La visitatrice
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Anteprima del libro
La visitatrice - Fulvio Tomizza
La visitatrice
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright ©2000, 2023 Fulvio Tomizza and SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728560471
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
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www.sagaegmont.com
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La visitatrice
Questa è opera di fantasia, anche per quanto concerne taluni episodi della recente storia politica della Slovenia: il cosiddetto caso Vesel
innanzi a tutti. Pertanto ogni eventuale riferimento a fatti e a persone reali va considerato puramente casuale.
Parte prima
I
Accompagnai mia moglie alla stazione ferroviaria. Non mi sentivo molto disposto a seguirla fino al treno, tanto più che partiva con la figlia. Ma era la prima volta in trent’anni di matrimonio che si metteva in viaggio senza di me, e la compagnia di nostra figlia, prossima alle nozze, mi pareva un po’ forzata, voluta dalla sua congenita euforia.
Le abbracciai, raccomandai loro di divertirsi a Bologna, dove si recavano per una questione di eredità con la cugina di Eugenia dopo la recente morte di suo padre. Comparvero al finestrino, agitarono la mano, rimpicciolirono.
Mi avevano lasciato solo, poteva accadere che non mi rivedessero più. Poi pensai che con la morte dello zio Efrem le cugine Sidis erano di fatto rimaste senza un genitore, portavano avanti a metà un nome di famiglia che si sarebbe estinto con loro. Un antico ceppo ebraico prosperato perlopiù in Grecia.
Riattraversai il piccolo atrio che immetteva ai binari, subito fuori c’era la fermata dell’autobus che mi avrebbe ricondotto davanti al portone di casa.
Il cielo di marzo si era ancor più oscurato e non avevo con me l’ombrello, del resto non indispensabile perché da casa mia alla stazione e ritorno restavo quasi di continuo al coperto.
L’autobus comparve e si accostò nel volgere di un minuto. Salii, il veicolo compì un semigiro dell’edificio, imboccò la corsia riservata ai mezzi di trasporto pubblico lambendo il giardinetto della piazzola. Inopinatamente fermò, come disarmato dall’improvviso acquazzone. L’autista riprovò ad avviare il motore, poi si arrese; spalancò le portiere.
Svelti scesero alcuni viaggiatori provvisti di ombrello in una zona toccata da diverse linee di autobus. Insieme ad altri esitai contando su un pronto aggiustamento del guasto meccanico, sulla sostituzione dell’autobus, sul fatto che il conduttore al sicuro non avrebbe scaricato noi sotto la pioggia.
Trascorse del tempo, il rovescio si attenuò, calcolai il paio di minuti necessari per affrettarmi alla prossima fermata in una viuzza di raccordo tra le arterie cittadine.
Rimasi ancora incerto riguardando il cielo. A terra una donna di mezza età, bionda, belloccia, con vistosa valigia e in tailleur pantalone gessato, era in impaziente attesa dello spazio che scendendo le avrei lasciato. Stavo osservando la sua figura non poco eccentrica quando lei, spazientita dalla mia indecisione, mi obiettò: «Intende scendere o restar su?».
Tradiva l’accento straniero – slavo – e di colpo mi riportò a tempi lontani che avevano a che fare con la guerra o con lo strascico seguitone, altrettanto greve per il suo Paese. Ma l’abbigliamento di una certa pretesa, il bagaglio intonato, la conoscenza ostentata della lingua italiana, mettevano in mostra l’avvenuta rivincita su una lunga stagione che ne aveva avvilito la personalità e l’ambizione femminile.
Scesi deciso sotto l’acqua che l’aveva un po’ scompigliata e un po’ sciupata, specie nelle scarpette troppo eleganti non soltanto per la giornata infausta. Le rimandai alle spalle:
«Salga pure, tanto non parte.»
Non raccolse e la lasciai con l’ingombrante valigia di pelle chiara.
L’intoppo mi faceva rammaricare di non essermi intrattenuto nella stazione di solito invasa da jugoslavi in bivacco sui loro pacchi, i quali altre volte, in quell’ora pomeridiana per me particolarmente delicata, mi avevano reso disinvolto l’uso della latrina. La vescica stava diventando la parte centrale del mio corpo. Dovevo affrettarmi per prendere il prossimo autobus, oppure ripiegare verso un taxi, difficile da trovare con la pioggia. Provai a correre incontro ai goccioloni che m’investivano in piena faccia, attento a non cercar sollievo effimero premendomi il basso ventre.
Il tratto di via riservata ai mezzi pubblici tracciava un’ampia curva, alla cui fine il traffico veicolare si univa a quello privato. In quel punto di conversione della via Ghega c’erano, poco distanti tra loro, due fermate di parecchie linee di autobus. Mi aggregai ai viaggiatori in attesa nel luogo di sosta più avanzato, volsi lo sguardo in direzione del percorso appena compiuto e, invece dell’autobus, vidi avanzare trafelata, appesantita, la donna con la valigia.
Mi adocchiò e decise di aspettare alla fermata più arretrata, come se non intendesse scontrarsi ancora con me.
Stabilii che era una slovena in visita a parenti o a persone amiche. Finsi di non accorgermi dell’aria lievemente sprezzante con la quale nascondeva il proprio impaccio, ora rimarcato da qualcosa che prima non avevo notato. Portava gli occhiali, due lenti quadrate nude, saldate da una montatura argentea. Non sarebbe mai stata, neppure negli spediti anni giovanili, il mio tipo di donna. Per la statura imponente, di cui pareva particolarmente fiera, e la relativa ossatura forte; per un raccordo troppo stretto, compatto, tra carne e ossa.
Fui l’ultimo a montare sull’autobus. Lei ne lesse il numero e si precipitò a raggiungerlo, decisamente goffa. Gridai al conducente di aspettare. Le portiere automatiche si rispalancarono tutte e la forestiera salì contrariata del mio mezzo aiuto. Dissi poi canzonandola e un po’ sondandola:
«Doveva pur ricordare che anche la sua linea era il sei.»
Non rispose.
Mi spinsi avanti ripagandola della stessa indifferenza. Il peso della vescica mi costringeva a contare mentalmente le fermate che si frapponevano alla mia; e più mi ci avvicinavo, più il fastidio si assottigliava in dolore, in spasimo. Me ne distolsi ancora col pensiero, argomentando che la viaggiatrice era giustamente diretta al capolinea di San Giovanni, là dove il rione più inoltrato verso il Carso era maggiormente popolato di sloveni.
Guadagnai piano piano il centro dell’autobus e finalmente scesi, seguito da un nutrito gruppo di passeggeri. Le portiere ancora si chiusero. Ma di là a poco si riaprirono provocando un sobbalzo dell’autoveicolo, che riprese la marcia. E ne era discesa lei, arrossata e scarmigliata, ma dall’aria tutt’altro che dimessa.
Estrassi il mazzo di chiavi, la donna sola alle mie spalle. Spinsi il portone e mi girai a guardarla.
Aveva preso nota del numero del caseggiato, mostrò di dovervisi introdurre controvoglia, per quella piccola congiura del caso che non le consentiva di disfarsi di una compagnia nient’affatto gradita.
M’infiltrai nel palazzone di fine secolo tenendo aperto il battente. E con immutata ironia la incoraggiai:
«Era destino che dovessimo compiere lo stesso tragitto.»
Uscì in una smorfia di sopportazione.
Percorrendo la prima, breve rampa di scale che immette alla portineria e al corridoio diretto all’ascensore, fui tentato di liberarla dalla valigia, benché gliela supponessi leggera, riempita di abiti e di altri oggetti personali. Ma ero un uomo ormai vecchio e il mio gesto mi avrebbe reso ancor più ridicolmente invadente.
L’uno dietro l’altra attraversammo il corridoio, fra vetrate opache e la parete fitta di porticine ben mimetizzate dei ripostigli per le pulizie della casa. L’ascensore era fermo al pianoterra, la sua vista mi trasmise una fitta che non riuscii a nascondere. Arduo sarebbe stato salire appoggiandomi ora su un piede ora sull’altro fino al mio ultimo piano, resistere all’impeto liberatorio che non accettava più dilazioni allorché infilavo la chiave, da tempo sfoderata, nella toppa. Ora per di più la tizia mi avrebbe costretto a fermare a uno dei piani intermedi.
Spinsi anche questa porta e lei si prese, con diritto, la precedenza. Prima di schiacciare il pulsante la interrogai con espressione secca, quasi scontrosa.
«Quarto piano» rispose parimenti asciutta.
A quel piano, l’ultimo dello stabile e diviso in due appartamenti pressoché identici, abitavamo noi e abitava una famiglia che, per i suoi sentimenti civili e la relativa linea politica, in alcun modo poteva mantenere rapporti con gente slovena che non fosse di servizio. Come per un’arcana suggestione che recava paura, minaccia, ma anche un riflesso di delizia e buonasorte remote, la gravezza