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Interconnessioni
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E-book489 pagine6 ore

Interconnessioni

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Info su questo ebook

Un’umanità incanalata in convenzioni sociali e famigliari si trova all’appuntamento con la vita impreparata e persa. Ciascun individuo, apparentemente realizzato, soddisfatto, di successo, scopre di trovarsi solo davanti a prove inattese e di aver poche armi per affrontarle. Giovanni, Sabrina, Dolores... esseri umani costretti a stravolgere la propria esistenza per andare avanti, attivando delle capacità fino ad allora completamente ignorate, ritrovandosi interconnessi come elemento imprescindibile per recuperare la forza vitale base, per alcuni salvifica e per altri letale.
Un puzzle di collegamenti interpersonali complesso e avvincente, percorsi di vita e diramazioni di morte, strade di fallimenti e viottoli di successi, scarpinate che tutti i personaggi sono chiamati ad affrontare per non perdersi nel proprio vuoto, per reagire al niente o per domare il troppo. Poi l’osservatore, coinvolto dal fluire narrativo, stupisce, legge punti di contatto, assonanze, coincidenze che diventano aderenze. L’evento di un luogo si collega al tempo di un altro, un uomo di adesso entra in contatto con un’ipotesi di mondo nuovo, in interconnessione. Ma, sopra a tutto, la forza di reazione al dolore, quella che non si arrende all’ineluttabile e permette di proteggere quanto di importante ciascuno ha costruito nella vita.

Marco Vezzi, 9 ottobre 1960, sposato da 32 anni e padre di due figli, si dedica alla scrittura da circa 15 anni, dopo aver coltivato questo desiderio fin dalla più remota gioventù che lo ha visto impegnato in pratiche di mare, sport velico e navigazione marittima, per poi diventare dal 1985 imprenditore nel settore alimentare ittico, tuttora suo impegno professionale. Appassionato di sport, ha perfezionato gli studi e conseguito abilitazione tecnica nell’ambito della preparazione fisica su atleti agonisti di livello, seguendo alcuni atleti fino al raggiungimento di risultati apicali. Ha contribuito con la sorella Elena a costituire un’associazione di volontariato, per l’assistenza a persone in stato di necessità, tuttora attiva.
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2023
ISBN9788830679276
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    Anteprima del libro

    Interconnessioni - Marco Vezzi

    Nuove Voci - Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    A Elena e Mirna, insostituibili

    Introduzione

    Per il Nuovo Autore l’ispirazione, esplosiva e spontanea, riga per riga, ha avuto il suo punto d’origine nell’evoluzione di un personaggio elaborato da tempo, un altro nuovo autore, il compilatore di un personale, agghiacciante diario dal nome desolante, Senza. Un personaggio che ritiene se stesso privo di stimoli vitali, d’istintività, di reazione, una figura femminile, ragazzina all’inizio della sua stesura e giovane donna al termine, conscia soltanto di un profondo vuoto d’amore generante smarrimento. In questa voragine, la sperduta autrice cerca pietosamente una strada, un appiglio, un’indicazione che diano un senso o una direzione alla propria disorientata esistenza e le pagine del diario urlano tale disperazione fin quasi alla fine. Assurdamente, la vita e il suo significato affiorano quando la morte s’impadronisce del tempo e delle forze della giovane Sabrina che vede nella compagna di stanza in ospedale, tenera e vitale nella sua fanciullezza divorata dalla malattia, la ragione del vivere. A un passo dalla fine, Senza si completa di pagine corpose e di una raggiunta maturità.

    Il diario, sfogliato dalla mamma dopo essere rimasta sola, dopo aver imparato tardivamente a fare la madre di una figlia perduta, accompagna di pari passo le vicende di quasi metà del romanzo, le supporta, le amplifica, le mostra da un’altra angolazione e sottolinea il bene e il male provato direttamente da Sabrina. Il personaggio della giovane costituisce un anello di collegamento di molte figure apparse nella sua breve vita tra la trama e l’ordito del testo, un rivelatore copioso degli animi satelliti e pertanto, nonostante la propria sentita nullità, si fa presenza costantemente aleggiante, ricevitrice di segreti e confidenze, punto di raccordo in un dedalo di sentieri emotivi.

    Eppure, in questa intensa successione di interconnessioni, non è Sabrina la protagonista del romanzo e neppure Giovanni, l’unico personaggio che accompagni gli eventi dall’inizio alla fine. Nessuno dei soggetti primeggia per importanza e determina le azioni, tutti si limitano a portare in sé diversi aspetti della miseria e della forza umana e a proporli nel rapporto con gli altri in base alla propria capacità di affrontare la vita. Ogni figura, sagoma o carattere, con il proprio spessore, il proprio vissuto, in modo diretto o indiretto si ritrova ad avere un senso nella vita dell’altro, colpito da un evento improvviso, inatteso, generante smarrimento, piacevole consapevolezza o una trasformazione dolorosa, un’eruzione violenta che ridisegna ogni confine nei rapporti con gli altri.

    L’unico elemento che possa essere considerato portante e, per tanto, in grado di assurgere a protagonista dell’intero intreccio narrativo è un potenziale astratto, una forza travolgente di resistenza al dolore più profondo che pervade molti personaggi nel momento in cui devono proteggere dallo stesso i propri cari. Ne sono posseduti Giovanni prima e Nada poi, in un reciproco difendersi da una sciagura in agguato per anni, ma anche Dolores nei confronti della figlioletta e perfino la passiva Sabrina quando si trova di fronte al testamento della nuova, forse unica, amica Jennifer. Un’energia occulta che si sprigiona inimmaginata fino al momento ineluttabile, davanti al quale è obbligatorio agire nell’immediato.

    Concluse le pagine del diario, salutata per sempre Sabrina in un groviglio di disparate reazioni, i personaggi si separano riprendendo le proprie strade e dando vita a un secondo tipo d’interconnessioni, tutte basate su lunghe e sofferte trasformazioni, per alcuni producenti, per altri distruttive, che ricostruiscono un’umanità forte o annientata.

    Giovanni è il personaggio che dalle prime righe sembra costituire il filo conduttore della vicenda che si profila, si presenta subito come il soggetto pratico, colui che agisce in favore di altri, la figura positiva nella sua umanità. Sembra già di cogliere l’impronta del libro seguendo lo spirito del marito e del padre costretto a mettersi da parte per frenare il peggio all’interno della sua casa. Ma presto si svela l’inganno, non ci sono riferimenti certi, l’essere umano, con i suoi limiti e le sue debolezze, esplode appena si conclude l’emergenza e mette in discussione tutta una vita. In questa crisi personale s’include la trasformazione di un’intera famiglia e si presenta una linea evolutiva del narrato pronta a rivelare sempre nuove sfaccettature.

    Da parte dell’autore c’è un’analisi lucida dei personaggi, non si trovano addolcimenti e infiocchettature nei limiti e nei condizionamenti dei soggetti che si presentano. Alcune figure, con il loro opportunismo o disonestà o falsità o sottomissione alla convenienza sociale o schiacciate da errori da riparare e occasioni perdute, fanno da specchio a un’umanità nella quale ci si può imbattere ogni giorno e in ogni epoca, nella quale ci si può riconoscere. Vicende paradossali, personaggi ingiustificabili, esistenze riconosciute sbagliate in età matura o quando non c’è più tempo per cambiarle sono i tragici estremi dai quali fuggire per non generare altro dolore. Senza mai incontrare giudizi o orientamenti di pensiero nell’esposizione degli eventi narrati che il lettore da solo può valutare, si coglie una nota di comprensione per quei soggetti che si sono trovati a commettere gravi errori dopo aver vissuto fin dall’infanzia in realtà degradate e luttuose, là dove l’opportunismo e la disonestà hanno sempre significato sopravvivenza.

    Sul volgere del libro, la parte finale che contiene i frutti dei cambiamenti di vita più incisivi scelti da Giovanni e dalla figlia, un ampio spazio è dedicato a un racconto particolare, qualcosa di enigmatico che vuole trasmettere un messaggio. Spunti rivelatori, curiosi suggerimenti, ipotesi di contatti remoti nello spazio e nel tempo che sottintendono nuove, forse inquietanti, interconnessioni.

    Mirna Esposito

    Interconnessioni

    Lutto nell’imprenditoria milanese, il noto finanziere Nicola Di Gregorio è stato ritrovato senza vita in Florida, in un residence. Il ritrovamento è avvenuto due mattine fa, dopo che era scattato l’allarme, avendo egli mancato un appuntamento di lavoro a cui avrebbe dovuto presenziare.

    Assieme al corpo senza vita del magnate milanese è stata trovata, in fin di vita, una sua stretta collaboratrice, Zita Vegovina, con cui aveva cenato la sera prima. Molto probabilmente la tragedia è avvenuta a seguito di un’intossicazione alimentare ed entrambi hanno cercato di soccorrersi a vicenda raggiungendo la stanza dell’altro o dell’altra, rimanendo esanimi e senza possibilità di chiedere aiuto esterno.

    La specchiata figura di Di Gregorio risalta nel panorama della grande finanza europea e transoceanica per le coraggiose scalate che la HSP, da lui condotta da decenni, ha portato a termine con successo. Da personaggio ruggente dei primi anni a stratega con aderenze di primo livello, il mondo economico finanziario, l’Italia, Milano perdono una figura difficilmente replicabile.

    Il finanziere, ricordiamo, aveva dovuto sostenere in modo del tutto intimo e privato la dolorosa perdita dell’unica figlia, Sabrina, di soli ventinove anni, poco più di due anni fa. Silvia Barbieri, moglie di Di Gregorio, risulta essere l’unica erede dell’incalcolabile patrimonio da lui accumulato.

    Per Silvia l’anniversario era ancora a situazione più che a data, «Oggi è martedì… come il giorno del funerale». La clausura durava ormai da settimane; ripeté il gesto, in camera, il cassetto, il diario, leggeri movimenti di contatto, il polpastrello dell’indice che scorre sui bottoni incollati da camicetta con cui era composto Senza e poi l’indugio e la tentazione, aprire la copertina, sfogliare le pagine libere una per una fino ad arrivare alla prima incollata a quella successiva. L’anulare in avanscoperta, affiancati dietro il medio e l’indice, la leggera pressione in prossimità del biadesivo. Era arrivata lì già alcune volte, sempre rinunciando. Spinse, la tenuta cedette, la pagina sopra rimbalzò all’indietro scoprendo la prima pagina celata del diario segreto.

    La pagina esposta era bianca, pareva una truffa, indurre in tentazione per poi palesare la beffa: un diario vuoto, inesistente, una burla. Prese la pagina precedente e la rincollò, veloce, sull’altra, chiuse di scatto il diario. Sentì netta l’agitazione che l’aveva pervasa nei momenti del dubbio prima, e della decisione poi.

    No, Sabrina non era così. Riaprì il diario scorrendo una a una le prime pagine, ognuna con scritte obbligate, di rito, persino banali:

    Ciao a tutti, inizia qui il diario di Senza.

    Appena sotto:

    Chi è Senza? Voltare pagina, prego.

    Senza è un personaggio che interpreta la mia vita a partire da oggi che è il mio compleanno.

    Terza pagina, l’ultima libera prima dell’apparente truffa:

    10 maggio 2003, oggi ho 14 anni.

    Tornò alla prima pagina vincolata alla successiva. Il biadesivo svolgeva il suo compito con la dovizia di prima dell’intrusione. Tutto pareva in ordine. Soltanto quell’impressione – una certezza, fugace, di quella pagina bianca – nel sentire di Silvia.

    Ripeté il gesto con delicata decisione. Profanò nuovamente la pagina, constatò che era bianca. Nella successiva apparve una scritta a penna, blu, una serie di dettagli:

    Senza: altezza 172 cm, peso 59, scarpe 40, fianchi 86, vita 54, seno 78. Occhi azzurro – si vedeva corretta la O in I – capelli biondo scuro.

    Sotto, un’inattesa, concisa frase: Gira pagina, mamma.

    Silvia fu colpita, si sentì come un mariuolo preso in flagrante, solo pochi istanti. Realizzò che Sabrina la aspettava, era un suo desiderio che si stava compiendo. Si rincuorò, attese, non sprecò il momento con un gesto istintivo, non voleva disperdere in un attimo un capitale del tutto personale, solo per lei.

    Lisciò le pagine davanti, poteva continuare, andare oltre, così voleva Sabrina. Stesso metodo, scollò la pagina.

    Rombanti, personalizzati, a rischio sequestro. La piccola compagnia, chi già vestito da calcetto e chi con lo zaino a tracolla, aveva parcheggiato in rapida successione gli scooter fuori dalla tensostruttura.

    Una ristretta cerchia di giovanotti proliferati da parte opulenta della popolazione cittadina.

    Filippo, Truciolo, Gerardo, Vittorio e altri. Nomi non banali, di stirpe. Franco non c’era quel giorno.

    Un paio di soggetti li osservava da lontano nelle pratiche di metamorfosi da centauri spericolati a campioni del sintetico a cinque. Chiavi, documenti e casco sotto la sella lasciavano il posto a fascia per i capelli, pantaloncini e scarpini.

    «Le scarpette, cavolo! Ragazzi, non ho messo le scarpette nello zaino!»

    «Usa quelle che hai, non cambia granché!»

    «No, manco morto, vado e torno, passo per la pedonale e due minuti sono qui.»

    La sella si sollevò in un attimo. Partì quasi impennando, diretto verso il centro. Uno sguardo veloce intorno, prese a spingere per allontanarsi rapido.

    Un uomo era rimasto a guardare ancora qualche istante.

    Solo un po’ di ritardo, ma non era importante, lì avrebbero passato la giornata comunque. Calcetto, relax, le ragazze e altri dopo per la serata, i piccoli centri dell’hinterland obbligano ai concentramenti nei luoghi di ritrovo.

    «Speriamo non si fermi a perder tempo, prenda le scarpette e torni indietro subito.»

    Lo scooter procedeva veloce, la pattuglia era lì, come non avrebbe dovuto esserci. Rallentò come per non indurre attenzione, mescolarsi nell’ordinarietà quotidiana. L’ordinarietà, però, a volte, è tale che necessita di un’azione straordinaria per essere resa ancor più ordinaria. Quando non succede mai niente di rilevante, alla fine, qualcosa di più evidente si mostra.

    Il poliziotto alzò la paletta, d’istinto, in crisi d’astinenza, quando lo scooter era ormai al traverso, una frazione di secondo e il ragazzo accelerò di scatto. Una pazzia? La sorte lo fermò soltanto trenta metri dopo. In perfetta sincronia il furgone e lo scooter s’incontrarono puntuali al centro dell’incrocio. Niente di più macabro e orribile. Il corpo penetrò parzialmente nell’abitacolo mentre il laterale del furgone strusciava contro il palo del semaforo. Rimaneva solo da rimuovere il corpo nel modo meno cruento possibile.

    Il telefono prese a squillare senza interruzione, Annagrazia si decise ad abbandonare camera sua per andare a rispondere: «Perché mai chiamano al fisso?»

    Il colpo, inaspettato, centrale, la fulminò. Ancora troppo piccola per reagire con freddezza. Chiamò subito esclamando: «Mamma! Mamma!» Il telefono non era raggiungibile. Replicò simmetrica chiamando papà. All’automatico «Dimmi, Ghi» seguì un necessario: «Calma! Grazia, calma! Che è successo?!»

    «La Polizia, Filippo è al pronto soccorso, sta malissimo, han detto di andare subito, la mamma non risponde, cosa faccio papà, cosa faccio?»

    «Vai al pronto soccorso, chiama zia Nanda, falla venire, poi mi richiami, non ti preoccupare. Io salto in macchina e arrivo, meno di un’ora e sono lì.»

    Iniziava una nuova vita.

    Per Giovanni abbandonare la riunione non fu un problema, il passo trafelato verso le scale, i gradini sparivano a ritroso in rapida successione. Tutti gesti automatici mentre tentava di elaborare le strategie minime per rispondere alla situazione. L’angoscia da una parte, dall’altra l’eccesso cognitivo, adrenalinico, la risposta automatica antropobiologica allo stimolo.

    Avvertire la moglie, subito, nel giorno peggiore di tutti. Una giornata tutta per lei, programmata da tempo, al centro benessere sul lago, ventiquattr’ore totali di cui cinque erano già trascorse. Ventiquattr’ore per lei come un regalo incartato, identico per Linda, amica del cuore. Terapie del benessere in un unico pacchetto, unico obbligo: completa passività. Lasciarsi all’accudimento per ventiquattr’ore, completamente.

    Poteva farlo immediatamente chiamando il call center, lo conosceva, l’idea era stata sua. L’avrebbe strappata a quel momento magico per infilarla a forza nella fase dell’angoscia, dell’attesa fuori dal pronto soccorso temendo il peggio, sperando il meglio. L’avrebbe fatto appena rientrato, magari sincerandosi prima della gravità della situazione.

    Squillò. Nanda. Stava andando. Annagrazia l’aveva avvertita, le impose di astenersi dal rintracciare Nada per informarla.

    Il rapido viaggio di rientro, oltre il codice, mescolando pensieri ad azzardi nel traffico, era stato un mesto viatico per consolidare anche la peggiore delle ipotesi. Una forma di preadattamento al divenire di un nuovo futuro. Un tempo in cui tutto sarebbe stato oggetto di reset.

    Il didascalico: niente sarà più come prima prese forma appena dietro il separé destinato alle barelle in attesa dello smistamento. Giovanni fu il primo a saperlo, debitamente in disparte, la mano sulla spalla fu il doveroso e atteso gesto di commiato del messaggero in camice. Rimase palificato nel nulla. Disperso, in attesa di partire per il lungo viaggio.

    Ma il tempo non è mai in lutto, non concede tregua. In attesa c’erano Annagrazia e Nanda. Comparve loro. La ragazza urlò, come uno squarcio di luce nella notte, senza attendere conferme, l’espressione del padre, le movenze erano una dichiarazione certa.

    «Dobbiamo chiamare la mamma! Dobbiamo dirglielo!»

    Nanda, in lacrime, la abbracciò. La scena davanti a lui era la più ovvia, conseguente al fatto, normale, non poteva essere altrimenti, come il concitato futuro a venire.

    «No!» Fu la risposta. Non del padre, ma del marito.

    Come una folgorazione, una reazione d’istinto, uno scatto di nervi, sentì, decise di imporre se stesso al destino ormai segnato. Inconsapevolmente. Un pezzo di futuro, solo un pezzo. Quello andava cambiato senza esitazione. Ergastolo per tutti, ma per Nada poteva essere rimandato, andava lasciata stare nella nuvola, ignara, per l’ultima volta integra, prima della morte da notizia.

    «No! Ci penso io! Chi sa di Filippo? Grazia, a chi lo hai detto? Nanda, hai chiamato qualcuno?»

    «No, no.»

    «Lasciate fare a me, Nanda, scusa, non avvertire nessuno. Grazia, vai a casa, arrivo, prima sento i dottori. Non parlate con nessuno.»

    Da programma, per la giornata di Nada, sarebbe partita la notte sonno attivo, pretenziosa fase notturna che avrebbe unito al canonico riposo una serie di condizionamenti sensoriali volti a contribuire al riequilibrio psicofisico generale.

    Squillò, raggelato non rispose. Di seguito il beep del messaggio:

    Amore, ho rinunciato alla fase notte, fra due ore finisce il programma, riesci a venirmi a prendere per le nove?

    Lesse e rilesse le parole una a una. Porgeva la testa al patibolo, volontariamente, anzitempo, senza nessuna costrizione, l’esecuzione poteva essere rimandata, ma lei quasi in modo frettoloso e spiccio s’incamminava operosa.

    «Stupida!»

    Un moto di disperata misericordia si trasformò in un piano organizzato senza alcuna possibilità di fallimento. Un moltiplicarsi di azioni, controindicazioni e reazioni. Un distaccato e solido Certo fu la risposta al messaggio.

    Di corsa tornò al pronto soccorso. Doveva entrare in possesso del telefono di suo figlio. Avrebbe dovuto filtrare qualunque tentativo di Nada di contattarlo.

    «No, mi spiace, non c’era tra gli effetti personali del ragazzo, appena il giudice lascerà il nulla osta le faremo avere tutto ciò di cui era in possesso. Lo stanno preparando… se attende qualche minuto… se se la sente, potrà vederlo.»

    «Sì.»

    La bugia era d’obbligo, non poteva esimersi dal dar soddisfazione all’interlocutore, ma le sue priorità erano ben altre; attese che il sanitario riprendesse le sue asettiche faccende e corse via, non era utile alla sua missione vedere quel corpo straziato e inanimato. Filippo era morto. Lui doveva dare vita, minuto dopo minuto, a sua moglie, per l’ultima volta.

    Due ore e quarantacinque ancora per pianificare al meglio.

    Chiamò: «Nanda!»

    «Giovanni, dimmi, devo fare qualcosa? Parlo con Nada?»

    «No! Non devi parlare con NESSUNO, cazzo!» Pochi secondi di silenzio.

    «A chi l’hai detto, Nanda? A chi?»

    «Giovanni, l’ho detto a Virgilio… è mio marito, mi ha chiamato lui due minuti fa… scusa, Gianni, scusa.»

    «Chiamalo! No! Lo chiamo io.»

    Chiuse brusco la telefonata per richiamare immediatamente dopo: «Nanda, vai a casa mia, stai con Annagrazia, ora la chiamo. Io non rientro stasera, mi fermo fuori con Nada. Stammi a sentire, Nada non deve sapere niente fino a domani, niente, capito? Stai a casa con Grazia e basta, se ti chiama non rispondi o tiri via la prima cosa che ti viene in mente. Spiego tutto io a Virgilio. Mi raccomando.»

    Doveva far reggere l’argine il più possibile, contenere la piena del tempo inesorabile per tacere la verità. Ogni baratto sarebbe stato opportuno, un minuto qualunque purché si potesse aggiungere agli altri racimolati con i trucchetti montati su di volta in volta. Avrebbe dilagato la piena, a un certo punto non sarebbe stato più necessario mentire né architettare alcunché, come il serial killer circondato nell’angusto, convivente con le prove dei suoi efferati crimini seriali, non avrebbe potuto altro che accettare che la verità, in tutti i suoi rivoli figli della piena placata, parlasse.

    Due ore e quaranta.

    Rapide comunicazioni di servizio a Virgilio e Grazia, una di seguito all’altro. Istruzioni meccaniche, ripetute, scandite, senza possibilità di replica, neanche le lacrime della figlia potevano avere effetto rimuovente o almeno mitigante. Lo scopo era quello e quello sarebbe stato.

    Una chiamata, il numero breve lo distolse. Nonostante il falsario non avesse ancora generato il cliché della truffa, rispose automatico: «Sì?»

    «È il pronto soccorso, mi spiace disturbarla per questioni tecniche, ma volevo avvisarla che il giudice ha inviato una riserva, potrebbe richiedere l’autopsia, sa, in certi casi… pertanto almeno fino a domattina il corpo… mi scusi, volevo dire il ragazzo, non è dispon… cioè, non potete vederlo, mi spiace.»

    Che bella notizia! Chi se ne frega dell’impasse del giovane e inesperto telefonista. Nessun impedimento di prassi, nessuna telefonata scomoda a cui rispondere in presenza di Nada, eventualmente con linguaggio in codice. Niente da fare di dispersivo, inutile, del tutto inopportuno. Avrebbe potuto dedicarsi completamente a lei, anima e corpo, per traghettarla amorevolmente verso la fine.

    Ogni regola era saltata, niente più padre addolorato, impietrito, in sala d’attesa. Ora c’era da agire in modo freddo, calcolato, come alla HSP, uomini d’affari, con obiettivi e strategie collaudate, senza sbavature.

    Due ore e trenta.

    Ticchettare il volante come fosse a un semaforo. Un evento tragico, ma distante, come un fatto di ordinaria cronaca locale, la morte di suo figlio ventenne, appena diventato, e vissuto giusto i giorni per prendere la mira e andare a sbattere.

    Si accorse, nell’osservare le dita rallentare fino a fermarsi, che aveva completamente distolto la mente dal vivere la tragedia di padre, tanto quanto l’avrebbe vissuta la madre, sua moglie, Nada.

    Solo un breve cedimento, ritornò in trance. Non riusciva a pensare ad altro, aveva un compito – delirio, farneticamento, non importava – doveva andare avanti, doveva portare a termine la grazia a cronometro da concedere a quella che sarebbe diventata un fantoccio in lacrime, disossata dal dolore, flaccida a terra, senza forma. Quella manciata d’ore sarebbe stata l’eternità ultima, incistata nell’eternità dello sguardo spento, del fare automatico, senza vita dentro.

    Lui poteva reggere, lui già sapeva tutto, ormai suo figlio era morto, per Filippo niente sarebbe stato possibile. Il viaggio dal lavoro all’ospedale era stato taumaturgico, tutte le eventualità si sovrapponevano, lo assediavano. Qualche frattura e un po’ di spavento, nient’altro, così impara a fare il fesso! ricordò il primo pensiero. Nel dubbio immaginò i referti di circostanza adattati nel linguaggio al volgo e aggiunti di un po’ di delicatezza di riguardo: Il ragazzo ne avrà per un po’, mi spiace, purtroppo le funzionalità degli arti inferiori non saranno mai più piene o ancora La situazione è estremamente difficile, il ragazzo è giovane, normalmente recuperano, solo il tempo potrà darci una risposta certa, bisogna essere ottimisti… e invece: «All’arrivo non respirava, abbiamo tentato tutto il possibile, mi spiace, non c’è stato nulla da fare.»

    Due ore e venti.

    Basta! Basta sprechi! Basta dilapidare tempo in inutili elucubrazioni sterili, verrà dopo il tempo stupido dei se e dei ma, ora è il tempo dell’azione.

    Arrivò veloce, parcheggiò. Salì.

    Annagrazia e Nanda lo videro, un impercettibile cenno, una richiesta come un estremo eccessivo tentativo di rivoltare la verità, durò l’istante del nulla. Nulla poteva cambiare e Giovanni nulla portava con sé.

    «Grazia, mi cambio, ho poco tempo, ci vuole più di un’ora ad arrivare al San Giusto.»

    Si guardarono entrambe, solo attonite, quello spaccato così innaturale le distolse dal pungolamento ossessivo della tragedia, nel tentativo di dare ragione al comportamento di Giovanni.

    Dalla camera, distinto, tra l’aprire e il chiudere di ante e cassetti, rimbombò l’ordine: «Grazia, vai in cantina, prendi una bottiglia di champagne, quella nel cofanetto, meglio.»

    Uscì dalla stanza vestito casual, bello, preciso, senza sbavature.

    Grazia era ancora ferma nella stessa posizione, lo stupore per la situazione: il comportamento, alla sua vista insensato, la teneva rigida, immobile. Le si avventò contro afferrandola per le braccia distese, stringendole, guardandola come inferocito: «Grazia, non sto scherzando, non farmi perdere tempo, vai, vai, VAI!»

    Non poteva neanche piangere. Andò.

    Giovanni aprì la credenza, prese due flûte e li avvolse in un candido, spesso, lucido, tovagliolo.

    «Gianni… che ti succede, Gianni, che stai facendo!»

    «Nanda, se ne avrò ancora le forze, domani ti spiegherò tutto, ti prego, cazzo di cane! Non guardarmi così, dammi una mano, stai zitta!»

    Il tempo passava.

    Quel siparietto inutile gli era costato troppo di quel suo onerosissimo tempo.

    Un’ora e cinquanta.

    Ideona! Arretrò due passi fino a trovarsi davanti il cassettino della consolle nell’ingresso.

    Raccattò, tra le altre, le chiavi della Duetto, l’auto del loro incontro, come nuova in garage, sfoggiata forse due o tre volte l’anno, non di più.

    Comparve Annagrazia, gli consegnò il cofanetto e Giovanni se ne andò come avesse ricevuto il cambio di turno. Se ne andò col poco armamentario, stacchettando le due rampe che portavano in garage.

    Tolse la cappotta. La vecchia Spider rossa era ancora perfetta, lanciò sul sedile del passeggero bottiglia e bicchieri. Girò intorno all’auto, sfiorò il marchio Alfa Romeo. Partì a cappotta ribassata. Troppo freddo nonostante la temperatura primaverile non pungesse oltremodo, fermò l’auto per chiudere l’abitacolo.

    Un’ora e trentacinque minuti alle nove.

    Ripassò la parte che aveva preso corpo pur senza dedicarcisi con attenzione. Le smisurate panzane avrebbero dovuto essere tali per giustificare quel volontario oblio, per rendere credibile una sterzata tanto brusca quanto misurata e tranquilla era la loro vita ultimamente. Doveva convincerla che era tutto vero, che non c’era truffa alcuna dietro. Fatti esagerati e credibili, tipo… Ricordi i coreani del mese scorso? Ebbene, hanno confermato per loro e mi hanno chiesto la concessione esclusiva per il mercato cinese, mi garantiscono… Che schifo! Suggellare con una nottata folle da coppietta un successo professionale di cui lui e l’azienda non avevano assolutamente necessità. Fuori il lavoro, non rimaneva granché: restava la sfera personale, i rapporti, far sgorgare dal magma quotidiano lo zampillo della novità eclatante.

    Il tempo bruciò tutto fino al parcheggio del San Giusto, l’insegna luminosa cambiava intensità al monocolore, Centro Termale e Relax, banale ma efficace, un motto che alla HSP, comunque, avrebbero scartato a priori, ma lì eravamo in provincia, la comunicazione doveva essere abbordabile in modo semplice da gente semplice.

    Il riflesso verde della luce dell’insegna storpiava il colore del cofano della Spider.

    Cinque minuti prima delle nove.

    Sarebbe uscita, l’avrebbe vista e lei avrebbe visto lui imbardato da sagra di paese. Subito gli avrebbe posto la domanda più ovvia, a lui che non aveva ripassato la parte, che nemmeno aveva idea di quale fosse.

    Le nove.

    Le nove e cinque.

    Le prime frasi, l’inizio del racconto, il primo pezzo della vita che Sabrina riteneva valesse la pena scrivere, scritte sempre con inchiostro blu, erano parzialmente celate da un foglio da biglietto da visita, fissato alla pagina mediante un lembo di scotch. La parte esposta del biglietto era intonsa, si intravedevano però poche parole sul retro. Esercitò la minima pressione per staccare il foglio senza danneggiare la pagina del diario. La girò:

    Grazie, mamma, di aver aperto il mio Diario, leggi tutto, alcune cose non vorrei, ma ha senso?

    In fondo piccolo, piccolo:

    P.S. Più avanti altre info.

    Non poté che bearsi della notizia. Sabrina era lì con lei, addirittura l’avrebbe guidata con notizie fresche di stampa più avanti. Lesse il contenuto del giorno:

    Primo giorno di scuola del mio Diario, ormai siamo alla fine, sarò promossa bene, oggi le lezioni rompono, anche i miei compagni, i maschi sono insopportabili. Faccio il primo anno scientifico al Luigi Bernardi Martire. Oggi scrivo questo, poi vedo di organizzarmi, non so bene cosa scrivere nel Diario.

    Ciao, S.

    Una stratega, Sabrina pensò Silvia, la esse puntata poteva essere interpretata sia come Senza che come Sabrina.

    Aveva avuto il permesso e allora agì ingorda, ma con precisione. Una a una le scollò tutte, facendo attenzione a non leggere, più desiderosa di riscontrare i punti dove avrebbe trovato le indicazioni promesse.

    Appiccicò tutti i pezzetti di biadesivo uno sull’altro partendo dal primo attaccato alla scrivania che era stata della figlia. Non sarebbero più serviti, li avrebbe buttati, non dovevano celare più alcun segreto.

    Le notizie del diario erano del tutto ordinarie e frammentate, notò in particolare che non venivano citati nomi di compagni, di persone, di professori. Percepì che la realtà intorno alla figlia scorreva uniforme, senza identità. Nemmeno trovava posto un commento riferito alla famiglia, ai genitori. Così le prime pagine, forse più avanti avrebbe preso coscienza ed esperienza per dettagliare meglio le parti della giornata e dei rapporti interpersonali che meritavano di essere riportati sul diario.

    Peccò d’ingenuità, Silvia, non sapeva bene cosa l’attendesse, di come una persona distaccata e a volte inespressiva, come la figlia, potesse, attraverso poche parole, lanciare strali urticanti.

    «Gio’! Ma che ci fai con la tipa? Sei rimasto a terra con la tua?»

    Il silenzio ruggì nel paesaggio artefatto dai riflessi verdastri che cambiavano colore e aspetto alle cose immerse nel buio. Seduto sul parafango di destra, allargò le braccia col cenno di avvicinarsi. L’abbracciò a lungo senza guardarla, la presa stretta lo impediva, volontariamente.

    «Popi, amore, che c’è? Tutto bene?»

    Tutto bene? Il reset fu brusco, ma illuminato. Recuperò d’istinto la parte: «È stata una giornata eccezionale; strana, ma eccezionale. Sì, tutto bene, tutto bene per noi.»

    «Che vuoi dire!?»

    «La vita prende e dà. Oggi, su alla riunione, ho anticipato a Nicola un intento che covavo da mesi: mollo, lascio, entro un anno, non ti sto a parlare di quote, tecnicismi inutili. Ho detto, corro da lei e la porto via da lì dov’è, senza un’idea precisa, solo io e lei per urlare al mondo che lasciamo il passo ad altri, che la smettiamo di contare, contare, contare, qualunque cosa sempre a far di conto e a rendere conto a qualcuno. Poi ho pensato a una scena di un film. Un momento tutto per noi, a parte, in qualunque posto.»

    «Mi fa piacere, amore, va bene, non pensavo sentissi questa necessità un po’… che so… Fuga da Alcatraz.»

    Nove e quindici.

    Nada era seduta al suo fianco, la bottiglia nel forziere stava sulla pedana, i bicchieri sistemati con cura a evitare imprevisti. Silenziosi.

    «I ragazzi lo sanno?»

    «Gli ho intimato di non rompere le scatole per nessuna ragione.»

    Fu l’ultima frase convinto, ineccepibile, come da copione, l’ultima.

    Nada: «Allora che facciamo?»

    Si accorse di non essere solo al comando, di non possedere un carisma univoco, unidirezionale, di riferimento, a cui attenersi, appellarsi, a cui affidare il proprio destino, la propria vita, tutto.

    Nada era refrattaria, almeno istintivamente, al gran numero, allo show da prima serata, anzi.

    «Andiamo alla Rocca, stiamo lì, poi in spiaggia, brindiamo e poi vediamo.»

    Nada stava per chiedergli se avesse visto Via col vento prima di andarla a prendere, si trattenne.

    Le ventidue.

    La strada correva al pari dei minuti. Era più il silenzio a scorrere che l’euforia.

    Giovanni non aveva fatto i conti col velo sottile della routine. Entrambi si amavano, certo, solo che non potevano più accorgersene, a meno che non succedesse qualcosa di straordinario.

    Nada era completamente monca di quella tragica verità che aveva risvegliato il sentimento di accudimento in Giovanni. A Nada stava bene comunque, con spirito di comprensione, tacque per evitare di scivolare in prevedibili banalità.

    Giovanni si accorse che quella serata, nottata, quel rientro verso il destino non avrebbe avuto niente di eclatante, ma avrebbe avuto il merito di passare così, aspettando.

    Ventitré e dieci.

    La Rocca dava a spiovente sul lago, la spiaggia sotto rumoreggiava di battigia tranquilla, dondolante.

    «È sempre bello qui, vale la pena tornarci ogni tanto.»

    «Sì Nada, sarò banale ma io ci torno ogni volta che ti vedo, sai, credo che ci si leghi in un attimo impercettibile, solo quel momento è fondamentale, poi ci si innamora, dopo.»

    «Va’! Il galantone! Che frasone da filosofo conquistador! E dimmi, scusa, ma io non mi ricordo, quale sarebbe il momento impercettibile di cui parli?»

    Lui, provocatoriamente: «Cosa sei disposta a pagare per questo scoop dopo ben ventotto anni?»

    «Stappo io la bottiglia, così eviti di vuotartene mezza addosso.»

    «Troppo poco. Sesso?»

    «D’accordo, pirata, mi piace l’idea. Sui sedili no, non vorrei sentirti scricchiolare qualcosa.»

    «Andiamo giù?»

    «Gio’, non temporeggiare troppo, guardati intorno, non c’è nessuno e nessuno verrà.»

    Smise di osservare il panorama, si avvicinò all’auto, un paio di gesti con gli effetti personali e si dispose prona sul cofano.

    Le sollevò la gonna, le sfilò gli slip che nel gesto si agganciarono doverosamente alla sneaker seconda. Rapido

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