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L'organista di Mainz: e altri racconti
L'organista di Mainz: e altri racconti
L'organista di Mainz: e altri racconti
E-book189 pagine2 ore

L'organista di Mainz: e altri racconti

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Info su questo ebook

Un organista alla fine del Settecento in una Magonza travolta dalle vicende storiche. Un farmacista con un macabro rito quotidiano. Un uomo che imita il canto degli uccelli in uno scenario inquietante. Un anziano signore immerso nei ricordi tenta invano di prenderne le distanze. Due ex internati di un campo di sterminio nazista si confrontano con i loro incubi. Un’archeologa nella Vienna di inizio Novecento si accinge alla Discesa agli Inferi. Un bambino con l’aiuto di un santo protettore prepara la vendetta contro il drago di ferro. Alla fine una breve e ironica riflessione autobiografica.
Personaggi che vivono la propria storia investiti e a volte travolti dalla grande Storia, accomunati da una strenua lotta per difendere ciò che li rende profondamente umani.
LinguaItaliano
Data di uscita3 dic 2022
ISBN9791222410296
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    Anteprima del libro

    L'organista di Mainz - Andrea Chimenti

    L'organista di Mainz

    I

    Era il 25 ottobre del 1792, lo ricordo molto bene, difficile dimenticare. L’autunno a Mainz era arrivato all’improvviso. La pioggia torrenziale aveva allagato i campi arsi da un insolito sole estivo che si era protratto per troppo tempo. Al mattino presto il vento aveva abbattuto numerosi tigli nel piazzale della chiesa di Sant’Agostino; si trovavano lì da molti anni, da molto prima che fossero costruiti la chiesa e il convento. Mio padre Johannes mi raccontava che quando era bambino, era stato dato l'annuncio che sarebbero stati abbattuti per far spazio al cantiere per la costruzione della chiesa, e se questo non era accaduto era stato grazie ai cittadini e alle loro proteste. E ora erano lì, sdraiati a terra, con le loro chiome di un tenue giallo d’autunno, agitate per un’ultima volta dal vento e dalla pioggia.

    Si temeva che il Reno esondasse, in poche ore si era gonfiato e sembrava trasportare tutta la rabbia austro-prussiana dopo che il generale Custine, a capo delle truppe francesi, era entrato in città, solo quattro giorni prima. Questo improvviso maltempo stava scombussolando Mainz, come non fossero bastati gli avvenimenti di quei giorni.

    La città era a soqquadro, l’esercito francese bivaccava ovunque e molti degli abitanti si erano dati un gran da fare ad accogliere chi portava quell’ondata illuminista tanto attesa. Già dal giorno successivo al loro ingresso, una ventina di cittadini avevano fondato un club giacobino: la Gesellschaft der Freunde der Freiheit und Gleichheit (Società degli Amici della Libertà e dell’Uguaglianza). Tra questi ci sarebbe stato senza dubbio anche mio padre Johannes Neumann, giacobino convinto, se non fosse stato colpito da un pallettone d’archibugio prussiano proprio il giorno dell’arrivo del generale Custine e del suo esercito. Rimasto in vita due giorni, tra atroci sofferenze, giaceva ora nella chiesa di Sant’Agostino in attesa dell’ultimo saluto. La cattiva sorte volle che proprio lui non potesse coronare il suo sogno di Repubblica, lui con i suoi ideali di uguaglianza e libertà.

    Era un uomo semplice ma istruito, che seppe crescermi con buoni ideali, tanto da mettermi il nome Freiheit, libertà. Freiheit Neumann è il mio nome e per questo nome sono stato sbeffeggiato non poco da bambino. A me sembrava normale, e nonostante tutto sono riuscito a portarlo sempre con fierezza.

    Così, superata da poco l’adolescenza, ero rimasto solo: mia madre era morta molti anni prima e a malapena ricordavo il suo volto. Mi sarebbe mancato quell’uomo che, un po’ a causa della mia timidezza, un po’ per la mia goffaggine, consideravo la mia fortezza, il mio punto di riferimento.

    Non fece neanche in tempo ad assistere alla fuga del Principe Arcivescovo, col suo nome altisonante: Friedrich Karl Joseph von Erthal. Non gli era mai piaciuto; troppo astuto per i suoi gusti: vedendo il mutare dei tempi e l’inesorabile avanzata del libero pensiero cercava di apparire aperto, di larghe vedute, ma in realtà pensava solo al suo tornaconto.

    Infatti, con l’arrivo dei francesi, Friedrich Karl Joseph von Erthal alzò i tacchi e lasciò libero il campo a quella che da lì a pochi mesi sarebbe diventata la prima repubblica tedesca di stampo giacobino, con il sogno di essere annessa alla Francia.

    Constatata la sua morte, mio padre fu trasferito dall’ospedale tendato nella chiesa di Sant’Agostino. Quando entrai lì, il cuore mi batteva forte; non solo per la corsa sotto la pioggia, ma soprattutto per la notizia che mi era arrivata solo pochi minuti prima. Non era l’unico, c’erano diversi corpi, alcuni nelle bare, altri solo adagiati sul pavimento e coperti da teli. Attraversai la navata con quell’odore di cera misto a incenso − se dovessi pensare all’odore della morte direi quello, ancor più che il marcio dei fiori appassiti. Mi fermai all’altezza dell’ambone a destra, c’era un mugolare sommesso di donne che si mescolava al parlottare dei barellieri e di alcuni ufficiali francesi. La pioggia batteva sulle grandi vetrate, le zampe delle panche di legno spostate per fare spazio stridevano.

    « Cherchez-vous quelqu’un?».

    Un soldato mi rivolse la parola bruscamente, io lo guardai senza capire cosa volesse.

    « Qui cherches-tu garçon?».

    Padre Peter, un frate che avevo visto altre volte in Sant’Agostino, fece un cenno al soldato e si avvicinò: «Chi stai cercando ragazzo? Hai forse un parente tra questi morti?».

    «Mio padre, mi hanno detto».

    Senza dire altro il frate si chinò sulla prima salma scoprendone il volto, avvicinandovi un lume a petrolio; lo guardai e feci segno di no con la testa; così per il secondo e il terzo, poi rimasi immobile nel guardare il quarto uomo, non feci nessun cenno.

    «Allora? È questo?».

    Risposi un timido sì con la testa e allora padre Peter lo scoprì del tutto.

    «Sei il figlio di Johannes Neumann. Mi dispiace ragazzo, era un brav’uomo, aveva le sue idee, ma era un brav’uomo».

    La vista mi si appannò e nel tentativo di non fare uscire quelle lacrime che mi stavano gonfiando gli occhi voltai la testa a guardare in fondo alla chiesa, poi rivolsi nuovamente lo sguardo a quell’uomo sdraiato. Mio padre.

    Il suo vestito semplice, con l’immancabile gilet nero, era sporco e macchiato di sangue. Il volto mostrava la sofferenza di quegli ultimi giorni con le palpebre che non erano del tutto chiuse e che io non ebbi il coraggio di congiungere. Le mani sul petto, posate l’una sull’altra, stringevano un rosario di legno che in vita non avrebbe mai stretto. Guardai le unghie perché ogni volta mi viene da guardarle, sembrano raccontare gli ultimi momenti di una vita. Mio padre, lavoratore, non aveva certo mani da lacchè o damerino, ma le sue unghie erano più nere del solito, forse sporche di battaglia, sporche di vita, di chi l’aveva vissuta veramente fino all’ultimo, e non so dire perché si abbinassero così male a quel rosario, ché Cristo doveva essere stato conciato peggio, alla sua morte.

    Due giorni dopo al cimitero c’era più fango che erba, e durante la sepoltura mi si avvicinò padre Peter: «Ho saputo che ti chiami Freiheit, nome singolare… sei stato battezzato?».

    «Sì».

    «Conoscevo di vista tuo padre, persona onesta e buon lavoratore. Cosa pensi di fare ora?»

    «Non so, ancora non ci ho pensato».

    «Tra questi morti c’è anche chi faceva il soffiatore a Sant’Agostino, è sepolto nella terza fossa dopo quella di tuo padre».

    «Soffiatore?»

    «Sì, il soffiatore all’organo, l’alzamantici. È un lavoro semplice, noioso forse, ma meglio di niente. Non sei robusto, ma non occorrono braccia troppo forti, ti va di prendere il suo posto?».

    Pur non sapendo bene di cosa si trattasse, accettai, e in cambio mi venne offerto vitto e alloggio presso l’adiacente convento agostiniano. Fu così che pochi giorni dopo, nella tarda mattinata, mi presentai in chiesa come concordato. L’organo era in una balconata sopra l’ingresso e mi sembrava di vederlo per la prima volta: maestoso, con quella fila di canne che assomigliavano a volti senza occhi e bocche pronte a spalancarsi. Sedetti su una panca avvolto e intimorito da tanta capricciosa bellezza fatta di affreschi, legni scolpiti, stucchi e ori.

    Non passò molto tempo prima che padre Peter arrivasse; mi venne incontro con il volto soddisfatto vedendo che mi ero presentato puntuale.

    Lo seguii su per una scala ripida che portava alla balconata e mi trovai di fronte a quel gigantesco essere dormiente.

    «Sai come funziona un organo?».

    Feci cenno di no, restando timidamente appoggiato alla ringhiera. Lui mi invitò ad avvicinarmi.

    «Conosci le note? Poco importa per quello che devi fare ora, ma un giorno potresti sedere davanti a questa tastiera; da alzamantici a organista c’è di mezzo il mare, ma tu sei giovane e hai tutta la vita davanti».

    Così padre Peter iniziò a illustrarmi l’organo nelle sue fattezze, e man mano che proseguiva sembrava andare in estasi tanta era la passione e l’amore che aveva per ogni piccolo dettaglio, come se quell’organo non fosse solo un insieme di legni e metalli, ma un essere sovrannaturale; la cosa che più assomigliava a Dio su questa terra, diceva padre Peter. Io ascoltavo e i miei occhi si sgranavano cercando di capire quella cascata di parole e descrizioni come fossero una fuga di Bach: le canne di metallo e quelle di legno, quelle ad ancia o labiali, la tastiera e la pedaliera, la meccanica di trasmissione, i pomelli a tiro che comandano i registri, quelli violeggianti che ricordano un’orchestra, quelli oscillanti che sembrano voci umane o voci celesti ottenute da canne intonate insieme ad altre leggermente calanti o crescenti, che nell’insieme sembrano un coro di bambini. Mi disse che l’organo poteva anche imitare il canto degli uccelli attraverso un congegno chiamato uccelliera dove l’aria passando attraverso l’acqua emetteva un gorgoglio simile al canto dei volatili. Tutti i suoni del creato erano racchiusi in quell’essere.

    «E come ogni creatura non poteva mancargli l’anima. Vuoi sapere qual è?».

    Così mi disse dopo una lunga pausa. Io feci cenno di sì.

    «È lì, alla base delle canne: il somiere, o per meglio dire i somieri, perché quest’organo ne ha più d’uno. Le canne poggiano proprio su di lui. Il somiere si riempie di aria e quest’aria non può uscire da nessuna parte se non dalla canna, ma la canna è chiusa da una valvola chiamata ventilabro. E chi decide di aprire o chiudere il ventilabro?»

    «Non so padre, Dio forse?».

    Padre Peter scoppiò a ridere e poi si mise a sedere davanti alla tastiera; pigiò un tasto ma non uscì nessun suono.

    «Il tastierista! È lui che decide l’apertura e la chiusura dei ventilabri, semplicemente suonando. Premendo o rilasciando il tasto la meccanica apre o chiude il ventilabro permettendo all’aria di entrare nelle canne ed emettere il suono».

    «Ma ora non è successo niente».

    «Certo che non è successo niente, non c’è aria nel somiere ed è per questo che sei qui».

    Padre Peter si alzò e mi invitò a seguirlo in una piccola stanza ricavata dietro all’organo.

    Tre grandi mantici erano posati a terra e su ognuno svettava una grossa leva. Assomigliavano ai soffietti usati dai fabbri, ma molto più grandi.

    Il padre afferrò la leva del primo e la spinse verso il basso, permettendo al mantice di aprirsi completamente. Il mantice si riempì di aria frusciando, emettendo quasi un mormorio, come un polmone che facesse un grande respiro. Poi fu la volta del secondo e poi del terzo, e sembrava che quell’essere divino si fosse risvegliato e stesse trattenendo il fiato in attesa di soffiare e creare il suono.

    «Ecco fatto. Ora andrò all’organo e quando inizierò a suonare vedrai le leve dei mantici salire e i mantici svuotarsi, perché l’aria distribuita ai somieri uscirà dalle canne e allora tu riabbasserai la leva del primo mantice poi del secondo e quindi del terzo. Arrivato al terzo il primo mantice sarà quasi vuoto e tu tornerai ad abbassare la sua leva, poi quella del secondo e ancora del terzo e così via di nuovo per tutto il tempo della sonata. È un sistema pneumatico, questi sono polmoni».

    Padre Peter uscì dalla stanza, richiuse la porticina dietro di sé e io rimasi solo, poi sentii lo scricchiolio dei legni e capii che si era seduto alla tastiera. Ci furono dei rumori meccanici uniti a dei colpi come se tirasse delle leve, forse quei pomelli che lui chiamava registri. L’aria cambiò suono come se avesse trovato nuove scappatoie e di colpo un immenso fragore mi fece sobbalzare tanto che mi ritrassi verso la porta. Era una musica maestosa, sì, non saprei trovare un altro termine, il suono aveva una potenza come non avevo mai sentito e mi sembrò che tutti gli angeli e i santi squarciassero i cieli a mostrare l’Onnipotente. Vidi le leve dei mantici alzarsi e risvegliandomi da quell’iniziale stupore, corsi verso la prima leva e la abbassai, poi mi spostai alla seconda e riabbassata la terza tornai alla prima e così via. Man mano sentivo crescere in me una forza come non avevo mai provato; stavo dando vita a quell’essere straordinario, io con la forza delle mie braccia, proprio io! E se il somiere era l’anima io mi sentivo il cuore!

    Nei mesi che seguirono cambiarono lentamente molte cose, non tanto riguardo la mia mansione che era semplice e ripetitiva, ma riguardo la musica. Imparai in fretta il nome di diversi autori, da Johann Sebastian Bach al contemporaneo Wolfgang Amadeus Mozart passando per Georg Friedrich Händel o gli italiani Antonio Vivaldi, Tomaso Albinoni e Bernardo Storace, il francese Louis Claude Daquin. Cominciavo a cogliere le differenze e azzardavo a indovinare la partitura che veniva eseguita.

    C’era una sonata che amavo sopra tutte le altre, ma che veniva eseguita più raramente: era la Toccata Adagio e Fuga in Do Maggiore di Johann Sebastian Bach. Quando veniva eseguita entravo in un’altra dimensione, tutto sembrava meraviglioso; passavo dallo stupore alla gioia e, durante l’adagio, una profonda malinconia mi pervadeva riportandomi a quei giorni di autunno dove il grigio del cielo stagliava le foglie dorate dei tigli abbattuti dal vento. E quando iniziava la fuga era come si riaccendesse la speranza: era luce dorata, quella luce particolare dopo la pioggia, quando il sole spunta da uno squarcio di cielo ancora carico di nubi. Dentro quelle note c’era la stessa luce.

    Per la festa dell’Epifania passò da Mainz un abile organista già anziano all’epoca: Johann Ernst Altenburg. Venne in Sant’Agostino la mattina presto per provare l’organo. Eseguì proprio la Toccata Adagio e Fuga in Do Maggiore di Bach e la suonò in modo così eccelso che rimasi incantato tanto da dimenticare le leve dei mantici e fu così che la musica si interruppe; una voce mi giunse attraverso le meccaniche dell’organo: «I mantici!».

    Alla fine dell’esecuzione l’organista era furioso, diceva che non gli era mai successa una cosa così, si chiedeva chi diavolo mi avesse messo a fare quel lavoro. Arrivò anche padre Peter che mi chiese spiegazioni e io risposi che era talmente bello quello che ascoltavo

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