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Dove tornare
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E-book158 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Per raccontare la luce è necessario aver soggiornato a lungo nell'ombra...Pubblicata per la prima volta nel 1974, "Dove tornare" è un'opera particolare all'interno della variegata produzione letteraria di Fulvio Tomizza. Sotto certi aspetti, lo si potrebbe considerare il quarto romanzo della serie dedicata al proprio alter-ego Stefano Markovich, se non fosse che questo non è un romanzo. Si tratta piuttosto di un quaderno di riflessioni, strutturato attorno a quattro lettere, più o meno vere, indirizzate a una professoressa boema, cattolica dissidente, che l'autore considera un'anima affine. Si parla di Mitteleuropa, di case di campagna e di amicizie romane, senza che venga mai meno – neanche una volta – l'occhio divertito e al contempo indagatore di Tomizza, che qui si offre ai lettori in tutta la propria sincera fragilità. -
LinguaItaliano
Data di uscita29 mag 2023
ISBN9788728560433
Dove tornare

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    Anteprima del libro

    Dove tornare - Fulvio Tomizza

    Dove tornare

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright ©1974, 2023 Fulvio Tomizza and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728560433

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Dove tornare

    a Vito, a Trieste

    Parte prima

    La guida di Praga

    Carissima,

    eccomi finalmente a te. Se non ti ho scritto finora c’era una ragione, anche se non facilmente plausibile. Cercherò di rifarmi con questa mia che prevedo piuttosto lunga e che, come càpita, magari servirà soltanto a me, a penetrare uno stato d’animo che perdura e che ritengo si sia affacciato proprio durante la mia breve visita a Praga, per accentuarsi e complicarsi coi fatti non sempre eccezionali avvenuti durante questi tre anni ormai trascorsi. Come vedi, noi maschi, ancorché scrittori, non ci curiamo di smentire il nostro egocentrismo, né il nostro fondamentale egoismo: penso alle tue ansie e ai tuoi interrogativi, per non dire l’ancor più inquietante stato normale, quotidiano, quali traspaiono dalle puntuali lettere e cartoline, e che purtroppo troveranno da me scarsa risposta.

    La nostra casetta di campagna è finita da tempo. Con Miriam vi ho già passato un’estate ed ora mi accingo a trascorrervi un’altra. Ti scrivo riposando lo sguardo su un grande gelso, un’aia con erba scomposta e spini secchi, più avanti un appezzamento di terra rossa tra ulivi, seduto a una finestra non molto lontana né dissimile da quella che sedici anni fa m’inquadrava curvo a buttar giù, fra tante ulcerazioni, eppure con minore disperazione, il mio primo romanzo.

    La veduta è in realtà diversa, ma il silenzio caldo e pieno del nostro luglio (un lento scartocciarsi di ali d’insetto nel sentore stagnante delle more sfatte) resiste a tempi e a una situazione parecchio mutati, promettendo persino di preservarmi, almeno in parte, da quella disperazione che mi è scappata dalla penna. Mi pervade piuttosto un dolore sordo e addirittura incredulo, non so se una sofferenza larga e con punte di trasporto o se una gioia già ripiegata sul proprio amaro. Forse soltanto una serena disperazione, per dirla col nostro maggior poeta. Deve essere dettata dall’impensato fluire e rifluire delle cose, da un intersecarsi preciso di tracce lasciate dal mio caotico sperdermi e progredire nel mondo, che da ultimo mi ha rivoluto qua, chino a soppesare tutto con consapevolezza, a rivolgermi spontaneamente a te, lassù a Praga, che mi hai chiamato mia anima gemella, nulla commentando, tra il tanto parlare degli altri, per timore d’imprecisione, di arbitrio o di volgarità.

    Ti avevo detto di essere stato a Praga una prima volta con due colleghi giornalisti, uno dei quali, pure al suo impatto allora con la tua città, l’anno dopo ci avrebbe informati, dalla televisione, della insperata e crescente esultanza (che a me però faceva sottilmente male come il canto rauco di un bambino ubriaco, una folle musica improvvisata con ogni strumento e che non esclude il raschiare su qualcosa di vivo), e in seguito ci avrebbe mostrato, insieme alla propria, facce tirate dalla costernazione.

    Era un settembre che allargando i colori colmi dell’estate pareva assicurare, alle ragazze esplodenti nel completo di camicetta e pantaloni lungo piazza Venceslao, alle sciamanti code volontarie davanti ai cinema, ai ciliegi lungo le pendici di San Vito e ai pioppi sulla Moldava, al cimitero ebraico con funghi buoni tra la selva di lapidi, alle cortesi guardie municipali già in impermeabile leggero, alle vetrine miniate con francobolli e a quelle gelide di perfetti pezzi di fabbrica, agli alberghi intasati da stupite delegazioni straniere, un solo e breve inverno ancora.

    Grazie alla consultazione della tua guida, delle tante cartoline ogni volta diverse e delle ottime strenne d’illustrazioni, posso precisarti che il mio scontro con Praga avvenne tra le due torri che collegano ponte Carlo con la Città Vecchia. Non si giunge mai del tutto nuovi in un luogo celebre, ma del racconto della Città d’oro fattomi da un amico pittore triestino conservavo soltanto un aneddoto senz’altro trascurabile. Nei primi anni del dopoguerra, quando nella nostra città gli artisti più coraggiosi e maggiormente screditati dalla stampa nazionalista tentavano un primo passo verso il vicino Est europeo, lo xilografo di lingua slovena aveva accolto l’invito di esporre da voi insieme a una collega concittadina di origine greca. Volendomi testimoniare la rara pulizia e urbanità di Praga, mi narrò che, scesi da un tram, furono avvicinati da una guardia comunale che affabilmente chiese a madame se per caso non avesse smarrito qualcosa. Confusa e grassissima, la brava Maria assicurava di no col capo, quando il tutore dell’ordine aprì la mano inguantata e le porse il biglietto che lei aveva tranquillamente buttato. Stranezza della memoria e del suo criterio associativo: fu forse questo episodio banale a invogliarmi al viaggio coi due giornalisti. Ricordando il soggiorno di studente in una Belgrado ancora più parossistica che sudicia, mi domandavo se poteva esistere una capitale comunista dove la milizia popolare indossasse i guanti e usasse rivolgersi in francese; se questa città improbabile non avesse alcunché in comune con la spaziosa e linda Trieste da dove si erano naturalmente mossi i due artisti forse progressisti in una stagione ancora di utopia; se avesse davvero ammiccato un giorno da qualche parte la possibilità di un socialismo davvero libero e civile, di reciproco rispetto e disincantata fraternità.

    Dopo anni, finalmente sul posto, da sotto l’arco delle torri sgusciò nella piazzola Křižovnické (del crocevia?) un allegro tram rosso, lo stesso che univa la campagna di Santa Lucia al centro balneare austro-ungarico di Portorose e di cui giornalmente si era servita mia madre bambina con gli ingombranti vasi del latte. Ti avevo detto anche questo, che il tuo sembra un volto di famiglia: gli zigomi forti e il mento tondo dei Franck, i grandi occhi brucianti e i capelli neri della nonna Trento. Ecco una ragione non secondaria che, prescindendo da tutto il resto, il mio amore per Miriam, eccetera, ha tra noi bloccato fin dall’inizio la minima interferenza sul piano sessuale. Non ti chiesi però, com’è mia costante maleducazione e come sarebbe stato abbastanza legittimo difronte a una mora di Praga, se fossi ebrea; né mi meravigliò saperti di fede cattolica anche se dissidente (e avrei voluto che là, dopo oltre vent’anni di regime unico, in quel finale setacciare anche le intenzioni nel rendiconto dell’ingenua vacanza, tu ti fossi messa magari a sostenere l’infallibilità del Papa!).

    Scherzi a parte, benché i tratti del volto e l’intera tua figura raccolta nell’abbigliamento dignitoso mi riportassero alle storie umane della guerra e del dopoguerra, e l’espressione dello sguardo propriamente alla galleria di pannelli fotografici di Dachau, l’incedere sicuro, quasi cadenzato, era quello della gente alta e bionda che dal tram rosso come da una catena di montaggio scivolava sulla strada e tosto si portava alla cassettina dei rifiuti.

    Ma, imboccata la Karlova, non armonizzavano (tu stessa non avresti armonizzato) con i primi archi, guglie e portali della Città Vecchia, salvo il loro nerofumo e il nordico sentore nell’aria del carbone di torba. Meglio li avevo visti procedere senza mai sperdersi per il vasto lungofiume, tra il Teatro dell’Opera e la Moldava, i cui vapori tenevano bassa la polvere come sulle rive triestine fanno i negozianti con la palma lesta nella catinella, come del resto al lungomare di Portorose quando in una lontana vacanza vera passeggiavano al tramonto con scarpe e magliette bianche e retate.

    Infatti, calata la sera e accesisi i lampioni spettrali della Città Vecchia, stupefatti fino all’imbarazzo dalla pura continuità di un’architettura e di un color locale parecchio estranei, perduta anche la preimmagine che avevo della città, a noi tre ragazzi venne in soccorso soltanto una facile reminiscenza letteraria che ci indusse a giocare al giallo poliziesco, per cui gli immaginari segugi all’erta sotto i bui portici, nelle squallide entrate con scale a chiocciola, lungo il muraglione del cimitero ebraico, potevano essere quelli di Kafka e del giovane Masaryk, in carne ed ossa dentro a cappotti di cuoio, ma anche figure evanescenti a svegliare più oscuri terrori. Poi sbucati per caso nella piazza Venceslao rischiarata a giorno, ci rintanammo subito in un night incassato fra alberghi discretamente balcanici, e la serata finì in maniera fin troppo nota.

    Lei, Miriam, s’inquadrava invece perfettamente in un arco largo e basso. Interamente priva di senso d’orientamento nei miei campi e per le viottole carsiche, qui spariva in un androne per ricomparirmi sul lato opposto della via. Se ingressi labirintici, cortili maleodoranti lasciavano a me supporre l’interno delle abitazioni, pareva che per lei la via e la piazzola fossero un prolungamento naturale della casa in cui scendere non del tutto svegli né vestiti, frange di filo appiccicate alla gonna e gli occhi cisposi, come a Siviglia, Toledo, da dove erano emigrati i suoi vecchi.

    Seguendola, mi ritrovai senza accorgermene nel quartiere delle sette sinagoghe. Taciturna, schiva, stava inverosimilmente al centro di un gruppo di piccoli uomini bruni, ossequiosi, e di due donne con pretesa di eleganza, a riempirsi la borsetta di biglietti da visita e indirizzi di terzi, trascritti appoggiandosi allo stipite del tempio gotico. La compagnia ci seguì fin nel cuore della sinagoga Vecchia-Nuova, dove il tono delle voci crebbe. L’aria mistica che avevo attribuito all’intrecciarsi cupo delle volte e degli arredi in ferrobattuto, alla tenue luce spiovente sul cuscino rosso con la stella a sei punte che con trasporto mi ero inginocchiato a baciare, per loro equivaleva soltanto ad aria sicura. Lei me lo smentì schermendosi, poi ridendo apertamente, ma d’un tratto la udii alle spalle parlare una lingua ignota.

    Fu la prima volta, dopo undici anni di unione completa, che mi si affacciò l’ipotesi di una sua vita, un suo avvenire, fuori di me. Sempre più angosciato salivo le scale dell’annesso museo, ascoltando la parlata infittirsi e da lamentosa farsi squillante, addirittura gaia difronte ai disegnini dei fanciulli finiti nei pogrom di Terezin e Treblinka. La riebbi mia solo quando ci ritrovammo all’aperto, nel vecchio cimitero stipato di dodicimila lapidi, da una delle quali la colsi seduta su una panchina a reggersi il capo e a fumare con voluttà, come quando per un accoramento si ritira nell’altra stanza a lottare con la pressione bassa.

    A differenza di Dubček che ho sempre immaginato di legno (come non vedere quella testolina dal naso lungo, tenuta su da un filo di collo, abbattersi d’un colpo sulla spalla esile, le lunghe gambe che invano cercano terra?), l’impiegato della Facoltà di lingue e letterature romanze che mi accompagnò all’ufficio di polizia pareva di cartapesta. Al puntuale affiorare del sorrisetto pavido, meccanico, col quale cercava di supplire allo scarso italiano, i pomelli ancor più s’inturgidivano, il mento finiva di arrotondarsi mentre i piccoli occhi dietro alle lenti si riducevano a due puntini carichi di una luce scherzosa e maligna. Davano il tocco finale alla caricatura un parrucchino troppo evidente e compresso sulla fronte, e lo strato di carbonina che lo tingeva di un nero esagerato.

    Attento alla guida della propria utilitaria, ogni tanto e anche quando non lo interrogavo si rinserrava nelle spalle per ripropormi che il mondo? la situazione presente? la vita? era così e non ci si poteva far niente; me ne chiedeva conferma con il sorriso discreto. Davanti alla sede della polizia gl’indicai un posteggio; lui tirò avanti e nel commento questa volta parlato si aiutò con l’indice a precisare: « Meglio di no ».

    Lasciò la macchina lontanissimo, in una viuzza vicina al teatro della prima mozartiana del Don Giovanni; ora camminava con passo morbido e misurato, come intendesse smorzarne i rumori. Si riscosse solo a una svolta per segnalarmi col mento tre soldati russi che riuscii appena a distinguere per il berretto tondo e i calzoni alla scudiera. Jaslo – questo il nome che almeno afferrai quando, chièstoglielo, lui si volle presentare con l’inchino – mi sussurrò che si erano stabiliti in periferia e raramente capitava di vederli in città. Si discorreva ormai senza interruzione, lui sempre preciso a soddisfare col solito commento alle mie domande pure laconiche e avanzate anche per cortesia; finché, tanto ingranammo in quella sospensione di giudizio quasi giovanile, da parlarci

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