Il sogno dalmata
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Anteprima del libro
Il sogno dalmata - Fulvio Tomizza
Il sogno dalmata
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright ©2001, 2023 Fulvio Tomizza and SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728560488
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
www.sagaegmont.com
Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.
Il sogno dalmata
Il sogno dalmata è un romanzo: ogni eventuale coincidenza con luoghi, eventi e persone reali deve essere vista come puramente casuale.
Parte prima
Due sono i modi per ottenere una cosa non tua che desideri, della quale hai bisogno, che ti starebbe bene avere: o la prendi come ti appartenesse, o fai in modo di fartela dare.
Da questi due orientamenti mentali e due comportamenti in cui si divide l’umanità, discende una innumerevole quantità di posizioni intermedie e intercambiabili, nate dal conflitto tra istinto e necessità di apparire (anche di sentirsi) persone rispettabili, in conformità con l’educazione e l’orgoglio familiare, l’ambizione personale, le leggi, i precetti della religione, i modelli della cultura e delle ideologie.
Esiste infine un terzo gruppo di individui i quali, sfibrati dalla lunga lotta, anche anteriore a loro, tra brama di possesso e sete di onorabilità, finiscono per rinunciare all’una e col passare del tempo sanno fare a meno anche dell’altra; e sono in realtà persone piuttosto rare.
La finestra a cui sono affacciato nell’unico piano alto di una casa di campagna ritaglia una cartolina verticale di paesaggio per me inconfondibile d’Istria rossa in prossimità del mare. Dopo il termine del mio prato abitato da pochi ulivi vecchi e da un robusto rovere, il terreno fa una leggera conca nella quale si alternano in senso orizzontale filari di acacie ancora spoglie, appezzamenti di terra arata, tratti irregolari di bosco secco ma folto, distese nude di erba giallastra, un segmento nutrito di biancospino in fiore. La lieve depressione è attraversata obliquamente da una strada percorsa da macchine e soprattutto da camion, nonostante oggi sia la domenica di Passione. Il sostenuto traffico di questi ultimi autoveicoli da lavoro mi fa pensare che un residuo di comunismo, indifferente alle festività religiose e promettentemente rivolto all’interesse privato, conviva impassibile col nuovo regime croato, il quale poggia sul nazionalismo, sui fautori del libero mercato e sulla Chiesa di Zagabria.
Nel campo rosso, subito oltre i miei ulivi, una vecchia vestita di nero è curva a raccogliere radicchio selvatico, ponendolo nel grembiule turchino. La giornata solare è di forte anticipo sulla stagione primaverile. Se ci fosse la bora, quella macchiolina azzurra che contrasta e insieme sigla il costume storico della vecchia discesa dalle colline interne s’intonerebbe con la striscia di mare alto e gagliardo il quale incomincerebbe a stendersi dal termine del ciglio frastagliato della conca, subito ai piedi del villaggio di Petròvia, assorbendosi i rimanenti tre chilometri di campagna che da qui non si vedono.
Oltre all’abitato di Petròvia, fra i tronchi di robinie traspare, vicinissima alla donna del radicchio, una di quelle case che i contadini neoresidenti nella zona, aiutandosi l’un l’altro, innalzerebbero dall’oggi al domani nel caso avessero acquistato tutto il materiale occorrente. Le case si elevano invece per gradi, che significano mesi, anni, e qualche volta rimangono incompiute e ugualmente vengono abitate, il tetto sostituito da teli di plastica, un tubo per il camino infilato nel muro maestro. La casa del figlio della vecchia appare invece rifinita, le tegole di un rosso più sfacciato del terreno circostante.
Jelko ha l’impianto di riscaldamento, il televisore naturalmente, da ultimo il telefono e da sempre le cataste di legna, il pagliaio smangiato, le stalle e la tettoia per gli attrezzi meccanici. È nato quasi orfano, suo padre caduto in guerra con l’esercito italiano, ma non parla che croato. Lavora parte della mia terra ripagandomi col preservarla dalle acacie e dai rovi. Quando sale ad ararmi l’orto e a potarmi la pergola, secondo quanto abbiamo convenuto a voce, è immusonito, recalcitra, vi impiega una sola mano. Rispetto ai pochi sopravvissuti di qui, non ha complessi di natura politica, è e si sente croato, sotto il comunismo si lavorava per loro
(la bestemmia in italiano), adesso riconosce che si stava meglio prima, altra bestemmia italiana all’indirizzo dei ladri, ladròn anche Dio.
Se succedesse un alterco tra noi due, lui mi afferrerebbe per il gargàte, grande e grosso com’è con quel faccione dai denti paurosamente piccoli, diradati: le prenderei di santa ragione. Perché sono un vecchio fannullone, uno che ha la macchina targata Trieste, dove lui va tutti i sabati a comprarsi perfino le sementi, Dio sporcaciùn, e non so con quale lingua si spieghi. Sua madre, in nero già da ragazza per la vedovanza, gli ha insegnato fin da piccolo come ha da essere un uomo che per di più è orfano. La moglie è grossa e belloccia, occhi di sparviera, braccia da lavandera, le quali, a quanto dicono, si abbattono di quando in quando sulla suocera, ma il loro bersaglio ideale sarebbe mia moglie tutta cittadina, allorché viene con la sua utilitaria a cuocermi la minestra.
Mi fisso a osservare i rettangoli di terra, un tempo molto più numerosi ed estesi. Com’è il suo colore che tanto mi richiama a sé e di cui non trovo l’uguale?
L’accostamento più calzante rimanda alla ruggine del ferro, con tonalità diverse, più cupe o più tenui a seconda delle posizioni, della maggior presenza di bauxite (da cui assume un che di violaceo), dal fatto se è arata da poco, da molto, se piove, se è secco. Una cosa è certa: chi vi è nato si porta addosso questa tinta come un marchio che ne segna il corpo e ne imprime il carattere, dandogli larghezza e insicurezza perché simile terra non si misura né ha prezzo, tanto essa è dura da lavorare, non possiede molto humus, frutta purché piova con costante regolarità, il che avviene un anno su dieci.
Normalmente si affonda in un fango magro o ci si screpola la pelle contro le zolle sode come sasso. E la ruggine invade tutto, le strade, le case; tinteggia ogni pietra di quel suo colore inconfondibile, i ciottoli, la ghiaia, le siepi, la biancheria intima, l’asciugamano, le lenzuola. Non si tratta di uno sporco lercio bensì povero e inesorabile, del quale ci si vergogna. Umago, per non dire Pola, sarebbero cittadine rispettabili se non avessero questa ruggine sui loro palazzi, le pozze di acqua rossastra nelle piazze, quale umiliazione quando vi transita un pullman straniero e vi si inzacchera e ne rimarrà a lungo schizzato! Il suo equivalente di rozzezza e zoticità in campo sonoro lo trovo nella lettera zeta, della quale del resto qui si fa largo uso convertendovi quasi tutte le ci
dolci, e io ben due z
porto nel mio cognome: predestinazione? Se dovessi scegliere un simbolo per i miei luoghi indicherei una zolla, che noi chiamiamo zzòpa.
In second’ordine metterei la pietra. Grotte enormi, informi, prive di un criterio e di prospettive future, sempre state e destinate a starci in sterile eternità, si radicano in loro stesse, qui terra non ne trovi e anche nei coltivi finisci per battere nel sasso. Si allargano in superficie nei tratti chiamati per forza di cose bosco, dove lasciano crescere roveri, carpini, aceri, rovi, asparagi selvatici: di un colore cenere, di un suono che è come la erre del rotolare di tutti i massi e delle loro schegge fuori dall’ultimo sacco rimasto al buon Dio dopo aver vuotato gli altri nel creare l’universo.
Terze vengono le spine. Campi, boschi e strade sono delimitati o da muretti a secco oppure, e spesso insieme, dalle siepi perlopiù formate da rovi che non ti lasciano passare rasente e quando ritieni di avercela fatta ti richiamano al loro ragionamento, anch’esso molto di qua, afferrandoti per un calzone o una manica: «Neanche si ringrazia?».
Sono strigliate familiari rispetto all’abbraccio del paliuro, spina Christi, ritto e onesto a mostrarti tutte le spine che si vedono e bisogna far vedere, salvo serbarti l’insidia di quelle che s’incurvano a uncino sul retro del ramo. Qui non ti districhi facilmente, hai sempre un nuovo conto da pagare e le cose vanno trattate con calma, lui non ha alcuna fretta. E gli aculei del biancospino che ti anticipano un brivido di morte? E i cardi nascosti fra l’erba della quale non ti curi per badare a proteggerti dal ginocchio alla testa? E le robinie che impropriamente chiamiamo acacie? Nemmeno l’asparago e il pungitopo di cui ti curvi a cogliere i germogli per la frittata ti cedono gratis il loro dono. E, liberata la mano dalle loro esili ma multiple spine, ti levi sui tacchi quando da altre spine sei trattenuto per i capelli o un festone di rovo ha preso confidenza con la tua schiena e non attende che di fartelo sapere. Anche da sciolti si procede con una catena al piede, una forca al collo, spunzoni conficcati nella carne che occorrerà estrarre con l’ago versando una goccia di sangue. Le spine sono di colore violaceo come il pruno che non ne è sprovvisto e non saprei dare loro una lettera dell’alfabeto che non sia la pi
di pungere, piccare, pinzare, purgare, punire.
Nessun uomo spuntato da un simile intrico selvatico di elementi intonati tra loro si considererà alla lunga una persona importante, sempre sarà incline ad amplificare le qualità degli estranei e dei loro ambienti. E tuttavia non esiste altro luogo nel quale egli si sentirà nel posto giusto.
Quando da ragazzo tornavo dalle scuole, scendendo con la corriera da Buje, all’impatto col primo solco di terrarossa il cuore mi confermava che eravamo rientrati. Mi si profilavano davanti le poche case di Materada, anch’esse armonizzate nell’improvvisazione e nella trasandatezza, con la chiesa invece decorosa e il camposanto privo di un sasso (io credo che i miei antenati nel decidere dove costruire la chiesa nella non piccola proprietà loro assegnata avessero prima penato a cercare un terreno tutto polpa). L’unica mia poesiola, scritta a diciott’anni quando alla morte di mio padre avevo terminato il liceo, parlava di una terrarossa e di una fossa, dove il padre giace e dove anch’io avrei trovato pace.
È ricomparso il mare, una fetta ben più azzurra del cielo, orlo dritto e splendente, cela il mondo che vi sorge oltre e talvolta lo nega come a dire: è tutto qui. Ora ridondante alla base ora ridotto al suo profilo di delimitazione o chiusura, accompagna il ciglio sinuoso della conca. Lo completa, dando ad esso uno sfondo non sospeso ma reale, contro il quale la terraferma si staglia netta e congiunge le case di Petròvia all’albergo Adriatic di Umago.
Eppure questa quarta componente della natura del luogo non è soltanto accessoria né decorativa; ne fa parte in modo indiretto quale elemento più contrastante degli altri ma ugualmente necessario. La terrarossa non esisterebbe se in prossimità o in sua vista non ci fosse il mare, tant’è vero che a pochi chilometri alle mie spalle il terreno può permettersi di scegliersi un diverso colore e una differente sostanza. Ruggine e azzurro hanno col tempo finito per accordarsi anche all’occhio e trovano la loro fusione sulla costa: nei luoghi abitati dove, a parte le incresciose pozzanghere quando piove, la pietra delle mura, dei moli e del selciato ha avuto agio di lavarsi e risciacquarsi, e ne è uscita più bianca del pane. Meglio ancora si compenetrano nei lunghi tratti in cui i campi scendono alla scogliera, accostandovi le loro viti, gli ulivi, i frumenti, i canneti, oppure lasciando che poco sopra le lastre di sasso le tamerici