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La casa col mandorlo
La casa col mandorlo
La casa col mandorlo
E-book210 pagine3 ore

La casa col mandorlo

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Info su questo ebook

Un'anima duplice, divisa e lacerata, è quella del remoto Nordest: terra di frontiera, di confini a volte labili, a volte impenetrabili. Territorio di amicizie insperate e di odio indescrivibile, l'Istria è narrata ancora una volta in tutta la sua complessità.Pubblicata postuma nel 2000, "La casa col mandorlo" è una raccolta di racconti paradigmatica dell'intera produzione letteraria di Fulvio Tomizza. Sospesi costantemente fra la cronaca delle vicende istriane e momenti di autentico lirismo, questi testi offrono innumerevoli spunti di riflessione. Fulcro simbolico dell'intera impalcatura che sorregge i racconti è la metafora del mandorlo, albero da frutto tipico dell'Istria, che si ritrova trapiantato, come uno straniero in una terra ignota, nel bel mezzo dell'agro friulano. Resiliente come soltanto un albero potrebbe essere, la pianta si configura come l'emblema di un'identità profonda, le cui radici sono state strappate brutalmente, ma che all'occorrenza può ancora dare i suoi frutti. Fosse anche a distanza dalla propria patria martoriata... -
LinguaItaliano
Data di uscita10 lug 2023
ISBN9788728560495
La casa col mandorlo

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    Anteprima del libro

    La casa col mandorlo - Fulvio Tomizza

    La casa col mandorlo

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright ©2000, 2023 Fulvio Tomizza and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728560495

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    La casa col mandorlo

    Parte prima

    Personaggi e memorie

    Inverno iniziatico

    A diciannove anni, finito il liceo classico, mi trovai per mia scelta in un mondo del tutto ignoto. Contrariamente ai compagni i quali da Capodistria si trasferivano a Trieste governata allora dagli anglo-americani, io decisi di continuare gli studi in Jugoslavia, che da dieci anni amministrava provvisoriamente il nostro territorio. Più che una scelta, la mia era una ribellione, una sfida e insieme un atto di autolesionismo istigati da una serie di circostanze che sarebbe troppo lungo elencare. Dirò soltanto che, seppellito quell’estate mio padre che aveva saggiato il carcere del nuovo regime, e in sordo conflitto con gli stessi compagni di scuola per la mia origine contadina e in parte slava, intendevo punirmi e nel contempo farmi ancora più detestare ma anche compiangere.

    In realtà compivo la mia prima, vera trasgressione.

    Lo percepivo via via che il treno mi portava sempre più lontano dal mio mondo, avvicinandomi a Belgrado. Ne fui consapevole dal senso di estraneità e di rifiuto che mi investì non appena penetrai nella città sconosciuta.

    Il disorientamento era accresciuto dalle scritte in cirillico a cui non ero preparato, dall’impazienza perfino pungente dei passanti nel cercare di decifrare il mio modesto serbocroato. Urtai contro un anziano, gli domandai prontamente scusa. Quello mi squadrò e poi mi chiese minaccioso che cosa venisse a lui dal mio sconcusarmi.

    L’atmosfera balcanico-orientale rimarcata dall’architettura in parte absburgica e in parte turchesca, illanguidita dall’ultimo sole ottobrino, la singolarità dei volti antichi e severi che incontravo, un mercanteggiare generale e indolente tra nenie musulmane e strappi di musica tzigana, tutto ciò che aveva agito da oscuro richiamo tendeva ora a isolarmi nella condizione di intruso.

    Avevo con me parecchio denaro, lo spesi quasi tutto per fermare una camera ammobigliata nel rione di Crveni Krst (Croce rossa). Feci appena in tempo a iscrivermi all’università che l’inverno piombò fulmineo, senza alcun preavviso, spietato con me, ostile a tutti.

    Un vento gelido, la kòsăva, spazzò strade e piazze quasi per dare agio alla neve di stendersi pulita e far subito presa. Gli edifici si eguagliarono, le distanze si restrinsero, la gente infagottata si distingueva appena per il sesso. I miei indumenti invernali li avevo piegati in una cassa e spediti da Capodistria a piccola velocità per risparmiare. Ecco dunque che, oltre a sentirmi intirizzito nella stanzetta semivuota, muta, continuavo ora a differenziarmi da tutti gli altri per l’impermeabile che mi ricopriva le spalle e per le scarpe estive che, morbide, addirittura bicolori, sprofondavano nella neve.

    Più che vedere la mia presunzione e l’audacia punite, beffate, ero in una situazione inconfessabile a chiunque; e uscivo a gelarmi interamente per sottrarmi ai commenti, magari a qualche sospetto, da parte dell’unica persona che avesse diretta cognizione di me: l’arcigna, piratesca padrona di casa, la quale, sola e pure bloccata nel suo appartamento, spiava i miei passi quasi aspettasse una resa.

    L’università, tutte le altre scuole e gran parte degli uffici pubblici erano stati chiusi. Per le vie transitava lento qualche filobus illuminato in pieno giorno, e la neve cresceva a dismisura, si addensava sui tetti ma anche sulle inferriate, sui lampioni, sui profili dei monumenti, dotandoli di un loro fatuo doppio.

    Essendosi le distanze quasi annullate, scendevo veloce in piazza Slavia ridotta a uno stagno ghiacciato, percorrevo l’ampia Maršala Tita per raggiungere l’altra piazza centrale, quella di Teràzije, dominata dall’albergo Moskva col tetto fino a ieri luccicante di tegole tonde e verdi come squame di rettile. Uomini in colbacco, massicci, stralunati, vi entravano a bere grappa bollente, abbandonandosi sui divani di cuoio consunto allineati lungo le vetrate appannate.

    Credevo di trovarmi nelle adiacenze, se non nel cuore, dello sterminato e convulso mondo russo immaginato durante le letture di Dostoevskij, Tolstoj, Čechov. L’incredulo sbigottimento da cui ero pervaso mi faceva soprattutto tornare in mente alcuni versi di Pasternak, che si riferivano a un inverno repentino come quello, quando ogni processo avviato si arresta, ogni punto fermo viene meno e «chi non ha una casa non l’avrà mai».

    Mi spingevo giù per la Knez Mihàjlova priva di marciapiedi o tutta un marciapiede, il portone della mia facoltà sprangato, i negozi che funzionavano a caso come le fiammelle più resistenti in un candelabro portato nel vento. Si sfociava nei giardini e tra i tozzi bastioni della fortezza turca del Kalemegdan, eretta sul punto in cui la Sava sbocca nel Danubio. La lastra di ghiaccio che equiparava i due fiumi m’impediva di precisarne il corso, per cui non riuscivo a stabilire nemmeno in quale direzione si situasse la mia terra, sede di quel groviglio di affetti contrastanti che mi ero illuso di lasciare alle spalle.

    In quei giorni, lo appresi dai titoli dei giornali e perfino da una cartina riproducente il nostro territorio, i due Paesi dai quali ugualmente dipendevo avevano messo fine all’annosa controversia sui confini pervenendo a una soluzione salomonica: Trieste tornava stabilmente all’Italia, la Jugoslavia s’incorporava anche la mia residua fetta d’Istria.

    Mi rintanai nella gelida stanza ammobigliata, uscendo solamente per due pasti magri magri, pattuendo con la padrona il prestito di altre coperte e di una stufa elettrica a determinate ore.

    Non mi andava di leggere, impedito com’ero a trovare la concentrazione. Istintivamente afferravo un foglio, svitavo la penna stilografica, mi mettevo a tracciare figure geometriche e a ricalcarle, dando così ordine alla folla di pensieri e sentimenti che mi premevano da ogni lato. In quella stanzetta, di cui mi sono rimasti nella memoria il colore verde tenero di certi interni di moschea e un vago odore di mele cotte, forse si compì il mio destino. Incominciai a scrivere, ossia a cercare di colmare l’improvviso vuoto prodottosi tra me e quanto viveva fuori.

    Il bacio

    Rita era il mio amore dei quindici anni, sempre con lei ballavo nel salone del Dom di Giurizzani. Non appena la banda attaccava, i nostri occhi si cercavano anche di lontano; se io tardavo nella ressa lei era capace di voltarsi verso il muro per schivare un invito diverso. Ma col tempo pochi si azzardavano, facevamo ormai coppia fissa e per di più Rita studiava croato a Buje, io italiano a Capodistria, il che pure contribuiva a staccarci da tutti gli altri.

    Era alta come me e questa era la sola cosa che mi sconveniva, quasi urtarci coi nasi prima di abbracciarci, però tornava utile ed era anche piacevole sussurrarle la parola giusta proprio nell’orecchio, mentre lei rideva socchiudendo gli occhi come mia madre in una vecchia foto con me e mio fratello piccoli per mano. Perché eravamo anche lontani parenti per parte della mia nonna materna che vantava uno stuolo di nipoti, quasi tutte donne, perfino in scarsa pratica tra loro.

    Ma ciò che più mi inteneriva di lei, e rendeva il nostro rapporto e precario e irrecusabile, era la circostanza grave che la sua sorella maggiore, muta dalla nascita ma di una bellezza rara, toccante, era stata colpita a morte da un ufficiale dell’Armata, il quale l’aveva minacciata per scherzo con la pistola ritenuta scarica. La madre, divisa dal marito, non resse, si tolse la vita, e Rita venne ad abitare presso lo zio a Bàbici, dove il padre aveva fissato un’instabile dimora.

    La ragazza crebbe, si allungò, commiserata da tutti, ma, benché ancora acerba e intimidita dalle disgrazie familiari, si distinse nel coro della scuola e cominciò a somigliare sempre di più alla sorella, fino a farla dimenticare. Così la incontrai, quando stava scoprendo di aver rimpiazzato la sorella e di essere dotata, rispetto a lei, di una bella voce.

    Quasi ogni nostra manifestazione si esprimeva nell’assiduità del ballo, in quel cercarci, attendere settimane, mesi, forzare i miei ritorni, spingere lei anche in caso di maltempo verso il mio villaggio, per stare allacciati, ciascuno timoroso del calore e soprattutto del giudizio dell’altro.

    Il bello risiedeva nell’imprevisto che si aggiungeva alle nostre deboli trame: l’apprendere da un compagno insinuante che lei era venuta a Giurizzani per far compere, la notizia recatale in segreto da un’amica che quel sabato ero stato visto scendere dalla corriera. Di questo unicamente parlavamo nel nostro controllato abbraccio e durante le brevi interruzioni della musica.

    Talvolta mi aggiungevo al suo gruppo accompagnandola fino alle prime case di Bàbici, e le amiche ci lasciavano discretamente distanziati, sicure che in qualche modo ne approfittavamo. Camminavamo vicini badando bene ora che i corpi non si sfiorassero, soltanto quando la salutavo a lei si arrochiva la voce e io tornavo per il buio stradone tra le siepi, traboccante di felicità.

    Trascorsero due estati e due inverni. Il terzo anno Rita fu affidata a una coppia di zii che vivevano a Milano e pensavano, per la sua buona voce, di farle frequentare il conservatorio. Io a Capodistria, in una cabina dei bagni pubblici deserta d’inverno ma lordata di qualche escremento, imparai a baciare da una ragazza del popolo che agli altri pare concedesse ben altro. Rimanemmo incollati per un paio d’ore, lei ogni tanto staccava per ammonirmi di tenere le mani ferme, io pronto a riprendere composto per non veder troncata la sensazione più proibita e piacevole, finalmente correa, che avessi provato.

    Quell’estate tornava anche Rita da Milano, scortata dagli zii con la testa piena di me e perciò non contrari a rivalersi con un mezzo fidanzamento della mancata fortuna della cantante. Un anno di lontananza, l’età cresciuta e impermalita per entrambi, il suo ritorno ai luoghi idolatrati nell’assenza, tutto lasciava prevedere che ci saremmo ritrovati cambiati.

    Lei arrivò in anticipo e si dovette accontentare di ballare con un ragazzo di Fiorini. Lui stesso mi raccontò della serata conclusasi sulla strada per Bàbici con un vero bacio. Non riuscivo a crederci e soffrivo anche perché lui, pur avendo la mia età, era di carnagione scura, con la barba tutta intera, rasata a puntino.

    Giunse la sera del nostro ballo. Rita mi stringeva sospirando, la sua fronte ardeva sulla mia, tiepida. Indagai in direzione del tale di Fiorini. Si riscosse, piegò il capo. Dopo due balli confermò ogni cosa. Quindi aggiunse al mio orecchio: «Volevo provarlo per poi farlo con te. Ma non mi è piaciuto, forse dipendeva dal ragazzo. Con te sarà un’altra cosa».

    L’emozione del ritorno nei suoi luoghi in maggio sotto la luna l’aveva tradita. Ed è questo che oggi con un sorriso mi piace ricordare.

    Allora invece reagii male. Alla chetichella abbandonai la sala definitivamente. Lei venne con gli zii dalla nonna a scovarmi. Fui corretto, ma non restituii la visita come avevo promesso. Non mi feci più trovare. Neanche quando lei cadde di bicicletta. Me lo raccontò Benito che vi aveva assistito. Aveva preso male la curva in discesa per calare a Giurizzani e finì nella cunetta. Cadendo la gonna le era risalita. Il compagno commentò con voce incantata: «Ciò mio, vedessi che gambe grosse e bianche. Di donna fatta».

    Tradite nell’amore

    Le ragazze di campagna tradite nell’amore, come insiste una canzoncina d’altri tempi da cantare in coro, come ne ribadisce un’altra, come tutte queste canzoni più o meno vi alludono…

    Sono donne per sempre fuori dall’ordinario circuito, facili a darsi con l’unico intento di farsi male accostandosi alla soglia di una stagione bruciata, lasciandovi trascinare un corpo che agisce in funzione della memoria; e perciò come celebrando un rito simbolico. Non godono nemmeno, al più emettono qualche fondo sospiro che non sai se sei stato tu a spremere o se è l’ultimo singulto di un pianto esaurito. Per loro i fiori hanno smesso di mandar profumo, la musica è divenuta rumore, le stelle aiutano soltanto a vedere.

    Hanno fallito seccamente, visibilmente, nel loro primo incontro con la vita.

    Quasi ogni paese ne conta una, che, nel caso abbia avuto la forza di sopravvivere, impone pietà e un certo rispetto nella gente seria, perfino e soprattutto nelle donne per la cattiva sorte che sarebbe potuta accadere a qualunque di loro. Soltanto quando ci si riferisce a una di queste sciagure private, la parola amore qui si avvicina a quel concetto che imperversa altrove.

    Il più delle volte precipitano volontariamente nel loro vortice. Per l’innamorata del giovane sagrestano di San Lorenzo c’era il mare che si allungava fino alla porta di casa. Per un’altra sfortunata di Verteneglio non restava che, occorreva proprio, il fucile del padre cacciatore, da attivare con un’ingegnosità estesamente vendicativa: le canne puntate alla gola e il grilletto abbassato con l’alluce.

    Queste anime poi vagano per recare momentaneo scompiglio nel traditore o nell’ignaro, più duratura ammonizione ai familiari che la vita non è soltanto profitto.

    La sposa di Villanova aspettò il suo sposo all’altare per tutto lo svolgersi della messa, e alla comunione prese l’ostia da sola per volare con essa in Paradiso. Il giorno dopo i funerali ricomparve a casa di sera, ancora vestita di bianco. Nella cucina illuminata a giorno i genitori impietrirono sulla sedia. Lei anche parlava e si sedette, era soltanto troppo pallida. Che cosa si può offrire a un visitatore che si sa più che ammalato?

    La madre, cercando le parole per scacciare le lacrime, propose un caffè. La morta accettò ma a condizione di averlo presto perché prima di mezzanotte doveva rientrare. La madre si mise subito all’opera, le versò il caffè in una tazzina che lei afferrò e si portò alle labbra. Volse la tazzina ma il caffé le si rovesciò tutto sull’abito da sposa.

    Elisa di Balbòje fu invece una di quelle che si lasciarono vivere pur sapendo che il male non sarebbe mai scomparso, avrebbe tutt’al più deviato verso altri accidenti. Fu per un periodo al sanatorio. La sua disgrazia aveva radice nella povertà della famiglia, presto ridotta al solo padre. Mai lei avrebbe dovuto fissarsi col pensiero su uno dei Làscovich che occupavano da soli tutti il Monte senza aver bisogno di scendere nemmeno in bottega perché anche le cose che non producevano, loro se le comperavano in città, all’ingrosso. Ma era stato l’Ottavio a mettere gli occhi su di lei e poi a cercarla attraverso un cugino di Cipiani e quindi a venire di persona a Balbòje e tornarvi sempre di sera e infine a promettere, dare la sua parola.

    Elisa era confusa ma anche orgogliosa che un Làscovich scendesse dal suo Monte per lei che fuori della casetta non possedeva se non l’orto e una capra. Per la gente facoltosa una ragazza povera era anche una ragazza tenera, cioè facile. Perciò lei si rendeva conto che le donne di Monte, le quali rispondevano al saluto ma non lo davano, mai avrebbero acconsentito a quelle nozze, e non mancava di dirlo al suo Ottavio. Questi ci pensava oscurandosi, poi concludeva: «Sarà quel che il destino vorrà». Il destino volle che lui sposasse una ragazza dei possidenti di Jezzi e che, quando tutti i benestanti di qua passarono nell’altra parte del confine, emigrasse con la sua donna in Canadà e vi comperasse una mezza Istria.

    Di qua era invece rimasto il cugino di Cipiani che adesso non poteva che consolarla. Lei gli acconsentì perché, ogni volta che veniva a far l’amore, il cugino le portava il ricordo di Ottavio. Talvolta era come stesse con lui: erano parenti, si somigliavano parecchio, tranne che nella statura. Anche per questo mezzo Làscovich, piccoletto nel fisico e nell’avere, Elisa restava una ragazza povera e per di più era una donna passata, per un altro. Si sposò anche lui, il cugino lo chiamò nella sua proprietà in Canadà,

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