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Il Dentista di Auschwitz: La vera storia di un giovane polacco studente di odontoiatria, deportato nel campo di sterminio nazista nel 1941
Il Dentista di Auschwitz: La vera storia di un giovane polacco studente di odontoiatria, deportato nel campo di sterminio nazista nel 1941
Il Dentista di Auschwitz: La vera storia di un giovane polacco studente di odontoiatria, deportato nel campo di sterminio nazista nel 1941
E-book368 pagine5 ore

Il Dentista di Auschwitz: La vera storia di un giovane polacco studente di odontoiatria, deportato nel campo di sterminio nazista nel 1941

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Il dentista di Auschwitz è l'autobiografia di Berek Jakubowicz (oggi Benjamin Jacobs), studente ebreo di odontoiatria, che nel 1941 fu deportato dal suo villaggio polacco e trascorse cinque anni nei campi di sterminio nazisti, tra cui Buchenwald, Dora-Mittelbau, e altri due ad Auschwitz, dove entrò in contatto con il famigerato Josef Mengele. Jacobs riuscì a sopravvivere solo grazie alle sue capacità professionali che gli consentirono di esercitare la pratica dentistica sui detenuti e sugli ufficiali delle SS. Nel maggio del 1945, con altri 15.000 detenuti, partecipò alla marcia della morte verso la Baia di Lubecca, e fu coinvolto nel bombardamento del transatlantico "Cap Arcona" da parte della RAF, nel quale perirono circa 8.000 ebrei.
Accolto con favore unanime dalla critica negli Stati Uniti alla sua comparsa, Il dentista di Auschwitz parla della proliferazione del male da una prospettiva unica, quella degli occhi dell'autore, che ha vissuto a stretto contatto con un orrore assoluto e onnipervasivo.
Una lettura che meglio di qualsiasi libro di Storia riesce a rendere un tempo in cui "i nomi divennero numeri senza volto" e in cui chi subì la deportazione "pur avendo il cuore pieno di lacrime, dimenticò per sempre come piangere".

LinguaItaliano
Data di uscita11 giu 2020
ISBN9788869346576
Il Dentista di Auschwitz: La vera storia di un giovane polacco studente di odontoiatria, deportato nel campo di sterminio nazista nel 1941
Autore

Benjamin Jacobs

Benjamin Jacobs (1919-2004) è stato un dentista polacco che nel 1941 venne deportato ad Auschwitz rimanendovi prigioniero fino alla fine della guerra. Sopravvisse esclusivamente con l'aiuto dei suoi strumenti dentali esercitando la sua professione all’interno del campo di concentramento.

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    Anteprima del libro

    Il Dentista di Auschwitz - Benjamin Jacobs

    © Bibliotheka Edizioni

    Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, giugno 2020

    e-Isbn 9788869346576

    Traduzione di Alessandro Pugliese

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta

    dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Progetto grafico: Riccardo Brozzolo

    Benjamin Jacobs (1919-2004)

    È stato un dentista polacco che nel 1941 venne deportato ad Auschwitz rimanendovi prigioniero fino alla fine della guerra.

    Sopravvisse esclusivamente con l’aiuto dei suoi strumenti dentali esercitando la sua professione all’interno del campo di concentramento.

    Una storia cruda e sconvolgente come tutte quelle arrivate a noi tramite i sopravvissuti all’Olocausto, che ci riguarda tutti e che sarà impossibile dimenticare una volta letta.

    Prefazione

    Insieme ad altri dodici membri, uomini e donne ebrei americani, nel luglio del 1985 presi parte a una commissione d’inchiesta che fu inviata oltre la Cortina di Ferro, nelle capitali di Polonia, Romania, Ungheria e Cecoslovacchia. Lì incontrammo alcune comunità di vecchi ebrei che, a causa dell’età avanzata, non potevano abbandonare quei paesi per iniziare una vita altrove. Quasi tutti erano ospitati in Altersheims, ovvero in abitazioni per anziani sostenute dalla filantropia ebraica. Il genere di vita che avevano vissuto e conosciuto un tempo, da ebrei, ormai non esisteva più, l’antisemitismo era ancora diffuso, ed essi credevano che Hitler avesse vinto la Seconda Guerra Mondiale.

    Dopo che fui rientrato a Boston, mi presi del tempo per riflettere e decisi di avere un debito con quella gente e che avrei pertanto cominciato a raccontare in pubblico come e perché quasi un intero popolo fosse stato annientato. Come vere e proprie proiezioni, i minuscoli brandelli di memoria che ancora custodivo nella mia mente cominciarono in quel periodo a farsi sempre più nitidi, e le mie esperienze di un tempo riemersero in tutti i loro vividi dettagli. Senonché, il corso dell’esistenza di un uomo, come del resto avevo imparato in giovinezza, non è quasi mai un filo che si snoda dritto. Nel corso di una visita medica di routine, anziché ricevere le rassicurazioni che mi aspettavo, il medico mi comunicò il contrario.

    «Cancro alla gola» mi fu detto.

    Il dottor Goroll, un buon amico, sconvolto quanto me da quel responso, non volle sentire ragioni sul fatto che già dal giorno successivo mi sottoponessi immediatamente a un intervento chirurgico.

    Pensai al peggio. Era di vitale importanza che continuassi a parlare. Potrò farlo ancora? mi chiedevo. Le mie parole producevano un effetto benefico sui giovani, li aiutava a comprendere quanto fosse cruciale opporsi ai pregiudizi. La prospettiva di diventare muto mi angustiava.

    Chiesi ai medici una prognosi, ma i medici sono cauti, non si sbilanciano. La massa tumorale per fortuna era piccola e, grazie all’intervento tempestivo e ad alcune settimane di radiazioni, la mia voce non cambiò di molto. Ero ben consapevole, tuttavia, che i medici non potevano nemmeno predire il futuro e un presentimento continuava a dirmi: ‘‘Scrivi, potresti riuscire a farlo ancora per poco’’. Così, pur sapendo di sobbarcarmi un ulteriore e duro lavoro, mi risolsi finalmente a mettere per iscritto la mia storia, incoraggiato anche dai lusinghieri commenti da parte di coloro che mi stavano vicino. Questo, dunque, è ciò che ho vissuto.

    Benché questo libro sia interamente frutto dei miei ricordi, (qualcuno di essi senz’altro è rimasto imprigionato troppo in fondo ed è possibile che non sia riuscito a farlo emergere compiutamente), esso non avrebbe mai visto la luce se non avessi potuto contare sul prezioso aiuto offertomi da molte persone. Queste persone sono così tante che mi è impossibile ringraziarle tutte. In ogni modo, se ne trascurassi alcune, commetterei una grave ingiustizia.

    Sono in debito con Tadeusz Iwaszko, scrittore e archivista del Museo Statale di Auschwitz, per la documentazione sul campo di concentramento di Auschwitz III, Fürstengrube.

    Sono grato al dottor Dirk Jachomowski del Ladesarchiv Schleswig-Holstein, e al dottor Marienhöfer del Bundesarchiv-Militärarchiv di Friburgo, in Germania, per i documenti riguardanti il disastro della nave Cap Arcona sul Mar Baltico. E a Edith Pfeiffer, della Hamburg-Südamerika Dampfschiffahrts-Gesellschaft, nonché alla Hamburg-Amerika line (Hepag), per i registri aziendali, i documenti, la storia della Cap Arcona, per avermi fornito inoltre informazioni riservate relative al suo bombardamento e affondamento.

    Ringrazio ancora Barbara Helfgot-Hyatt, professoressa alla Boston University, poetessa di grande talento, per il suo sprone costante nella stesura di questo libro. E Ina Friedman, autrice di numerosi libri sull’Olocausto, la quale ha letto le prime cento pagine del manoscritto e mi ha detto: Scrivi. Il sacro fuoco dello scrittore ti sta divorando.

    Un ringraziamento speciale va ad Arthur Edelstein e Marge Garfield, per i loro saggi interventi editoriali. Un grazie anche a Marco Dane, per il tempo che mi ha dedicato e l’apparecchiatura che mi fornito, senza la quale starei ancora battendo su una vecchia macchina.

    Per quanto riguarda la realizzazione del progetto, non potrei non citare la dottoressa Karen E. Smith. Sono in debito con lei per i suoi indispensabili consigli.

    Per non appesantire il testo e per non tediare il lettore che non è interessato all’aspetto puramente storico e di ricerca, ho voluto evitare note e riferimenti. Le imprecisioni, gli errori e i giudizi che potrebbero risultare falsati sono farina del mio sacco e non coinvolgono in nessun modo le persone che ho qui menzionato, e che anzi mi hanno aiutato così generosamente.

    A mio fratello, Josek, che per grazia di Dio

    è stato risparmiato dalla morte nei campi.

    A mia sorella, Pola, e a mia madre e mio padre.

    E ad altri che non sono stati risparmiati

    per raccontare la loro storia.

    Deportazione

    La mattina del 5 maggio 1941, su una strada di campagna polacca, una colonna di tre vecchi camion stava trasportando 167 ebrei di Dobra, un villaggio della regione del Warthegau, verso una destinazione nota solo ai loro rapitori. Pur essendo primavera, i campi di boccioli colorati, apparivano smorti in quel cupo mattino. Stranamente, gli uccelli che di solito a maggio facevano echeggiare per il paese le loro melodie, erano rimasti silenziosi.

    Per la nostra comunità era un giorno buio. Con un suo decreto, Herr Schweikert, il governatore nazista della regione, aveva imposto al Consiglio ebraico di consegnare tutti gli uomini ebrei di età compresa tra i sedici e i sessant’anni, con l’eccezione di un solo maschio per ogni famiglia. Sarebbero stati deportati in un campo di lavoro. Poiché mio fratello maggiore era di salute cagionevole, mio padre aveva voluto prendere il suo posto ed io mi ero offerto di andare con lui. Mio fratello era rimasto nel ghetto con mia madre e mia sorella.

    Anche se i nazisti avevano autorizzato a portare due fagotti per ciascun passeggero, mia madre aveva insistito perché prendessi, insieme ai miei beni primari, anche il piccolo set di strumenti dentali del mio primo anno di formazione odontoiatrica. Non potevo immaginare, allora, che quegli strumenti mi avrebbero salvato la vita.

    Al momento della partenza, ognuno di noi avvertiva l’angoscia della separazione. Mentre il dolore segnava il viso di mia madre, mia sorella maggiore, Pola, tratteneva coraggiosamente le lacrime e Josek, mio fratello, giurava di essere all’altezza del ruolo di capo famiglia che gli sarebbe spettato, volsi il capo e guardai lontano per trovare il coraggio di allontanarmi. Anche se i miei genitori non si erano mai abbandonati in pubblico a manifestazioni di affetto reciproco, e mai lo avrebbero fatto al nostro cospetto, in quell’occasione, che avrebbe potuto essere l’ultima, si strinsero senza pudore. Quando ci voltammo per andarcene, mia madre ricordò a tutti noi di non dimenticare la promessa che ci eravamo fatti: «Quando quest’incubo sarà finito» disse, le lacrime agli occhi, «ci ritroveremo tutti di nuovo qui.»

    Incamminandoci verso il luogo in cui i nazisti ci avrebbero prelevati, ovvero la scuola del villaggio, io e mio padre assistemmo a scene simili. Davanti a ogni uscio un piccolo dramma si consumava. Una giovane si disperava non volendo che suo padre se ne andasse, evidentemente cosciente che non lo avrebbe più rivisto.

    Giunti nel cortile della scuola, vedemmo SS disposte ovunque. Uniformi nere, stivali lucidi, il teschio e le ossa incrociate sul berretto, erano l’esemplificazione del male. Sulla fibbia delle loro cinture era inciso il motto irridente: ‘‘Dio con noi’’.

    Il temuto Herr Schweikert, in compagnia di Morris Francus, il capo del Consiglio ebraico, sostava al centro del cortile. Ordinò che due poliziotti ebrei che erano di stanza nel ghetto dovessero accompagnarci dentro i camion. Uno di questi era Chaim Trzan, il quale, nella sua veste di ex macellaio, era evidentemente perfetto per quel ruolo; l’altro poliziotto, di nome Markowicz, al contrario pareva non essere adatto perché era un sempliciotto, con più sentimentalismo che rabbia.

    Il dottor Neumann, deputato agli Affari ebraici per il Warthegau, era anche lui presente nel cortile. Tarchiato e di mezza età, sminuito dall’altezza degli uomini delle SS, aveva capelli bianchissimi e brillanti occhi azzurri ma, soprattutto, un atteggiamento che comunicava inequivocabilmente che fosse lui tra tutti colui che comandava.

    Era indubbio che i nazisti sapessero come mettere ebreo contro ebreo. Avevano creato un Consiglio ebraico, o Judenrat, proprio a tal fine. Coloro che costituivano il Consiglio, a Dobra, erano infatti in termini formali i capi della comunità, ma in realtà si trattava piuttosto di personaggi privi di qualunque scrupolo. Si servivano dei poliziotti, che essi stessi designavano, per esercitare su di noi un potere indiscriminato. E seppure poteva risultare loro difficile fare eseguire degli ordini che essi ricevevano (e che nessun essere umano dovrebbe essere messo nelle condizioni di eseguire), i membri dello Judenrat di certo badavano bene a non applicare quegli ordini contro se stessi, le loro famiglie e i loro amici, riservando tali limitazioni e discriminazioni al resto di noi. Non sapevano che dopo aver spedito la loro gente a morire, anche loro avrebbero finito per fare la medesima fine.

    Francus lesse ad alta voce i nostri nomi, e noi rispondemmo a turno Jawohl. Alle nove, i cancelli del cortile della scuola si spalancarono e, in gruppi di circa cinquantasei uomini per camion, salimmo a bordo dei tre veicoli. Prima di partire, i soldati si arrampicarono sulle sponde per un ultimo controllo, dopodiché gettarono una rete al di sopra.

    Poco prima di prendere velocità sull’acciottolio, in corrispondenza di un portone, scorgemmo due figure di donne che cercavano di avvicinarsi al nostro camion. Io e mio padre riconoscemmo la mamma e Pola. Coprivano con pudore la loro toppa gialla con la Stella di David, agitando le mani verso di noi. Mentre il camion si allontanava, ci voltammo a guardarle con il cuore greve come le nuvole scure che aleggiavano su nel cielo, finché scomparvero lontane alla vista. Da allora, la nostra famiglia fu divisa per sempre.

    Eravamo 167 ebrei, dai sedici ai sessant’anni – uno, due, anche tre per singola famiglia; uomini diversi per mestieri, stili di vita e formazione, accomunati nella stessa sorte, uniti in un viaggio a noi estraneo quanto estranei erano i tempi che stavamo vivendo. Diedi un’occhiata a mio padre. Vidi il fiero capofamiglia impotente. Puntellandomi al cassone, fissai lo sguardo sul pennacchio scuro del gas di scarico che si innalzava, intravedendo nelle sue spire il nero futuro. Ripensai alla mia infanzia per trovare un po’ di conforto.

    Un piccolo villaggio in Polonia

    Fu a Dobra, un piccolo villaggio della Polonia occidentale, che venni lanciato sulla ribalta della vita in una fredda giornata di novembre del 1919. In onore alla mia defunta nonna materna, Baila, e nel rispetto della tradizione, il nome che mi fu dato fu Berek. Se oggi guardo indietro, mi accorgo di essere nato in un momento inopportuno, nel posto sbagliato, e con la religione sbagliata affinché i miei sogni giovanili potessero realizzarsi.

    A Dobra, ove i miei antenati, per quanto ne so, avevano vissuto sin da quando gli ebrei si erano stabiliti in Polonia, rimasi fino all’età adulta, così come mio fratello Josek e mia sorella Pola. La nostra famiglia possedeva una casa e due ettari e mezzo di terreno, questi ultimi acquistati dai miei genitori dopo essersi sposati. Si trattava di una casa abbastanza modesta, anche in base ai canoni di quei tempi: due camere da letto, una sala da pranzo, un soggiorno e una cucina. A diffondere il calore nel soggiorno e nella sala da pranzo durante l’inverno provvedeva un forno a carbone, alto due metri, piastrellato di ceramica marrone. Vi era poi una stufa in ghisa, in cucina. Sul retro della casa si estendeva un cortile, con un fienile dal tetto di paglia, due stalle e un piccolo pollaio.

    Alle spalle del fienile si susseguivano alcuni alberi da frutto, tra cui un alberello nano che ci offriva dolcissime ciliegie gialle, di cui i passeri avevano il primato della degustazione. Poi vi erano anche susini, peri e meli. Il pero, a forma di falce, era sempre l’ultimo a portare i suoi frutti.

    Sul resto della proprietà coltivavamo segale, frumento e patate che ci sostenevano tutto l’inverno. Ci levavamo all’alba per arare, seminare, mietere e raccogliere. Non eravamo ricchi. Non avevamo molto e non volevamo molto. Eravamo soddisfatti e felici.

    L’unico nostro lusso nella casa, ricordo, era un tappeto orientale variopinto che stava sotto il tavolo da pranzo, ricamato con il disegno di un castello e dei re. Nei miei anni giovanili, vi rimanevo sdraiato per ore a leggere libri di avventura, o ascoltare musica dalla mia radio a galena. Sia le pareti della sala da pranzo che quelle del salotto erano tappezzate di ritratti degli avi di famiglia, uomini dalle lunghe barbe canute e donne in abiti di pizzo tradizionali.

    Mio padre, dopo averlo rilevato, gestiva un piccolo commercio di grano nel quale noi tutti collaboravamo. A dieci anni, mi caricavo già sulle spalle sacchi pesanti cento chili, trasportandoli dalla stalla alla scala. Dai modi semplici, lavoratore indefesso, mio padre era una persona bonaria e totalmente dedita alla sua famiglia. Di corporatura minuta – più piccolo di mia madre – quasi completamente calvo, il suo viso era tondo e le guance rosee. Nel sorridere, irradiava una spontanea gentilezza. Se un tempo era stato piuttosto grasso, dopo che un medico gli aveva diagnosticato un ingrossamento del cuore si era imposto di perdere peso. Con i suoi otto fratelli e sorelle era rimasto orfano a soli undici anni. Quando si era trasferito nella casa di mio nonno materno, lì aveva conosciuto mia madre. Pur condividendo entrambi lo stesso cognome, Jakubowicz, non erano parenti. Poiché fu costretto a lavorare sin dalla tenera età e non poté frequentare la scuola, a stento mio padre riusciva a leggere e a scrivere. Pur se la sua firma consisteva in tre croci, era valida ovunque in paese.

    I miei genitori si sposarono nel 1912, quando papà aveva diciotto anni e la mamma sedici. Il loro rapporto era contrassegnato da rarissime discussioni. Se talvolta si originavano tra di loro dei disaccordi, essi dipendevano dalla distanza che intercorreva tra la parsimonia di lui e la prodigalità di lei. Ma si trattava pur sempre di battibecchi che duravano il tempo di un battito di una ciglia.

    Sembra ombra di dubbio, mia madre era la donna ebrea più progressista del villaggio, la prima, ad esempio, che non volle continuare ad indossare la parrucca tradizionale. Soffriva di una lieve forma di diabete, che la manteneva magra. I suoi capelli erano scuri e ondulati, ed era perennemente abbronzata per via del lavoro all’aperto. Dio le aveva donato un cuore d’oro, e il povero sapeva che poteva contare su di lei. Itzchak, il cieco del villaggio, per citarne uno, veniva a trovarci una volta alla settimana, sicuro che non avrebbe mai lasciato la nostra casa a bocca asciutta. Con un rocchetto di filo, un bastone e un arco come strumento musicale, Itzchak suonava le sue canzoni in un modo da far invidia a ogni vero musicista. Con quel rudimento strumento, era capace di riprodurre ogni componente di un’orchestra.

    Ma mia madre offriva qualcosa anche agli zingari di passaggio quando venivano a chiedere l’elemosina. Nei nostri confronti, poi, non comminava mai delle punizioni fisiche. Si limitava al massimo, a negarci i pasti e a impedirci di uscire, perlomeno fin quando avremmo potuto sopportarlo. Insomma, lei era il genitore che ogni bambino vorrebbe avere. Ciononostante, la sua autorità era indiscussa, sebbene la cucina non fosse un regno su cui ella sovrintendeva, bensì quello che spettava di diritto alla mia cugina paterna, Toba.

    Noi bambini rispettavamo entrambi i nostri genitori non perché li temevamo, ma per l’amore e la dolcezza che ci donavano. Fummo allevati nel rispetto della tradizione ebraica e con una ferma fede in Dio.

    Pola aveva due anni in più di me. Brillante, intelligente e alta come la mamma, aveva i capelli castani e li portava con una frangia che ricadeva su un ovale lievemente allungato. Tranne che per il rossetto, non si truccava quasi mai. I suoi occhi color nocciola, le folte ciglia e le sopracciglia ben delineate accentuavano ancora di più la bellezza del suo aspetto.

    Josek, invece, aveva sei anni più di me. Aveva iniziato lo studio del Talmud dopo il suo Bar Mitzvah ma il grande rigore yeshivah si era dimostrato per lui ben presto un’impresa insostenibile e così aveva lasciato la yeshivah per diventare un odontotecnico.

    Erano di certo le estati i momenti più belli della nostra infanzia. Ci recavamo in un piccolo cottage che mio padre prendeva in affitto a Linne. Si trovava nel fitto di un bosco pieno di frutti e funghi. Lì esploravamo il torrente al mattino, abbondante di kielbiki, i piccoli pesci grassocci che catturavamo con i retini.

    Durante una primavera, quando avevo appena sette anni, mamma mi affidò un piccolo lotto di terreno più o meno grande quanto il fienile.

    «Questo è tuo» disse.

    Rappresentava il mio speciale quadretto di terra, e il riceverlo in quella mia giovanissima età fu per me un momento di orgoglio infinito. Poiché nelle vicinanze era già cresciuta una grande quantità di fiori di campo, decisi di piantarvi della verdura.

    Dato che la madre di mia madre era morta prima che io nascessi, suo padre viveva con noi. Il nonno era alto e snello, e portava un pizzetto ben curato. Camminava eretto con una leggera spinta in avanti e un’andatura cadenzata. Adoperava un bastone con un manico d’argento, non solo per necessità, ma anche come un contrassegno di distinzione. Egli adorava certo tutti e tre noi bambini, ma ho sempre avvertito che aveva una predilezione per me, il suo nipote più giovane. Giocò un ruolo decisivo nella mia formazione. Pescatore esperto, mi portava al fiume con lui nei giorni caldi, così nel tempo anch’io imparai a prendere i pesci veramente grossi. In molte occasioni, durante l’estate, di ritorno a casa da Heder, lo trovavo seduto a una panchina a leggere le Scritture, lo zucchetto sul capo chino. Talora, capitava che gli occhi gli si chiudessero e si assopisse al riparo del barbaglio del sole. Ma, udendo che mi avvicinavo, d’un tratto si destava e i suoi baffi si sollevavano in un sorriso gioioso. Nonostante a quei tempi coloro che avevano più di sessant’anni venivano considerati vecchi, e benché solitamente i loro volti erano segnati dalle rughe e le bocche sdentate, egli aveva tutti i denti e continuava a leggere senza avere bisogno di occhiali.

    Molte volte mi aspettava, già pronto con due canne, una rete e un involto sotto il braccio, impaziente di condurmi a una quindicina di minuti di strada, presso un minuscolo affluente del Warta, un corso d’acqua così piccolo da non avere neppure un nome. Una volta arrotolati i calzoni sui polpacci, entrato in acqua, il suo corpo diventava assai più sottile. Io lo seguivo e lui mi guardava di tanto in tanto tormentare il mio amo. Poi levava le braccia al cielo e faceva volteggiare la coda in ampie volute, fino a quando la mosca non cadeva esattamente nel punto in cui aveva voluto che si posasse.

    «Fa’ piano, Berele» diceva, vedendomi lottare con la mia coda. «Con calma, lentamente.» Aveva fiducia nella mia abilità e non avrei dovuto accontentarmi di cattivi lanci. Intanto, mi sforzavo di seguirlo più da vicino, i ciottoli che premevano sotto i miei piedi. Quando invece pescavamo con una rete a mano, simile a quella che si usa di solito per catturare farfalle, ci muovevamo in tandem, sospingendo la rete dolcemente al di sotto delle ninfee.

    «Raggiungi il fondo, Berele, cammina lentamente, mantieni il ritmo» diceva. E neppure una cattura andava rigettata in acqua, perché si sarebbe tramutata in un pasto, la mamma avrebbe usato anche i piccoli lucci per le polpette.

    E fu sempre il nonno a insegnarmi il gioco degli scacchi.

    «Gli scacchi nutrono la mente.»

    Anche se lui non amava mai parlarne, io sapevo che nella Prima Guerra Mondiale aveva ricevuto una medaglia al valore da parte del maresciallo Józef Pilsudski.

    In Polonia, già prima che arrivasse Hitler, l’antisemitismo era un morbo presente nella società. Gli ebrei, a differenza delle altre minoranze che venivano trattate in modo equo, rappresentavano un’eccezione.

    Verso la fine del 1930 anche coloro che nel nostro paese nutrivano dei dubbi sull’opportunità di appoggiare Hitler nella sua politica antirazziale, fecero la scelta di schierarsi dalla sua parte. Nonostante anche noi fossimo nati lì, d’un tratto venimmo giudicati alla stregua di veri e propri estranei. Perché in Polonia potesse essere riconosciuto alla pari, un ebreo avrebbe dovuto diventare un cristiano. Anche se il clero polacco non appoggiò apertamente la violenza contro di noi, le autorità religiose non promossero nemmeno l’amore fraterno.

    La generazione dei miei genitori era disposta ad accettare un ruolo così deprimente all’interno della società polacca, ma la mia generazione giudicò difficile sopportare una tale novità. E poiché non ci giudicavamo ebrei prima e polacchi poi, ritenevamo che se avessimo adottato un nuovo stile di vita e aderito ai costumi polacchi, se ci fossimo conformati nell’abbigliamento, nella cultura e nel linguaggio, i non-ebrei ci avrebbero tollerato meglio. Tuttavia, alcunché sembrò funzionare. E nulla parve tanto più stupefacente quanto la menzogna secondo cui gli ebrei in Polonia vivessero nel lusso.

    Gli ebrei cominciarono ad essere ingiuriati verbalmente e spesso malmenati in pieno giorno. Soltanto quando qualcuno era visibilmente ferito, veniva soccorso dalla polizia, la quale sosteneva che non poteva far niente. Handlarz, un termine che allude al profitto, indicando un profittatore, venne impiegato come epiteto contro gli ebrei, specialmente commercianti e uomini d’affari. In virtù di ciò, mio fratello e io ci eravamo convinti a non continuare il commercio di nostro padre e avevamo deciso di intraprendere una diversa professione. Non sapevamo che qualunque cosa fossimo diventati, non ci saremmo liberati da quella ormai radicata tendenza.

    A scuola, i libri su cui studiavamo ignoravano la nostra storia, la nostra cultura, e persino la nostra esistenza. La scuola pubblica di Dobra non aveva un solo insegnante ebreo. Per via del mio nome, Berek, i gentili mi chiamavano alacremente Beilis, sulla scorta del cosiddetto ‘‘Processo Beilis’’, tenutosi nella Russia zarista, nel quale un ebreo con quel nome era stato accusato di aver assassinato un bambino. Mi sentivo così a disagio che prima di entrare alla scuola secondaria cambiai il mio nome con l’equivalente polacco, Bronek.

    A metà del 1930, l’Unione degli agricoltori polacca instituì delle cooperative agricole, aventi come scopo evidente quello di escludere gli ebrei dal commercio dei prodotti agricoli. Il motto della cooperativa era: ‘‘Noi a noi, per noi’’. Questa morsa economica danneggiò tutte le aziende ebree, anzi l’intera popolazione ebraica in Polonia. L’Unione tentò di imporre quel motto come una sorta di citazione anche negli istituti scolastici, con la prescrizione di diffonderlo.

    Un altro atto di natura palesemente antisemita fu vietare la shechitah, la macellazione kosher. La Polonia era ormai prossima alla guerra contro la Germania, eppure gli ebrei erano considerati il nemico numero uno. Persino i moderati cercarono di escogitare metodi e provvedimenti finalizzati a cacciarci dal paese. Ispirandosi ai metodi nazisti, i fascisti polacchi proposero l’espatrio di tutti gli ebrei dalla Polonia.

    E poi ci fu la tassazione, abnorme, che funse da ulteriore mannaia. Nonostante gli ebrei pagassero allo stato una tassa religiosa, alle scuole ebraiche e alle sinagoghe non arrivò più nessun tipo di sostegno da parte del governo. Mi sovviene alla mente un ricordo, che riguarda mia madre, la quale un giorno aveva implorato un esattore delle tasse che era venuto con un camion a casa nostra per pignorare i nostri mobili. Mia madre aveva supplicato quell’ispettore di attendere il ritorno di mio padre, ma lui l’aveva ignorata ordinando ai due facchini che lo accompagnavamo di iniziare a caricare i nostri averi. I due avevano gettato sul pavimento i vestiti puliti e stirati di fresco, e vi avevano camminato sopra. Lei li aveva supplicati ancora di aspettare, ma invano. D’improvviso, poi, il cielo si era riempito di lampi e tuoni, e mia madre, evidentemente in preda a una crisi di nervi, si era messa a tremare.

    «Il fulmine che potrebbe aver colpito un innocente avrebbe dovuto colpire voi» disse, afflitta, mentre correva fuori.

    Dopo poche settimane, un processo a suo carico aveva avuto inizio. L’accusa che le era stata mossa era diffamazione contro lo Stato. Stravolgendo del tutto le sue parole, l’esattore aveva dichiarato davanti alla corte che mia madre mamma aveva detto che ‘‘il fulmine dovesse colpire la Polonia’’. I due facchini avevano testimoniato naturalmente a favore di questa grave menzogna e il giudice aveva finito per condannare mia madre a una pena di un anno di prigione. Quell’episodio aveva generato presso gli ebrei un’ondata di preoccupazione, non per la gratuita vendetta personale dell’uomo, ma per il fatto che lo Stato aveva dato una chiara prova di antisemitismo.

    Ebbene, il carcere per mia madre era fuori discussione, dacché sarebbe stata di certo uccisa lì da qualche fanatico zelota. Dal momento che quell’anno si sarebbero svolte le elezioni, la nostra speranza era che alla fine il nuovo governo avrebbe concesso un’amnistia ai condannati per reati politici minori. Così, nell’attesa, mia madre era andata a nascondersi, spostandosi di continuo da un posto all’altro. Di tanto in tanto osava tornare a casa.

    Una notte, udimmo bussare forte alla porta principale.

    «Aprite! Polizia!» comandò una voce.

    «Aspettate» rispose mio nonno, temporeggiando per qualche minuto. Quando finalmente aprì la porta, due agenti si spinsero all’interno.

    «Dov’è Ester?» chiesero al nonno.

    «Non lo so» rispose lui, con calma.

    Mostrandosi indifferente, tornò a letto, si girò, e sembrò rimettersi a dormire. Ma sapevamo che in breve l’avrebbero scovata. Quando i due uomini uscivano da una stanza per entrare in un’altra, io chiudevo gli occhi per la paura. Con nostra sorpresa, però, non riuscirono a trovarla. Domandarono a me alla fine dove fosse. Io mi morsi il labbro. «Non è qui» dissi, chiedendomi quanto bene avessi mentito. Tuttavia, sostennero di sapere che la mamma si trovava in casa.

    Uno dei due agenti disse a mio padre: «Ascolta, Wigdor, sappiamo che Ester è qui, dove si trova?»

    Papà rispose che si sbagliavano. «Non è qui» ripeté in modo molto convincente.

    Finalmente se ne andarono, scuotendo il capo poco convinti. Anche noi ci chiedevamo dove si fosse cacciata la mamma. Non poteva certo essere svanita nel nulla. D’un tratto, il nonno ci esortò a verificare se i poliziotti se ne fossero andati per davvero. Rassicurato, si levò dal letto e solo a quel punto vedemmo dove mamma si era nascosta – era rimasta lì nel letto, accovacciata, protetta da suo padre!

    Qualche tempo dopo, mio padre riempì il carro di fieno e seppellì la mamma lì sotto. La trasferì in un nuovo nascondiglio. Più tardi, concluse le elezioni, l’agognata grazia arrivò. Nello sfuggire alla prigione, nostra madre aveva finito per scontare ugualmente una pena, costretta a vivere nascosta per più di otto mesi.

    Nel frattempo, il corso della storia aveva gettato sulla Polonia una lunga ombra, e sopravvivere era diventata una faccenda estremamente complicata. Come non bastasse, mio padre si era esposto come garante su dei crediti bancari di uno Junker tedesco, Herr Heller. Nel momento in cui quest’uomo dichiarò bancarotta, papà si trovò costretto ad emettere un buono a pagare sui prestiti. Herr Heller lo costrinse a garantire un ulteriore prestito, promettendogli che sarebbe stato

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