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La ragazza di Petrovia
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E-book197 pagine3 ore

La ragazza di Petrovia

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Info su questo ebook

Il dramma dell'emigrazione sulla pelle di una madre con il neonato al seno: una raffigurazione senza tempo, emblema della sofferenza di tutte quelle persone che sono costrette a lasciare la propria terra in cerca di un futuro migliore...Secondo volume della celebrata Trilogia Istriana, "La ragazza di Petrovia" è un romanzo che racconta la delicata fase di inserimento delle migliaia di profughi istriani nell'Italia appena uscita da un disastroso conflitto mondiale. Ammassati nei cosiddetti "campi di raccolta", questi italiani, sfuggiti a Tito e alle rappresaglie antifasciste, scopriranno di non essere affatto i benvenuti. Protagonista del romanzo è Giustina, giovanissima profuga che si ritrova a dover portare avanti la gravidanza nonostante un contesto sociale così drammatico. Un libro che racconta la tragedia eterna dell'emigrazione, dell'intolleranza e dell'odio, riportando a galla eventi storici che l'opinione pubblica italiana ha scelto di dimenticare troppo presto.-
LinguaItaliano
Data di uscita29 mag 2023
ISBN9788728560372
La ragazza di Petrovia

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    Anteprima del libro

    La ragazza di Petrovia - Fulvio Tomizza

    La ragazza di Petrovia

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright ©1963, 2023 Fulvio Tomizza and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728560372

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Antologia critica

    «La storia non indulge a rusticanerie; i personaggi, e le loro situazioni, sono di oggi, pur con addosso un dolore arcaico, quello stesso che spezza la vita a Giustina e in fondo sovverte o la interrompe in tutti gli altri eroi del libro: un libro amaro e aspro, che si lega saldamente alla tragica eredità di uno Slataper».

    Giancarlo Vigorelli

    «Al suo secondo volume Tomizza fa un grande passo avanti. Si nota una nuova scioltezza, una capacità più efficace di fiato; una sicurezza più vera e profonda; una abilità nel tagliare le scene che davvero non potremmo desiderare migliore. Un inizio nel quale Tomizza, che è nato nel 1935, mostra, insieme, la sua fonda capacità di far vero; e un dolore d’esule che non potrebbe essere più assolutamente comunicativo. Tutto questo con una sobrietà di mezzi, con un attenersi a un realismo or minuto ora largo, con una bravura intelligente senza esibizionismi, che ricordano altri scrittori triestini (per dirla con geografia del tutto approssimativa). Ma più per contrasto che per rassomiglianza. Per un realismo che non è già più quello d’altri; ma che ha, a suo modo, una semplicità d’impianto, che s’avvale d’una sicurezza che ci tocca. E poi entra in scena la ragazza di Petrovia, e Tomizza acquista, quasi d’un tratto, ben altra novità; e un calore nuovo; e una difficilmente valutabile intelligenza sensuale. Perché la ragazza, tutta sensi e ch’egli scruta con un’abilità ora ragionata e ragionevole, e ora fatta soprattutto d’intuito e di comprensione, è una, senza forse, delle donne del Novecento che di colpo sentiamo appartenere al nostro tempo. Ma senza vogliosità di far nuovo. Per pura intuizione, che non recede davanti ai suggerimenti più animali, ma che sa tornare ai sentimenti; con così complessa struttura, con psicologismi che son veri al loro primo apparire, con esatte dizioni, con un amore della sua creatura tanto assoluto, da farci addirittura sentire nel clima della donna che il Tomizza racconta; e nei suoi scompensi e brividi, nelle sue più rarefatte verità, che ci son fatte note per via di languori e tremori e dubbi e difficili comprensioni. Questa, che potremmo a buon diritto chiamare una tragedia italiana, s’impone con l’indubbia veracità di una storia che, se davvero è tutta inventata, ci dà un’idea rara dello scrittore che ce la narra. Comunque: un libro da premio letterario per lettori difficili. Anche perché Tomizza nulla concede a facili sensazioni o diciture. Serio, s’è già detto».

    Aldo Camerino

    «Un libro interessante in cui l’atmosfera del campo dei profughi appare perfettamente disegnata: un libro nel quale non meno perfettamente rappresentata appare la figura di Giustina, nonostante la sua difficile ambiguità».

    Carlo Salinari

    «La ragazza di Petrovia ci presenta ancora il contadino di Materada, questa volta nel momento successivo alla scelta politica, quando ossia egli è giunto in Italia e vive, con la famiglia, in mezzo ad altri istriani sradicati in un campo profughi. È ossia questo il momento intermedio, incerto e confuso, momento di aspettative e di attese, preludio ad un nuovo inserimento in una terra diversa, abbandonato il paese dei padri, l’orizzonte consueto delle proprie campagne, il suono familiare del proprio dialetto, il clima della vita comunitaria rimasto immutato traverso successive dominazioni. L’abbandono della terra natale, motivato da una dominazione nuova che, contrariamente alle precedenti, si propone di frantumare anche il complesso tessuto di credenze popolari, si vena di struggimento, mentre nel contatto con la nuova terra si fanno pressanti ed urgenti nuove configurazioni culturali, nuove dimensioni al vivere. Prima d’ogni altra la condizione d’un lavoro non più autonomo, non più legato alla terra, e con essa al ciclo delle stagioni, ma condotto presso terzi, in qualità di salariato nell’ambito di una nuova struttura industriale. Alla voce dell’uomo che viene pacatamente ricomponendo in sé, traverso un continuo assorbimento di dati esterni ed una continua misurazione di questi con le disposizioni soggettive i tratti della propria fisionomia, si contrappone, questa volta, quella d’una ragazza istriana guidata più da spinte emotive che razionali, proiettata la realtà in uno scenario mitico con sapore d’antiche favole regionali. La ragazza di Petrovia, testimone del lento esodo dei propri compaesani, viene a scoprire il sesso e l’amore in un momento assai precario della vita della propria comunità; ed è appunto un amore senza speranza che la conduce oltre il confine a mescolare il suo destino con quello degli altri profughi, ad assistere al loro faticoso adattamento, senza comprenderli appieno, a tentare infine di nuovo la fuga verso l’orizzonte noto della propria infanzia, a trovarvi la morte. Il lento tessuto d’immagini e di pensieri vien così, per alterne voci, a ricomporre l’immagine del profugo sradicato, in un tempo senza movimento, quasi forzatamente posto l’uomo al margine della vita dei propri simili».

    Teresa Buongiorno

    «Non è un romanzo che diverte, ma un romanzo che nutre».

    Vladimiro Lisiani

    «Il secondo romanzo di Fulvio Tomizza rivela uno scrittore di notevoli capacità, impegnato in una ricerca seria e per certi aspetti originale. Anzitutto va notata la compattezza stilistica del libro e la padronanza che l’autore dimostra nell’uso degli strumenti tecnico-narrativi che si è scelto. I personaggi del romanzo sono essenzialmente degli individui sradicati: non solo per la condizione materiale di profughi in cui si trovano, quanto piuttosto per una sorta di rottura del loro equilibrio psicologico, in conseguenza di eventi di cui si rendono conto appieno pur subendoli drammaticamente. Per cogliere queste situazioni complesse e non di rado ambigue, Tomizza si serve di una tecnica di racconto in cui le vicende esterne, concrete, paiono emergere da una nebbia fluida di sensazioni interne che sole portano custoditi nel loro viluppo ogni storia ed ogni fatto».

    Giuseppe Costanzo

    «Non si parla qui del valore letterario dei due libri (Materada e La ragazza di Petrovia), che è assai alto e deve essere analizzato in profondità; si parla solo della testimonianza che Tomizza porta a questo problema: lo scambio delle popolazioni, questo problema che ci tormentava quarant’anni fa quando ne erano vittime i greci di Smirne e continua a tormentarci oggi che ne vediamo le vittime sparse in tutto il mondo. È una situazione in margine, quella del profugo, come quella del passeggero di una nave che affonda, eppure in lui la vita continua. È un aspetto misterioso del mondo moderno, che Fulvio Tomizza ci aiuta a comprendere».

    Alberto Spaini

    «Tomizza si rivela in questo suo secondo romanzo uno scrittore assai sottile nel lavoro di scavo delle coscienze, che porta talora ad un singolare spessore narrativo, ricco di motivi morali ed umani».

    Gian Carlo Ferretti

    Parte prima

    Vennero i camion e bloccarono i freni, si fermarono qui fra le baracche dai vari colori come arrivassero da competizioni diverse, vinti e insieme vincitori. Veramente dalla foga con cui avanzavano poteva sembrare che tutti indistintamente avessero vinto; ma la sconfitta venne fuori dopo, quando furono tutti indistintamente fermi sulla ghiaia, uno di qua, l’altro di là, visti dall’alto in tante posizioni che non formavano una figura geometrica purchessia, fermi sotto il sole che picchiettava specchiandosi nelle pozzanghere, e nessuno si curava di levare le alte masserizie, né di abbassare le sponde o di tirar giú il tendone.

    Gli uomini stavano seduti lungo il gradino che accompagna la bassa costruzione di docce e gabinetti al centro delle baracche. Fermi al sole, non si guardavano; ognuno teneva serrata nel pugno una chiave nuova. Ma gli occhi erano vivi, e se esitavano a levarsi dal cemento intatto e a fissarsi tra loro, per metà nudandosi e metà coprendosi di un freddo lucore, nello sforzo di studiare e indagare, era per vergogna di non tradire la speranza che, accompagnandosi all’idea di un possibile piú fondo squallore, si faceva sempre piú inquietante ed era comune a tutti.

    Finché non venne Gusto saltellante, che era il piú piccolo tra di loro, e con gli occhi non velati da alcun pudore o da alcuna necessità di dubbio e di ragionamento, guardò, o meglio, si lasciò guardare da ognuno dei sei uomini e poi disse: «Che c’è da stare col muso a terra? Non lo abbiamo scelto noi stessi? Non abbiamo forse firmato noi stessi la domanda, dopo aver avuto tutta un’estate di tempo per ritirarla?».

    Gli altri rimasero in silenzio, ed egli estrasse il pacchetto di sigarette, fece per prenderne una, ma indugiò a guardare la scritta in rosso sulla scatola. Gli accadeva di leggerla forse ora per la prima volta, anche perché con l’andare del tempo quelle erano diventate sigarette di sempre, o perlomeno sigarette che si fumavano da dieci anni esatti sulla terra di sempre. Si rese conto ch’era l’ultimo pacchetto che avrebbe fumato di quelle sigarette, comperate la mattina stessa al Dom. Con un rapido gesto spinse in fuori il cartone dal fondo e passò il pacchetto a sinistra, poi a destra.

    Ora tutti fumavano, grati in cuor loro della grezza cartina che immancabilmente si appiccicava sul labbro e dell’acre odore del fumo di tabacco ancor verde che in quei dieci anni li aveva accompagnati nelle pigre camminate per i campi e all’osteria di domenica, o aveva infuso alle loro chiacchiere un sapore di cosa nuova e si era fatto tutt’uno con i molti pensieri contrastanti, nei grandi letti di noce, nelle notti calde di quella stessa estate. Era ancora una cosa di sempre, come se, anziché sul limitare di una vigna o su una robusta panca del Dom, vestiti a festa e profilandosi davanti a loro quella fila di snelle baracche di legno, si trovassero in uno dei tanti luoghi di gita dove, volenti o nolenti, venivano trasportati dai camion nelle congestionate domeniche o feste nazionali, per assistere all’inaugurazione di fabbriche e casamenti che il Potere popolare – diceva poi l’oratore dalla tribuna ornata di fiori – aveva fatto erigere per loro.

    Gusto intascò il pacchetto e ruppe il silenzio credendo di parlare per tutti.

    «Ci dànno l’alloggio di cui già avete le chiavi; ci dànno due pasti al giorno. Sapete, anche il sussidio ci dànno.»

    Gli uomini di nuovo guardarono a terra e avvertirono ora che quell’acre odore di fumo non era piú tutt’uno con i loro pensieri, veniva anzi a ritardare la loro accettazione di un nuovo ordine di idee, di una realtà nuova, cui volenti o nolenti dovevano sottoporsi. Buttarono i mozziconi, li spensero col piede nervosamente, si guardarono negli occhi che piú non frugavano dentro gli uni negli altri.

    Gusto finse di perdere la pazienza e disse: «Che c’è da stare con la barba sul petto? Non lo avete scelto voi stessi?».

    Allora Doro, il piú grosso e il piú alto fra tutti, rosso di capelli e nel viso, lo guardò in modo strano, quasi lo vedesse per la prima volta insieme alla fresca vernice delle baracche e le rocce dei monti che si profilavano oltre il recinto del Campo; si rivolse agli altri scoprendo in una smorfia la corona di denti rovinati dal vino, e strizzò l’occhio, o meglio, fu la cicatrice che gli solca una guancia a sollevarglisi rapidamente verso l’occhio sinistro. Tutti gli altri mostrarono le loro corone di denti piú o meno rovinate dal vino, mentre gli occhi abbracciavano in un’unica visione Gusto e le baracche e i monti, e il luccichio freddo si scioglieva ormai lentamente in un umidore opaco ch’era già segno di aperta ironia.

    Si alzarono tutti e, come fecero per mettersi in cammino, fermarono per un attimo lo sguardo sulla nuova chiave stretta nel pugno.

    Si avviarono ai camion e scaricarono. Aprirono le baracche con doppio giro di chiave e portarono dentro i vecchi, le robe, le mogli, i figli.

    Questa fu solo la prima ondata, che poteva ancora dirsi di prova, di sondaggio, e quindi ancora di speranza; ma a estate finita, dopo le vendemmie e al primo tepore delle giacche e calze di lana, altri camion vennero a uno a uno rombando, lenti e fragorosi, come se le baracche rimaste ancor vuote qua e là fossero una cima sorniona da prendersi con tutte le precauzioni. Allora pareva che fosse un solo camion ad entrare sbandando attraverso il cancello mentre il custode del Campo impartiva i comandi con larghi gesti della mano come lo facesse entrare in una sua aia privata: un unico camion che ogni volta avesse preso una strada diversa, ora la strada per Cattinara, ora quella per Prosecco o per Opicina, nella sua assillante volontà di far presto (resa piú febbrile da una precisa imposizione di non accelerare), per correre e portare in salvo altra gente quasi scampata a un naufragio, una alluvione, e comunque seduta sul ciglio di una strada, gli occhi fissi sulle poche masserizie, a due passi da un posto di blocco.

    Il camion entrava e partiva, rientrava e ripartiva, e tante volte la gente non aveva ancora finito di portar dentro le sue poche cose dalla stradetta, ch’esso già ritornava, sicché qualcuno avrebbe potuto pensare trattarsi di un secondo carico di coloro che erano da poco venuti e si trovavano ancora sulla ghiaia alle prese con pesanti pezzi di mobilio, casse, ceste di polli, vasi di olio e sacchi di farina.

    Erano gli ultimi venuti di Petrovia; e non si fermavano sul gradino di cemento a guardarsi la punta delle scarpe, seduti gomito contro gomito, un po’ perché il camion aveva fretta e non poteva aspettare, un po’ perché erano gente provata da quegli ultimi mesi di costernazione comune a quelli che erano in procinto di partire come a quelli che ormai si erano rassegnati a restare: chiusi a tutte le speranze, erano convinti che il cerchio magico che li aveva tenuti uniti da sempre si fosse per sempre spezzato ad opera di una decisione presa da due ministri, o di un nero destino, che tanto valeva partire quanto restare, in entrambi i casi non rimaneva che chiudersi in se stessi, nel piccolo giro dei propri rancori e dei propri interessi, chi in atto di sfida al mondo o all’Altissimo che aveva fatto le sue fortune sulle loro disgrazie, chi in un disperato e martellante silenzio.

    Perciò scaricavano le loro robe e le portavano dentro; prendevano mogli, figli, vecchi, e li portavano dentro.

    Io rimasi ritto in piedi mentre la porta mi si chiudeva alle spalle, e guardavo le nostre poche cose deposte alla rinfusa nel mezzo di quella baracca, e il vecchio padre seduto alla meglio su di esse che teneva sulle ginocchia mia figlia di nove anni e, da un lato due letti sovrapposti e mio fratello con la moglie e il figlioletto, dall’altro mia moglie col figlio già presto da sposare che si tenevano abbracciati; e non feci un passo, lasciai la porta sbattere con ritmica insistenza al vento di ottobre.

    Cosí, ci guardammo; e fu come se su di noi pesasse ancora una grande mano che ci avesse perentoriamente scacciati da una bella casa d’oro nella quale eravamo fino allora vissuti onestamente e con un profondo senso di gratitudine: la mano di un padrone che ci avesse duramente indicato la strada non certo per volontà sua – ché i padroni non hanno mai colpa – ma a opera della cattiveria di servi invidiosi, i quali per tenerselo in buona avevano soffiato a nostro danno qualcosa nelle sue orecchie. E, forse per i tre gradini che avevamo dovuto salire per rinchiuderci nella baracca dal legno lucido e fresco e per il ricordo recente del camion che ci aveva appena lasciati con le sue scosse e i suoi sobbalzi improvvisi, era come se stessimo sospesi da terra e, tanto la testa ancora ci ronzava, fossimo ancora portati in giro per il mondo, chiusi in una di quelle casette del circo che poggiano su grosse ruote di gomma, a mostrare la nostra vergogna e la nostra colpa.

    La porta ancora sbatteva; la rinchiusi con forza e incontrai lo sguardo umido di mia moglie che pareva provenire dalla lontananza dei suoi giovani anni. Entrambi leggemmo l’uno negli occhi dell’altro la condanna che ci gravava sul capo e la nostra

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