

    «Se fumo dici che mio padre se ne accorge?» domandò Michele, alla ricerca del pacchetto di sigarette nelle tasche dei pantaloni.

    «Se ne accorge sì, manco lui ce fuma qua dentro, da quando è arivata la coccola, manco fosse n’amante. M’ha detto: Se mi fijo deve fumà, faje mette la testa fori come a li cani

    Michele studiò l’interno della nuova macchina di suo padre. La madre gliene aveva parlato in una lettera, lamentandosi di quell’orribile cosa nera con cui andavano in giro, che secondo lei assomigliava più a un carro funebre, e di quanto suo padre passasse molto più tempo con la macchina e Domenico che con lei. Michele non si stupì che suo padre amasse più quell’oggetto di metallo rispetto alle persone. Non era da Lorenzo Arduini dimostrare sentimenti e affetto per qualcuno che avrebbe potuto ricambiarli, preferiva gli oggetti inanimati, forse perché non avrebbero potuto ferirlo o contraddirlo.

    Dopo avere ascoltato ancora un po’ le chiacchiere di Domenico su quello che era accaduto a casa nei mesi di lontananza, Michele si perse a osservare la strada che man mano lo riconduceva dove era nato e cresciuto. In quella villa signorile sulla via Appia, era lì che passavano l’estate i genitori, per poi dare una magnifica festa a settembre nel loro appartamento a piazza di Spagna, per dire addio all’estate e festeggiare il loro anniversario di matrimonio.

    Ogni anno, Michele tornava nei mesi estivi per quegli eventi, ma non gli era mai pesato, non ora e nemmeno quando era fuggito. Quei rientri lo ricaricavano, gli permettevano di non soffrire di malinconia, di ricordare sempre la sua casa, le persone che amava e le strade della sua città.

    Aveva appena compiuto diciannove anni quando era scappato da Roma, non era nemmeno maggiorenne e si sentiva diverso da tutti gli altri. Lo era stato. E nell’Italia del dopoguerra quelli come lui mai sarebbero stati accettati. Non che a New York o a Londra o in qualsiasi altra città del mondo le cose fossero differenti, ma là nessuno lo conosceva, nessuno sarebbe andato a bussare alla porta di suo padre accusando il suo secondogenito di sodomia o di essere un depravato. Andare via era stato un modo per non affrontare ogni giorno lo sguardo carico di disapprovazione del padre, o quello disperato di sua madre, che aveva fissato quel figlio perduto con la paura nello sguardo. A Roma non riusciva più a vivere dopo ciò che era accaduto anni prima, quando gli era sembrato che il mondo gli fosse crollato addosso. L’uomo che amava, che gli aveva detto che loro erano un’unica cosa, si era sposato in fretta e furia e Michele di essere relegato al ruolo di amante non ne aveva avuto voglia. Lui meritava molto di più.

    Potevano dire di tutto su quelli come lui. Di essere considerato un depravato, un abominio e un sodomita, poco gli interessava. Ma anche a diciannove anni aveva saputo di meritare la felicità e aveva sperato che magari un giorno avrebbe trovato qualcuno che avrebbe ricambiato i suoi sentimenti.

    No, a quel tempo era stato meglio lasciarsi tutto alle spalle e concentrarsi sul futuro, sul realizzare i suoi sogni.

    E suo padre era stato ben lieto di liberarsi di quel figlio diverso, sorpreso a diciassette anni nella loro villa al mare a fare sesso con uno dei suoi soci in affari. Quel socio, per mantenere alto il buon nome della sua famiglia e non perdere tutto, poche settimane dopo aveva annunciato il suo fidanzamento e un imminente, quanto improvviso, matrimonio.

    Nei mesi a seguire tutto era caduto sotto silenzio, suo padre aveva ignorato l’episodio e lo stesso Filippo, il suo ex amante, aveva fatto finta di nulla, perché gli affari e i soldi erano molto più importanti di lui e del legame che li univa.

    Non aveva ricevuto nessun messaggio nemmeno alla sua partenza, due anni dopo, tanto che con il tempo non aveva più pensato a quell’uomo. Per pudore e per paura di far infuriare il padre non aveva nemmeno mai chiesto cosa gli fosse accaduto, come fosse andato il suo matrimonio e se avesse avuto dei figli.

    Michele scosse la testa, il passato faceva ancora male, ecco perché aveva messo un oceano tra lui e la sua terra. In America, impegnato negli studi, non ci aveva pensato. Dopotutto, come si diceva, lontano dagli occhi, lontano dal cuore, tuttavia ora era a casa e tutto tornava a galla. Ma ormai di anni ne erano passati venti e non c’era più nessun sentimento verso Filippo, solo tanta malinconia e il rimpianto di essere andato via. Spesso si era chiesto come sarebbe stata la sua vita se fosse rimasto a casa, ma nessuno avrebbe potuto dargli quella risposta. Nel momento in cui si prendeva una decisione non si poteva più tornare indietro. Non si poteva riavvolgere il tempo.

    Di una cosa però era consapevole: a diciannove anni non sarebbe più riuscito a vivere in famiglia, nemmeno a concentrarsi su quello che avrebbe dovuto fare, sui suoi studi. Scappare lo aveva portato a poter studiare quello che voleva, così non era diventato l’ennesimo avvocato Arduini, ma un fotografo. Un fotografo bravo, che ironicamente lavorava con le donne più belle dello spettacolo, icone di Hollywood che a lui non facevano nessun effetto, ma che spesso gli offrivano notti di passione che ogni volta declinava.

    Negli anni aveva avuto amanti, storie più o meno serie, ma mai nessuno da poter definire un compagno. Eppure, tirando le somme, tralasciando la malinconia, amava la sua vita, il suo lavoro ed era felice di rivedere la sua città ogni estate. Come non avvertiva la solitudine per non avere una famiglia.

    Nelle ultime lettere di sua madre però qualcosa era cambiato. Da un po’ la donna gli proponeva di tornare a vivere in Italia. Anche suo padre, quando lo sentiva per telefono, non mancava mai di chiederglielo. Poteva tenersi l’appartamento a piazza di Spagna se voleva o ne avrebbero trovato uno più piccolo per lui. Non che non potesse comprarsene uno da solo, eppure non riusciva a comprendere quelle richieste. Con i genitori non aveva mai affrontato il discorso sulla sua omosessualità, ma sapevano che quanto accaduto da ragazzo non sarebbe cambiato, e così ora come ora non capiva quel desiderio di riaverlo così vicino.

    Sentivano la sua mancanza?

    Volevano parlargli?

    Michele non ne aveva idea e l’unico modo per scoprirlo era affrontare il discorso con loro.

    Non odiava i suoi genitori, come immaginava che loro non lo disprezzassero, anche se per educazione e cultura non lo avrebbero mai compreso. Di carattere, poi, suo padre non era espansivo, non mostrava le sue emozioni, e così dopo anni in cui viveva all’estero quella richiesta lo aveva spiazzato. Non poteva immaginare che fosse per solitudine o perché avrebbero corso il rischio di rimanere da soli. Flavio, suo fratello, viveva a Roma, lavorava con il padre e aveva reso i signori Arduini i nonni felicissimi di due futuri avvocati.

    Michele non aveva idea di cosa stesse tramando suo padre, ma durante le settimane a venire lo avrebbe scoperto.

    Per un attimo gli balenò l’idea di indagare: guardò la figura di Domenico concentrato nella guida. Forse avrebbe potuto chiedere a lui, ascoltava tutti i discorsi fatti dai genitori in macchina, di sicuro era a conoscenza di gran parte dei loro segreti, ma non appena formulato quel pensiero lo cacciò via. Non desiderava mettere in una situazione spiacevole l’uomo a cui voleva bene più che a suo padre.

    Il bisogno di fumare si fece impellente, e così avvicinandosi al finestrino, con la consapevolezza che si sarebbe attirato addosso le ire dell’avvocato Arduini, si accese una sigaretta. Chiuse gli occhi aspirando la prima boccata di fumo e si abbandonò sul sedile dell’auto. Il viaggio sarebbe stato abbastanza lungo, lo sapeva, soprattutto a quell’ora del giorno.

    Doveva essersi assopito a un certo punto, non sapeva dire quanto fosse passato, ma nel momento in cui posò lo sguardo fuori, lo spettacolo che aveva davanti lo lasciò senza fiato. Domenico era uscito dal raccordo per passare per il centro, una sorta di lungo giro turistico per la città. Lo aveva fatto solo per lui, per dargli modo di bearsi anche se poco di Roma, era evidente. Così eccoli lì, Michele non sapeva quando, ma erano sbucati sul lungotevere, poco lontano da Castel Sant’Angelo, che si stagliava contro un cielo rosso e arancio, mentre un caldo sole estivo andava colorando quello che i romani chiamavano il biondo Tevere.

    Il cuore di Michele si riempì di gioia a quella vista. La macchina procedeva a passo d’uomo, nel bel mezzo del traffico delle sei del pomeriggio, e si avvicinava al celebre monumento, una delle costruzioni più belle che lui avesse mai visto. Uno dei luoghi che Michele più amava in assoluto.

    Da ragazzo usciva presto di casa, quando il sole doveva ancora sorgere, e si dirigeva sul lungotevere, verso Castel Sant’Angelo, per poi fermarsi a osservare quello che Roma gli donava: la luce del sole che man mano faceva svanire le tenebre. Il nero si tingeva di blu e poi andava schiarendosi, il cielo assumeva un colore pastello, davanti a lui il Castello prendeva forma, facendosi sempre più delineato ai suoi occhi e nelle acque del fiume. L’aria alle prime luci dell’alba era frizzante anche in estate, limpida, e il mondo intorno a lui andava svegliandosi, solo più tardi avrebbe sentito i primi rumori della città. In quei momenti, ciò che gli occhi di un giovane Michele vedevano era un paesaggio da cartolina; immagini che non sarebbe mai riuscito a riprodurre con i suoi dipinti. Colori che mai nessuno sarebbe riuscito a riportare su carta perché, per quanto si potesse essere bravi, l’originale era unico.

    Anche allora Michele era un sognatore. Si perdeva in mille pensieri e rimaneva a guardare l’acqua placida del Tevere scorrere, il ponte Sant’Angelo che man mano si riempiva di persone, turisti che fissavano quasi ammutoliti il panorama che si dispiegava davanti a loro, per poi rompere quel silenzio irreale e commentare ammirati. Li osservava, li vedeva, Michele: erano tante piccole figure insignificanti che si muovevano attorno a una città maestosa anche dopo secoli.

    Superando il ponte, si soffermava per un istante sul profilo del Castello con lo sguardo e poi andava oltre, sui palazzi, sul fiume che scorreva e, più lontano ancora, sulla cupola di San Pietro, che riempiva il cielo, attirava lo sguardo. All’epoca l’aveva visitata, Michele, ed era rimasto senza fiato per tanta bellezza.

    Quelle mattine, nelle sue passeggiate solitarie, con riluttanza proseguiva diritto, passava davanti al ponte che conduceva al Castello e a malincuore lo superava. Catturava ogni dettaglio, ogni gioco di luce, ogni riflesso del sole che toccava la costruzione e si rifletteva nel Tevere.

    Lo aveva fotografato negli anni, eppure nessuno dei suoi scatti rendeva meravigliosi quella vista e quei colori come averli davanti agli occhi.

    Era quasi doloroso lasciarsi tutto alle spalle, dover tornare a casa, rinchiudersi tra quattro mura, ma sentiva che quelle passeggiate lo ricaricavano, aiutandolo ad andare avanti, a superare quelle giornate silenziose che sembravano non avere mai fine.

    Riemerse dal passato, il cuore batteva all’impazzata, mentre tornava a respirare. Lontano da casa gli sembrava di vivere in apnea, come se girare il mondo e il suo lavoro non bastassero a renderlo vivo. Solo tornando nella sua città si accorgeva di sentirsi felice dopo mesi in cui aveva l’impressione di soffocare.

    «Così allungheremo il tragitto e di sicuro non arriveremo per cena,» mormorò poco convinto Michele, ancora ammaliato e rincuorato da quella visione, dalla sua Roma che diventava sempre più bella. Minuti strappati al fatidico incontro con la sua famiglia, per prepararlo, per rilassarlo, e tutto ciò grazie a Domenico e a sua moglie.

    «Me ricordo quanto te piace la città, vedella, quindi non preoccupatte, diremo ai tuoi che c’era traffico.»

    Michele era grato per quella deviazione, guardare con calma le strade, che fossero le più conosciute o anche solo quelle delle borgate, era qualcosa che lo aveva sempre rilassato. Era per quel motivo che fare il fotografo lo appassionava tanto; una professione che lo aveva fatto subito innamorare. Da bambino sognava di fare il pittore, quanti di quei paesaggi aveva riprodotto ad acquerello? Alcuni erano ancora nella camera che per lungo tempo aveva usato come studio, uno strato di polvere a ricoprire i colori vivaci o cupi dei suoi quadri. Crescendo si era convinto che le fotografie potevano essere più fedeli, ma quello che ai suoi occhi mancava negli scatti erano i colori. Il bianco e nero aveva il suo fascino, c’erano scatti meravigliosi a testimoniarlo, eppure erano i colori, le sfumature a rendere tutto più bello, più vero e reale.

    Con gli occhi Michele catturava la meraviglia che si dispiegava davanti a lui. Dentro di sé era un po’ rattristato che dovessero andare alla villa e non nel loro appartamento a piazza di Spagna, ma avrebbe avuto modo di passarci alcuni giorni, così da godersi da solo la sua città.

    Mentre si riempiva l’anima di tanta bellezza, osservando il cielo prendere le prime sfumature della sera,

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