Nel chiaro della notte
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Anteprima del libro
Nel chiaro della notte - Fulvio Tomizza
Nel chiaro della notte
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright ©1999, 2023 Fulvio Tomizza and SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728560518
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
www.sagaegmont.com
Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.
Nel chiaro della notte
PARTE PRIMA
Frontiere
Il trio Mystic
Dove saranno finiti Mystic, la sua bella figlia con le trecce castane, l’amante Albina, prosperosa e dalle pupille rosse, priva di un pelo perfino sul sopracciglio, la quale cadeva in catalessi e nella vita fungeva da matrigna?
Quel carrozzone nero allegramente verniciato di simboli esoterici perlopiù sul giallo e con la grande, allora audace scritta mystic – preroulotte di una famiglia di hippies in cerca di stupore e di guadagno per i villaggi di un Paese comunista – toccò anche il Dom di Giurizzani e vi diede l’unico spettacolo che non fosse una manifestazione politica o il ballo domenicale con la banda.
Studente diplomatomi a Capodistria dove avevo fissato la mia dimora sempre provvisoria, per loro tre io non figuravo un ragazzo del villaggio natale in cui ero tornato a trascorrere il fine settimana. Il Mefistofele povero e ramingo non mi comprese nel gruppo di coetanei da corrompere con una manciata di dinari affinché gli sostenessero qualche trucco del programma. Ma la figlia fu attirata dalla mia aria distinta e dalla parziale conoscenza dei fenomeni (la lettura del pensiero, l’ipnosi, la citata catalessi, che poi era il numero forte) su cui reggeva la loro esibizione.
Era ben arduo sottrarla anche per pochi istanti al controllo del genitore perché, se lui la lasciava per breve tempo sola, era per consegnarla alla vigilanza invidiosa dell’Albina, la quale, non molto più vecchia della figliastra, pure mostrava di volersi liberare dal giogo del Capo dalla fluente barba nera e dallo sguardo indagatore. Questi, tracannando un bicchierone di vino al banco della vecchia osteria di privati, mi lasciò vedere la perfetta dentatura ritoccata, indispensabile a un mangiatore di fuoco.
Temevo la sicurezza di ogni suo gesto quasi caricato da una precisa volontà intimidatrice e, congiuntamente, m’impressionava la forza magnetica connessa coi misteriosi poteri dell’insolita professione. Oltre che esalare esplosive fiammate dopo essersi ogni volta pulito la bocca con uno straccio inzuppato di benzina, lo avevo visto, io stesso incredulo, balzare con tutto il suo peso sul corpo impietrito tra due sedie della sua donna panciuta; stendere nel sonno alcuni miei ex compagni di giuoco, dei quali soltanto uno più arrogante si sforzava di non ridere tenendo gli occhi chiusi, mentre tutti gli altri stentavano a riprendere lo stato di veglia, si stropicciavano gli occhi come si trovassero seduti sul letto della loro camera. Distinguibile e aggraziato come una rondine fra i restanti uccelli, nel suo frusto abito nero Mystic era infine passato a leggere mentalmente i dati dei documenti chiesti qua e là tra il pubblico sempre più sbalordito, a trasmetterli alla figlia bendata che li scandiva con voce chiara, lievemente storpiati dalla pronuncia straniera.
Sentivo spegnersi ogni speranza di pervenire a qualunque intimità con la più singolare ragazza fino ad allora avvicinata, quando, sussurratole mestamente che l’indomani sarei dovuto ritornare a Capodistria, la giovane artista mi annunciò con precipitazione che loro pure nella settimana entrante avrebbero sostato nella cittadina della mia residenza per darvi uno spettacolo. Complottammo come e dove rivederci. Io non seppi ricorrere col pensiero se non al luogo più frequentato di Capodistria, ossia il ristorante-bar dell’albergo Triglav.
All’ora stabilita di primo pomeriggio, dalla vetrata dell’hôtel scorsi la figlia di Mystic, da lui balordamente chiamata Rosa Mystica, accostarsi incerta all’entrata del Triglav.
La mia gioia quasi scomparve cedendo posto a un disagio preoccupato, che oscillava tra ansietà e vergogna. La bella fanciulla dalle trecce castane, gli occhi di un azzurro screziato da venature verdi e gialle, la figura slanciata ma soda, il cui fascino era accresciuto dall’appartenenza alla minuscola compagnia di artisti girovaghi e in particolare dalle stesse doti occulte con cui sapeva corrispondere alla maestria del padre e della più esperta collega, mi si ridusse a una forestiera della strada, poveramente vestita, incerta nel passo come fosse resa consapevole di una condizione sociale più arrangiata che dimessa.
In piedi, nell’incoraggiarla ad entrare, le strinsi una mano ruvida e inanimata, oltremodo fredda, che maggiormente lasciava immaginare l’esistenza condotta tra stenti e in una totale passività rassegnata. Appariva chiaro che le faccende più gravose di una quotidianità familiare quanto mai insolita e di rimando pressante, dispotica, estrosa, gravassero su quelle mani arrossate, costrette a rubarsi ritagli di tempo per la cura della propria persona.
Accettò volentieri un tè solamente per trarne un po’ di calore, ma estrasse il portamonete, insistette per pagarsi la consumazione con una determinatezza convinta e sbrigativa, che da ragazza la promuoveva a lavoratrice povera. Tale gesto, inatteso, a misura che sembrava assicurarle autonomia di comportamento, volontà di decidere anche sugli sviluppi del nostro incontro, rimetteva in piedi il progetto da me a più riprese avanzato nei giorni e specie nelle ultime ore dell’attesa.
L’avrei condotta a passeggio nel rione dove sorgeva la casa che mi ospitava, le avrei indicato la finestra della stanza all’ultimo piano che dividevo con l’autista di una ditta statale di prodotti alimentari, il quale si trovava quasi sempre in viaggio, ma non mancava né a una prova né tanto meno agli spettacoli del mio gruppo teatrale a cui lui pure si era aggregato. Ci avevo portato qualche ragazza. Il compagno mi stimolava a farlo liberamente, assicurandomi che nel caso la camera fosse stata da lui occupata me lo avrebbe segnalato lasciando appeso alla finestra un proprio paio di calzoni. Ma ogni volta che ne avevo approfittato e lui era venuto a saperlo, non se ne era rivelato molto entusiasta.
Non era soltanto l’atteggiamento ambiguo del mio coinquilino a insidiarmi di nuovo il desiderio d’intimità con Rosa Mystica.
Usciti dall’albergo, la dirigevo sì verso il rione di Sampieri, ma procedevo al suo fianco un po’ discosto come mostrando di accompagnare una forestiera in un luogo da lei fattosi indicare. In strada la sua personcina si era ulteriormente svilita e per di più esalava un odore di miseria stantia, propria dei nomadi abituati a una vita randagia ma anche inerte, stagnante, e sempre promiscua.
Non m’invogliava molto entrare in maggiore, addirittura in piena confidenza, forzandola a scoprire i suoi indumenti ancor più pateticamente personali. Sopra ogni altra sensazione stava prendendo il sopravvento una trepidazione crescente, la quale certamente procedeva dal timore di venir sorpresi soltanto a passeggio dal severo Mystic, ma che mi metteva in guardia anche verso quel clandestino progredire del rapporto con la figlia, evidenziato dall’avvicinarci alla mia dimora. Nulla del suo contegno lasciava presupporre quale sarebbe stato il vertice della nostra espansione; ero d’altra parte sicuro che qualunque fosse il nostro contatto, da esso non sarei più potuto tornare indietro. E non tanto per calcolo o ambizione sua, quanto per i poteri oscuri di cui era capace suo padre e che in misura notevole lei stessa spartiva, sia pure in condizioni di completa dipendenza.
Mi appariva sempre di più una creatura vietata, intoccabile, perché in balìa del genitore, il quale doveva essere a conoscenza di ogni sua azione e pertanto non avrebbe mancato perlomeno di farmi assumere le mie responsabilità.
Qualche anno prima, o forse dopo, a Lubiana avevo avuto contatto con una donna che svolgeva una professione non troppo lontana dalla sua. Apparteneva a un gruppo di giocolieri olandesi, ospiti del mio albergo e animatori del programma di quel night. Lei ne era la contorsionista. Ben pagata, di un’eleganza congenita grazie anche all’appartenere a un Paese occidentale, in strada la olandese mostrava di affrancarsi del tutto sia dal proprio gruppo, sia dal ruolo svolto nell’oretta di lavoro notturno. Della propria specialità conservava fuori di scena il brio un po’ spavaldo chiamato ad accentuare la scioltezza a slegarsi e contorcersi in mille modi, un po’ a danno della stessa femminilità. Unendomi al suo passeggio quale semplice compagno d’albergo, mi stupì la stravaganza di voler centrare col piede tutte le pozzanghere della strada, insistendo a trattenere le graziose scarpette nell’acqua fangosa. Era forse un modo di segnalarmi indipendenza, larghezza di mezzi, e un principio di attrazione non contraria a svilupparsi. Se fossi stato un ragazzo più disinvolto, e meno sbalordito dal simpatico infantilismo artistico e insieme femminile che non faceva che aumentare la mia prudente timidezza, probabilmente sarei pervenuto a un’avventura amorosa delle più eccentriche, anche sul piano tecnico, la quale si sarebbe consumata senza lasciare traccia.
Rosa Mystica era parecchio più giovane dell’acrobata olandese e, malgrado le ristrettezze fin deprimenti, mi si attagliava meglio. Quando fummo giunti nella mia piazzuola, ansiosamente cercai la finestra e la trovai con le persiane aperte, come la avevo poco prima lasciata.
Un balzo al cuore m’indicava che la mia rinuncia era tutt’altro che risoluta: non si era neanche interamente spenta. Lei pareva leggermi nello sguardo con la rapidità esperta del suo doppio padrone. Rivolse gli occhi alla finestra e mi cercò la mano.
Percepivo nella sua trepidezza un preciso desiderio di contravvenire alla volontà paterna e già lo avvertivo tramutarsi in una fatalità che avrebbe gravato molto più su di me che non su di lei. Quell’uomo mi avrebbe tenuto in pugno soprattutto con la minaccia dell’ipnosi, col sotteso ricatto di non restituirmi lo stato cosciente. Qualora mi fossi rivelato refrattario ai suoi comandi, ai miei obblighi, egli avrebbe potuto abbandonarmi in un posto qualunque e per me ugualmente sconosciuto, eclissarsi lui stesso, forse anche morire, e io avrei continuato a soggiacergli nell’incoscienza. Forse Rosa avrebbe collaborato col genitore per non perdermi, per mitigarne l’ostilità e migliorare la propria posizione nel gruppo e fuori.
«Peccato» mormorai quasi dentro di me, e, a un suo sguardo scrutatore che mi voleva ancora in lotta con me stesso, aggiunsi con tono più sostenuto: «Il mio alloggio è occupato. Il compagno quando ritorna nella nostra stanza spalanca tutte e due le imposte».
Per il peso che mi costava la menzogna, mi lasciai attirare da una pozzanghera velata di nafta che si allargava tra la ghiaia della strada di periferia. Tenendo la testa china, allungai un piede e con la suola della scarpa cercai di misurare e poi spostare il sottile strato grasso e multicolore.
«Adìo moj amor» pronunciò lei in un mezzo italiano, di spalle.
Affondai tutto il piede nella pozzanghera e non lo tolsi finché non udii spegnersi il rumore dei suoi passi.
Quante volte avrei pensato, sognando a occhi aperti, a lei e a una nostra vita insieme…
Lontano dai familiari trasferitisi in Italia e ai quali il confine chiuso tra i due Stati impediva ogni tentativo concreto per riportarmi dalla loro parte, già avevo iniziato un vagabondaggio attraverso la Jugoslavia, il quale peraltro, al fine di resistere quanto più a lungo temperando il rimorso della mia insubordinazione, si manteneva entro limiti urbanamente accettabili, non calpestava i legami che si frapponevano a una mia piena libertà; consentiva che io rimanessi studente di una facoltà universitaria, attore di un teatro di prosa, compaesano dei miei conterranei, parente di non pochi parrocchiani rimasti al di qua della frontiera.
L’incontro con la famiglia di Mystic mi si configurò quale occasione per spezzare in modo risoluto, definitivo, ogni mio rapporto di dare e avere con quanti, istituzioni comprese, contavano qualcosa nella mia vita. Scegliendo di cedere e quindi di unirmi a Rosa, sarei uscito dal solco che una serie di persone e di circostanze concatenate tra loro avevano delineato per il mio corso umano. Avrei inaugurato un’esistenza in senso contrario