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Il grande romanzo dei papi
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E-book450 pagine6 ore

Il grande romanzo dei papi

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La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro

Per durare nel tempo servono forza e flessibilità. Il papato ha dimostrato entrambe queste doti: ha lottato per tenere le proprie posizioni o cambiato pelle all’occorrenza, ha atteso le occasioni propizie o accelerato tempi migliori, spesso è caduto e quasi sempre si rialzato. E, allo stesso tempo, ha determinato o subìto i rivolgimenti della storia europea. Questo appassionante volume ripercorre la singolare e aggrovigliata vicenda della cattedra romana, illuminandone le stagioni più determinanti e lasciandosi guidare dalle figure maggiormente rappresentative. Come da Pietro, modesto pescatore di Galilea, si è giunti a fare del vescovo di Roma un monarca? Come i santi e martiri hanno lasciato posto ai dissoluti papi del Rinascimento? Quanto Costantino, Napoleone, Mussolini o altri hanno inciso sul papato della loro epoca? Per rispondere a queste domande serve uno sguardo alla storia millenaria di una delle più antiche e influenti istituzioni che l’umanità abbia saputo creare.

Le vicende del papato raccontate come in un romanzo: dalla fondazione al Medioevo, dal Rinascimento a oggi.

Tra gli argomenti trattati:

Pietro, quello vero
La chiesa dell’imperatore Costantino
Leone e Gregorio Magno, difensori di Roma
La nascita dello stato della Chiesa
Il grande scisma
La riforma medievale
Innocenzo III, l’apice del potere
Bonifacio VIII e lo schiaffo di Anagni
I papi tra Roma e Avignone
Il Rinascimento: Borgia e gli altri
Lutero contro la Chiesa
Borromini e la Roma barocca
Napoleone contro Pio VI e VII
Quando il pontefice diventa infallibile
I papi prigionieri del regno d’Italia
Il vaticano nelle guerre mondiali
Giovanni XXI, Paolo VI e il Concilio Vaticano II
Da Wojtyla alla chiesa del nuovo millennio
Riccardo Ferrigato
È scrittore, traduttore, consulente editoriale e documentarista. Con la Newton Compton ha pubblicato Breve storia di Milano e Il grande romanzo dei papi. È inoltre autore di Non doveva morire. Come Paolo VI cercò di salvare Aldo Moro (2018), Ecco chi sei. Pio La Torre, nostro padre, scritto con Filippo e Franco La Torre (2017), e della biografia Sergio Mattarella. Il presidente degli italiani, scritto con Giovanni Grasso (2015).
LinguaItaliano
Data di uscita22 ott 2020
ISBN9788822744838
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    Anteprima del libro

    Il grande romanzo dei papi - Riccardo Ferrigato

    EN.jpg

    Indice

    Introduzione

    1. Sopra questa pietra

    2. Divisi e perseguitati

    3. E se il primo papa fosse un imperatore?

    4. Ariani e niceni, papi e antipapi

    5. Il grande difensore

    6. Da ovest ad est

    7. Forza e debolezza

    8. Gregorio il Grande

    9. Tentar la pace

    10. Un nuovo difensore

    11. Il nuovo Costantino

    12. L’ultimo Magno

    13. Buio

    14. Risalire dall’abisso

    15. Finalmente

    16. A piedi scalzi nella neve

    17. La gran lotta

    18. Federico

    19. Nulla deve sfuggire

    20. Schiaffi

    21. L’eremita

    22. Arrivederci Roma

    23. Scismi e concili

    24. Di nuovo Pietro

    25. Borgia e anti-Borgia

    26. Sotto le cannonate

    27. L’umiliazione

    28. Cambiare tutto (o sparire)

    29. L’ombra delle corone

    30. Gesuiti

    31. Rivoluzione

    32. Preludio di una fine

    33. Il cuore della reazione

    34. Infallibile

    35. La terza Roma

    36. Pastori, combattenti, pacificatori

    37. L’età dei nazionalismi

    38. Ritorno al concilio

    39. Doppio nome

    40. Il terzo millennio

    Epilogo

    Bibliografia

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    735

    Prima edizione ebook: novembre 2020

    © 2020 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-2279-4483-8

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Riccardo Ferrigato

    Il grande romanzo dei papi

    La storia della Santa Sede

    attraverso le vite dei successori di san Pietro

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    Newton Compton editori

    Introduzione

    Spondeo, voveo ac iuro: abbiamo scandito la formula prima di posare la mano sul Vangelo e inaugurare quest’infinito conclave. Abbiamo promesso di rispettarne le regole, sottomessi al soffio dello Spirito Santo. «Prometto, mi impegno e giuro»: i macigni che mi impediscono di indietreggiare.

    Sono vescovo di una minuscola diocesi del meridione italiano, creato cardinale nell’ultimo concistoro. Il papa, seppure anziano, era ancora pieno di energia. Ricordo il cuore pesante mentre raggiungevo la terza loggia del Palazzo Apostolico; rivedo le porte dell’ascensore spalancarsi e, a pochi passi da me, la sagoma del Santo Padre che aveva percorso lunghi corridoi per accogliermi come un vecchio amico. Abbiamo camminato fino all’appartamento in cui lavorava, accompagnati dal Reggente della Prefettura della Casa pontificia, un prelato, anziano anche lui, dal sorriso bonario. Neppure ho fatto caso ai raffinatissimi affreschi rinascimentali, ero come nell’occhio del ciclone. Quel vescovo vestito di bianco mi ha rincuorato, ha lenito le incertezze di questo povero studioso chiamato a un compito troppo grande. Mi aveva scelto perché, insieme ad altri, portassi al vertice della santa chiesa le periferie. Così mi ha detto. Gli ho rivelato alcune perplessità sul governo ecclesiastico, mi sono sforzato di dimostrargli le asperità del mio carattere, ho accennato a una crisi di fede le cui conseguenze ancora mi risuonano dentro. Il papa ha sorriso, ha proposto di recitare insieme un Pater, quindi ha riordinato alcune scartoffie in una cartella di pelle consunta e mi ha invitato a pranzare con lui nella Domus Sanctae Marthae, il più brutto palazzo vaticano, fatto costruire da Giovanni Paolo II per i funzionari e i cardinali in caso di conclave.

    L’ho rivisto solo in un’altra occasione, quando ci ha comunicato le sue dimissioni. Di quel giorno ricordo lo sguardo più stanco e le spalle ormai cadenti.

    E ora eccoci qui, in quella casa che è stata sua: quando sediamo a tavola ne sentiamo la presenza e l’ispirazione. Ci sono riservate stanze confortevoli e aria condizionata, il che mi ha riportato alla mente, per contrasto, i racconti del caldissimo conclave dell’agosto 1978. All’epoca i cardinali dormivano nel Palazzo Apostolico, in stanze con le finestre sigillate e imbiancate. Pochi avevano l’acqua corrente in camera, pochissimi i servizi igienici. Una tortura, soprattutto per gli anziani. In fondo il conclave è nato così, come una reclusione insopportabile.

    Quando ho timore, cerco rifugio nel passato. La verità è che le mani mi tremavano all’ingresso nella Sistina. Attorno a me mancavano i vescovi di diocesi prestigiose – come è possibile che nessuno rappresenti Milano? – mentre io porto la voce flebile di un piccolo lembo di terra sofferente. Al mio fianco siede da giorni un cardinale di cui non saprei pronunciare il nome, a capo di una diocesi sulla quale non credo di aver mai letto un solo rigo.

    In queste condizioni domani sarò eletto Vicario di Cristo.

    Centosedici cardinali sono riuniti da quattro giorni e diciassette scrutini. I nomi dei più quotati hanno circolato in un balletto di cui era difficile comprendere la logica. Si avvicendavano, come disse un uomo più grande e buono di me, «or su or giù, come i ceci nell’acqua bollente». Nessuno però raggiungeva la soglia dei due terzi. Oltre un migliaio di schede sono state deposte, forate, legate con un filo e bruciate: tutte fumate nere. Ieri gli sguardi erano smarriti: mai, in tempi recenti, l’elezione del papa è stata tanto sofferta. Ci si interrogava su come, fuori da queste stanze, i cristiani stessero ragionando intorno alle nostre difficoltà. Qualcuno ha persino citato il trentacinquesimo scrutinio, quello dopo cui le regole cambiano e si opera un ballottaggio tra i due cardinali più votati. È un’eventualità prevista da Benedetto XVI, mai vi si è fatto ricorso.

    Poi, questa mattina, ho sobbalzato sentendo chiamare il mio nome alla conta dei voti: un manipolo di cardinali si era accordato a mia insaputa. Nella seconda elezione i voti sono aumentati, così come nella terza e nella quarta, quando gli scrutatori ne hanno contati sessanta. Alcuni mi hanno avvicinato, ma non sono riuscito a pronunciare che frasi di circostanza. Non potevo pensare, la mente offuscata, così che dentro di me non ho fatto che pregare e, a ogni elezione, ho scritto sempre lo stesso nome, quello del giovane arcivescovo di Bangui. Proprio lui, che in questi giorni mi è diventato confidente, e che apprezzo per la fede pragmatica e cristallina, in serata mi ha avvicinato: chiederà ai suoi di votare per me, così che domani la chiesa avrà il nuovo papa. Non l’ho ringraziato, non l’ho pregato di allontanare il calice. Sono rimasto pietrificato – pessimo gioco di parole! – e ora eccomi nella mia stanza: voglio passare in solitudine questa notte, voglio che gli altri possano discutere tra loro, magari lasciare che lo Spirito soffi in una diversa direzione.

    Le inimicizie e le invidie hanno bloccato l’ascesa dei più illustri, il timore ha evitato che si scegliesse tra i più giovani. Quanto a me, ho settantaquattro anni e il tempo trascorso nelle biblioteche mi ha reso un uomo fragile, almeno all’apparenza. Nessuno davvero mi conosce, molti continuano a sbagliare quando scrivono il mio nome sulle schede. Era successo lo stesso con il papa polacco. Le poche innovazioni che ho portato nella mia diocesi sono gradite ai progressisti; la mia attenzione per la tradizione convince i conservatori. Io stesso non saprei confessare quale dei due gruppi si stia sbagliando: non ho mai fatto troppo caso alla politica curiale. Di certo nessuno mi considera una minaccia. Temo che, anche in questo caso, qualcuno stia commettendo un errore.

    Se domani sarò eletto, mi verranno poste due domande. Mi si chiederà se intendo accettare il volere dei cardinali: non potrò rifiutarmi, dopo giorni tanto difficili. Ma la seconda domanda è quella che mi preoccupa: non ho la minima idea di come risponderò.

    Quo nomine vis vocari? Come vuoi essere chiamato? Le poche sillabe che usciranno dalle mie labbra saranno un sigillo. Attraverso mille rimandi intesi o fraintesi rivelerò chi sono davvero e cosa intendo fare. Peccato solo che, fino a questa mattina, mai avevo immaginato di sentirmi rivolgere una simile richiesta.

    Sono sorte le prime stelle, mi protegge la solitudine della mia stanza. Non so che nome scegliere perché, una volta eletto, non sarò più io: sarò il nuovo Pietro, e questo cambierà ogni cosa. Il papato è l’unica istituzione europea che ha percorso la Storia dall’antichità ad oggi. Ma cosa è stata? Cosa è diventata? Nel tempo che la notte mi concede, vorrei andare con la memoria, come un viandante, tra i papi che mi hanno preceduto. Lì cercherò la mia rinnovata identità e il mio nuovo nome, il mio posto in una sequela di oltre duecentocinquanta uomini, di quasi duemila anni. Le loro storie si intrecciano alla Storia del mondo, raggiungono vette e abissi, cambiano la percezione e la realtà di cosa significò e significherà essere pontefice. È come un romanzo con un solo personaggio che, immortale, a ogni rivolgimento cambia pelle, volto, sguardo.

    Che i romani pontefici mi guidino, che con la stella del mattino giunga la risposta.

    Omnia autem probate, quod bonum est tenete.

    Ab omni specie mala asbstinete vos.

    1

    Sopra questa pietra

    È arrivato in città ieri, o forse ieri l’altro. È l’apostolo prediletto. Lo ha accolto nella sua casa un rabbino e, appena si sarà ripreso dalle fatiche del viaggio, ripulito di polvere e sudore, dicono che ci parlerà. I suoi occhi hanno pianto sotto la croce, hanno visto il sepolcro vuoto di Gesù di Nazaret. In quegli occhi troveremo la verità, la verità prima che l’ora sia giunta.

    Nel luglio del 64 d.C. un grande incendio, propagatosi dal Circo Massimo, carbonizzò in sei terribili giorni di fuoco ampi quartieri della Roma imperiale. Tacito scrisse nei suoi Annali: «Nerone spacciò per colpevoli e condannò a pene di crudeltà particolarmente ricercata quelli che il volgo, detestandoli per le loro infamie, chiamava cristiani». Tra loro l’apostolo Pietro, per tradizione il primo dei papi.

    Il Vangelo di Matteo racconta di come Dio – nella persona di Gesù Cristo – abbia affidato la chiesa al pescatore di Galilea; ne fece, secondo un’espressione più tarda, «il principe degli apostoli». Andò così: Pietro riconobbe il suo Maestro con le celebri parole: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente», e Gesù, soddisfatto – ed è rimarchevole, dato che spesso dovette correggere le false convinzioni dell’apostolo –, lo ricambiò con l’ancor più celebre formula: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa». Il Vangelo di Giovanni propone poi una seconda investitura. Qui Gesù domanda a Pietro: «Mi ami?». Quando quello gli risponde di sì, gli ordina: «Pasci le mie pecore». La formula è forse meno esplicita, ma ci sono pochi dubbi sulla dignità di Pietro. Nei Vangeli sinottici è il primo ad essere chiamato nella sequela di Gesù; è il primo nome in ogni elenco di apostoli; tra i Dodici fa da portavoce; dopo la crocifissione, nel Vangelo di Giovanni, è il primo a entrare nel sepolcro; negli Atti degli Apostoli presiede all’elezione del successore di Giuda Iscariota e opera miracoli. Insomma, è il primo in ogni senso.

    Eppure… Eppure, benché la tradizione lo consideri il pacifico fondatore della chiesa universale, il suo ruolo e la sua eredità sono discutibili e discussi. Il nome di Pietro apre le più antiche liste dei pontefici, ma egli non è mai stato papa. Non solo: non è stato vescovo di Roma e non ha fondato la chiesa romana. A ben vedere, neppure si chiamava Pietro.

    Il suo nome era Simone di Giovanni – Simon bar Jonah –; fu Gesù a soprannominarlo Kephah, che in aramaico sta per pietra e nella traduzione latina diventa Petrus. Oltre a quanto ci dice il Nuovo Testamento, di lui sappiamo poco, ma siamo quasi certi che abbia raggiunto Roma al termine di un viaggio lungo il Mediterraneo intrapreso proprio per fondare comunità cristiane tra gli ebrei circoncisi. In una lettera inclusa nel Nuovo Testamento, l’apostolo saluta i destinatari anche per conto della «comunità radunata in Babilonia». Era il modo con cui i cristiani si riferivano a Roma. La lettera, la sua prima inclusa nel canone, fu scritta intorno al 63 d. C. Poi le terribili persecuzioni dell’imperatore Nerone, così raccontate ancora da Tacito: «Quanti andavano a morire subivano anche oltraggi, come venire coperti di pelli di animali selvatici ed essere sbranati dai cani, oppure crocefissi ed arsi vivi come torce, per servire, al calar della sera, da illuminazione notturna». Pietro secondo la tradizione fu crocifisso a testa in giù.

    Nei luoghi del martirio e della sepoltura del primo tra gli apostoli fiorì un’autentica devozione popolare. I cristiani erano soliti incontrarsi in preghiera intorno alle tombe dei martiri – di santi, all’epoca, non ce n’erano ancora –, ma in nessun altro angolo del mondo si sarebbero potute trovare spoglie tanto illustri, stante anche il fatto che in breve Roma assommò al corpo di Pietro quello di un altro martire eccezionale, Paolo di Tarso, decapitato dalle autorità romane.

    Qualcuno ha contestato che le sepolture sul colle Vaticano e sulla via Ostiense appartengano davvero ai due santi – i corpi dei giustiziati spesso venivano gettati in anonime fosse comuni –, ma sappiamo che la tradizione riguardo a quei luoghi è antichissima. Entro la fine del II secolo, già si era diffusa anche la credenza che Pietro e Paolo avessero «fondato e organizzato» la chiesa romana, come scrisse sant’Ireneo, vescovo di Lione. Solo che il Nuovo Testamento la racconta diversamente.

    Quando Pietro arrivò nella capitale dell’impero, infatti, la parola di Cristo aveva già toccato le sponde del Tevere. La più lunga delle lettere di Paolo, indirizzata ai cristiani di Roma prima che i due vi approdassero, si rivolge a una comunità della cui fede «si parla nel mondo intero». Il Vangelo era insomma giunto tra i sette colli prima degli apostoli, grazie alla nutrita comunità ebraica della capitale e ai contatti con la madrepatria. Probabile anche che, quando Pietro giunse in città, quell’orientale che aveva ascoltato la viva voce di Gesù sia divenuto un punto di riferimento dei cristiani. Difficile invece sostenere che ne fu il primo vescovo e, per comprenderlo, bisogna capire come fossero organizzati all’epoca i seguaci di Cristo.

    È inaccurato parlare per questo periodo di una chiesa di Roma. Esistevano molte chiese in città – qualcuno ha azzardato a contarne una dozzina – simili a quelle di cui parlano gli Atti degli Apostoli, un pulviscolo di comunità riunite ciascuna intorno a un anziano sul modello delle sinagoghe ebraiche. Difficile ricondurre i cristiani delle origini a un minimo comun denominatore che vada oltre l’identificazione di Cristo con il Messia, di cui si attendeva l’imminente ritorno. Si pensi che tutti i primi aderenti al movimento di Gesù erano ebrei e per molti di loro la nuova religione non era affatto una nuova religione, ma un ebraismo riformato dagli insegnamenti di un rabbino nato a Betlemme e morto in croce a Gerusalemme. Che fosse definito «Unto», vale a dire «Cristo», «Figlio dell’uomo» o «Figlio di Dio», ciò non comportava che egli fosse divino tanto quanto il Padre, né che coloro che credevano alla sua predicazione si considerassero fuori dall’antica tradizione ebraica.

    Alcuni problemi sorsero quando furono accolti nella comunità i primi politeisti cui non veniva imposto di circoncidersi, cioè di farsi ebrei. L’evangelista Luca negli Atti degli Apostoli, forse per dare un’alta giustificazione a questo rilevante mutamento, scrisse che a battezzare i primi romani – un centurione di nome Cornelio e la sua famiglia – fu Pietro in persona. La decisione era stata determinata dall’intervento dello Spirito Santo e da alcune apparizioni angeliche. Tuttavia l’inclusione dei politeisti – che presto verranno chiamati con disprezzo pagani – generò divisioni, e Pietro non fu il maggiore sostenitore della piena apertura del movimento ai non ebrei. È qui che si fa cruciale, invece, la figura di Paolo di Tarso.

    Benestante e cittadino romano di lingua greca, ma ebreo circonciso e figlio di ebrei, Paolo interpretò il messaggio di Gesù in chiave universale, sostenne che nel sacrificio pasquale avesse liberato l’intera umanità e che quindi tutti potevano farsi cristiani. Così la pensavano molti dei convertiti tra i giudei «ellenisti», come Paolo grecizzati per lingua e costumi, che fin dall’origine della chiesa a Gerusalemme si erano opposti, anche con violenza, al gruppo degli «ebrei» che mantenevano invece lingua e costumi ebraici. L’aspetto dirompente di questa concezione era che, per chi proveniva dal politeismo, non vi fosse obbligo di rispettare la Legge ebraica, il che rendeva irrilevanti le antiche regole di vita giudaiche. Proprio in questo contesto «ellenizzato» – ad Antiochia – si coniò il termine cristianus, con una desinenza né ebraica né greca, bensì latina.

    Su questo tema i rapporti tra Pietro e Paolo si fecero tesi. Paolo rivela – nel documento più antico del Nuovo Testamento, la Lettera ai Galati – di essersi scontrato con l’apostolo prediletto «a viso aperto», ad Antiochia, «perché [quest’ultimo] aveva torto» riguardo al comportamento da tenere con i cristiani non circoncisi: aveva rifiutato di restare in comunione con loro considerandoli impuri. Pur senza rinnegare la speciale posizione di Pietro, Paolo rivendica la propria indipendenza, rivelando che «il principe degli apostoli» era stato incaricato di portare il messaggio agli ebrei della diaspora, diffusi in tutto l’impero, mentre lui era stato inviato ai gentili. Ma dichiarare, come Paolo faceva, che «non è la circoncisione che vale […], ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità», significava abbattere le mura del credo ebraico-cristiano. Dopo l’incidente di Antiochia, i due si confrontarono nel Concilio di Gerusalemme del 49 d.C., dove l’apertura ai non ebrei – intesa come la scelta di non obbligarli alla circoncisione, benché questi dovessero comunque «astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime» – venne sancita dal capo di quella comunità, ovvero Giacomo, il maggiore dei quattro fratelli maschi di Gesù, secondo l’evangelista Marco. Nelle comunità si svilupparono comunque aspri conflitti. Riguardo a Roma, Svetonio riportò, pur senza darci altre indicazioni, che «impulsante Chresto», cioè per colpa della predicazione cristiana, la comunità ebraica stabilita principalmente a Trastevere visse forti dissidi.

    Torniamo ora alla questione dalla quale siamo partiti: fu Pietro vescovo di Roma? L’idea e la possibilità di porre un uomo a capo di tutti i cristiani della città era ancora lontana, quindi bisogna negarlo. Questo cristianesimo era policentrico; in parte perché la comunità forse non sentiva il bisogno – come qualsiasi comunità ebraica da millenni – di darsi un unico capo religioso, in parte perché vi erano modi diversi di essere cristiani e non era ancora possibile riunirsi in un’unica chiesa. Pietro fu un riferimento, ma non un vescovo. Con buona pace del Liber Pontificalis, passò quasi un secolo dalla sua morte prima che un vescovo vero e proprio calcasse le strade di Roma. E, anche quando accadde, si era lontani da poterlo considerare un’autorità che valicasse i confini della città.

    Autorità e autorevolezza dei pontefici romani vengono comunque fatti risalire all’eredità di Pietro, alla prosecuzione del suo mandato. In effetti, anche se non fu vescovo, il suo ruolo di guida era stato sancito dal Figlio di Dio e questo, per chi crede, supera qualsiasi contingenza umana. Ma cosa credeva Pietro rispetto alla sua successione? Si fa qui rilevante il testo della sua prima lettera: «Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro», dice, «ai fedeli dispersi nel Ponto, nella Galazia» e in altre località orientali, «pascete il gregge di Dio […] non come padroni delle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. […] Anche voi, giovani, siate sottomessi agli anziani». Pietro scandisce la stessa metafora con cui, secondo l’evangelista Giovanni, Gesù lo ha messo a capo dei suoi. Si rivolge ad alcune comunità orientali affidandole alla guida dei propri anziani. Il modello è ancora una comunità guidata da molti, come se Pietro neppure pensasse alla possibilità che, dopo Cristo, qualcuno si ponesse al vertice di tutta la chiesa. Lui stesso si rivolge agli anziani considerandosi «anziano come loro».

    Se Pietro pensò che la chiesa potesse prosperare mantenendo la struttura tipica della religione ebraica, nei secoli successivi i cristiani si organizzarono in maniera diversa. Passo dopo passo si costituì, per tentativi ed errori, una realtà differente che necessitava una giustificazione dall’alto – o meglio dall’Altissimo – delle sue figure apicali, così come accadde per pressoché ogni istituto politico o religioso per millenni. La figura di Pietro, dunque, fornì questa giustificazione.

    Diciamolo subito: la storia che si va qui raccontando avrà una doppia lettura. I cristiani credono che attraverso le vicende umane – le più diverse e contraddittorie – lo Spirito Santo abbia fatto sentire la propria voce. Per gli altri, invece, quella della chiesa di Roma e del suo papa è una storia di uomini, potere, ambizioni, odio e sincere speranze. È una distinzione che tocca il significato di fondo di questo «romanzo dei papi»: un intrico di avvenimenti, spesso rocambolesco, che per duemila anni ha influenzato e persino determinato la storia occidentale.

    2

    Divisi e perseguitati

    Dei cristiani di Corinto si parla in ogni approdo del Mediterraneo. Sono una comunità tra le più antiche, fondata da Paolo di Tarso, ma ormai lacerata. Odio e invidia hanno portato alla ribellione, soffocato il rispetto per gli anziani, per i saggi, per gli uomini illustri e stimati. Ora, con la brezza che spira dal golfo, è giunta in città una lettera dall’Occidente. I membri della comunità sono chiamati a raccolta e ne ascoltano la pubblica lettura. La declamazione inizia così: «La chiesa di Dio che è a Roma alla chiesa di Dio che è a Corinto» e, dopo scarni convenevoli, seguono una serie di accuse tali da far arrossire anche i più orgogliosi. Si indora la pillola – «scriviamo tutte queste cose non solo per avvertire voi, ma anche per ricordarle a noi» – ma il messaggio è incontrovertibile e prende di mira i ribelli. La firma è quella di Clemente, un uomo che parla a nome dei romani. Ma perché questo Clemente mette becco nelle brutture dei Corinzi?

    Dalla morte di Cristo non era trascorso neanche un secolo: la lettera di Clemente risale circa all’anno 96. Il cristianesimo si stava diffondendo tra le città del Mediterraneo grazie a viaggiatori e predicatori itineranti. I cristiani di Roma erano ancora organizzati in comunità differenziate; in luoghi di incontro messi a disposizione dai più facoltosi, o nei cimiteri, pregavano e facevano memoria dell’ultima cena di Gesù. Crescevano di numero – il movimento aveva oltrepassato i limiti della sola comunità ebraica, ma rimaneva minoritario – e i fedeli si potevano permettere di affittare spazi pubblici per le proprie attività di preghiera. Nonostante sia diffusa una credenza contraria, dopo le persecuzioni neroniane i cristiani a lungo non dovettero temere repressioni e poterono professare il loro culto senza infingimenti, con l’eccezione di alcune limitate ritorsioni.

    Ogni gruppo aveva a capo un presbitero. È il termine che compare nella lettera di Pietro citata nel capitolo precedente: significa «più anziano». La radice è greca: questa era la lingua delle chiese delle origini, la lingua del Nuovo Testamento. Tra i tanti presbiteri romani talvolta si rendeva necessario stabilire una gerarchia informale: serviva a regolare le attività comuni o a far fronte a specifiche necessità. In effetti, non ci si limitava a pregare. I cristiani fornivano ai propri fratelli e sorelle la cura dei poveri, degli orfani e delle vedove, i servizi funebri in terra consacrata e una rete di soccorso che necessitava un certo grado di organizzazione. Inoltre, la parcellizzazione delle comunità aveva determinato difformità nelle credenze e negli usi. Numerose divergenze sorsero fin dai primi decenni e molte riguardarono la continuità o la discontinuità con la religione ebraica. Ci si divideva, ad esempio, su quando fare memoria della risurrezione di Gesù. Nella parte orientale dell’impero si celebrava la Pasqua in concomitanza con la Pesach ebraica e così, a Roma, facevano le comunità originarie dell’Asia minore; quelle indigene, invece, commemoravano la Pasqua ogni domenica. Altro tema di divisione era il rapporto tra la predicazione di Gesù e la tradizione ebraica. La divaricazione massima si ebbe nel II secolo, quando Marcione – teologo cristiano di origine greca stabilitosi a Roma intorno all’anno 140 – portò alle estreme conseguenze la predicazione di Paolo e respinse per intero l’Antico Testamento: il Dio degli Ebrei, sosteneva, non era quello di Gesù Cristo. Per secoli i Padri della chiesa avrebbero affaticato menti e cuori allo scopo di confutarne la tesi.

    Non erano questioni da poco: si rischiava di finire come i Corinzi, divisi e litigiosi. Così, per tenere sotto controllo le chiese, la cui indipendenza si faceva focolaio di false dottrine – non essendo stabilito un canone fino al IV secolo, ad esempio, ognuno selezionava i testi sacri confezionandosi di fatto il proprio Vangelo – a partire dalla fine del I secolo ovunque i cristiani si diedero una struttura gerarchica, indispensabile per mantenere l’unità dei discepoli e l’ortodossia del messaggio. Alcune comunità iniziarono a eleggere un vescovo – in greco epìscopos, vale a dire sorvegliante, colui che custodisce la comunione nella fede. A Roma, tuttavia, si mantenne a lungo un modello più lasco. Per questo il Clemente della lettera ai Corinzi – che nel suo scritto non fa riferimento ad alcun epìscopos – era con tutta probabilità uno dei presbiteri, forse più eminente di altri, che guidavano le comunità. È un fatto: ancora all’inizio del II secolo, i romani non distinguevano tra presbiteri e vescovi, ma li citavano alternativamente e sempre al plurale. Intorno al 107 il vescovo di Antiochia, Ignazio, fu arrestato e portato a Roma per essere giustiziato; scrisse a molte chiese perché si riunissero ciascuna intorno al proprio vescovo ma, quando si rivolse ai romani, del vescovo non fece menzione. Eppure, nonostante questo, il Liber Pontificalis considera Clemente come papa romano.

    Scorriamo l’antica lista. Ecco i primi nomi, oltre a Pietro, dei pretesi vescovi di Roma: Lino, Anacleto, Clemente, Evaristo, Alessandro, Sisto… Il sesto successore di Pietro si chiamerebbe Sisto: una coincidenza sorprendente. In realtà di questi uomini – eccetto Clemente per la sua lettera – non sappiamo nulla; probabile che l’attribuzione della carica di vescovo sia contestabile, forse alcuni di loro non sono nemmeno mai esistiti. Il primo di cui abbiamo qualche informazione certa è Pio I, considerato vescovo di Roma tra il 142 e il 155, proprio nel periodo in cui Marcione fu allontanato dalla comunità. Sappiamo che fu vescovo, ma non siamo certi che fosse l’unico. L’ufficio di vescovo si stabilì più saldamente con il successore, Aniceto, che resse la chiesa locale fino al 166. Proprio in questo periodo si iniziarono a compilare a ritroso le liste di vescovi romani per sostanziarne la tradizione. Ed è probabile che per la stessa ragione – dare un’origine salda e sacra a quell’incarico – ancora sotto Aniceto si siano edificati i primi sacelli di Pietro e Paolo in Vaticano e sulla via Ostiense.

    Aniceto, se vogliamo andare sul sicuro, fu quindi il primo vescovo di Roma. Di lui sappiamo che affrontò di petto l’antica questione della data della Pasqua e che, per questo, si oppose all’anziano vescovo di Smirne, Policarpo. L’orientale godeva di grande considerazione, considerato l’ultimo discepolo vivente dell’apostolo Giovanni, e sosteneva le ragioni di far coincidere la celebrazione cristiana con quella ebraica, il quattordicesimo giorno del mese ebraico di Nisan, quando appunto si celebrava la Pesach. Questo il motivo per cui le chiese che seguivano l’uso orientale si dicevano «quattordecimane». Aniceto difese invece la pratica romana che, nel frattempo, si era aggiornata: ora si celebrava la ricorrenza una volta all’anno, la domenica successiva al 14 di Nisan.

    I due non trovarono un accordo. Fu poi l’ultimo vescovo romano del secolo, Vittore, a tornare sul punto e a vietare ai romani l’uso delle quattordecimane. Quando Eusebio di Cesarea ne scrisse, a più di un secolo di distanza, fraintese: sostenne che Vittore avesse, a causa di quella tradizione, scomunicato le chiese dell’Asia minore. Sarebbe stata una brusca svolta nella storia: per la prima volta un vescovo romano avrebbe sostenuto il suo diritto di dichiarare «eretiche» altre chiese, diritto che nessuno, all’epoca, gli avrebbe riconosciuto. Vittore era papa, sì, ma il termine – dal greco pàpas – non significava nulla più che padre; era un appellativo di riguardo usato in tutta la cristianità sia per i vescovi sia per i presbiteri. Per affermare la preminenza della chiesa di Roma sulle altre dovranno passare secoli, anche se alcuni autori, come Ireneo e Tertulliano, già rilevavano una speciale condizione romana determinata dall’eredità dei due massimi apostoli che, a partire dal 258, sarebbero stati celebrati a Roma nel medesimo giorno, il 29 giugno, prima dedicato a Quirino e Romolo. Ma un conto è il prestigio, un altro è l’autorità.

    Vittore fece molto altro. Nato in Africa, era il primo latino a capo della chiesa di Roma: siamo nell’ultimo decennio del II secolo, la religione di Cristo era diffusa in tutto l’impero e trai cristiani figuravano anche aristocratici convertiti dal politeismo. Come loro guida religiosa, il vescovo si fece sempre più influente, persino durante le persecuzioni. Vittore fu il primo papa a intrattenere relazioni con la corte imperiale. Si servì di Marzia, cristiana e amante dell’imperatore Commodo. Per suo tramite ottenne la liberazione di alcuni prigionieri, ed anche questo evento fu di prima importanza. Il prestigio della chiesa romana era fondato su Pietro e Paolo, certo, ma ora il vescovo si dimostrava anche un benefattore influente, un uomo vicino agli ambienti imperiali, persona a cui rivolgersi in caso di bisogno. Anche su queste basi la chiesa di Roma divenne, nell’arco di qualche decennio, punto di riferimento per tutto il Mediterraneo. Non c’è da ingannarsi, però: non era la sola ad avere un tale privilegio. Erano considerate più autorevoli le comunità che potevano rivendicare di essere state fondate dagli apostoli, di essere apostoliche.

    La vicenda di papa Callisto, vertice della chiesa romana dal 217 al 222, offre nuovi spunti per capire cosa fossero i cristiani all’inizio del III secolo. Innanzitutto erano una comunità in cui uno come lui, l’ex schiavo di un cristiano influente, poteva arrivare al comando. Il nome del suo padrone era Carpoforo ed egli, Callisto, gli fece da tesoriere fino a quando non fu accusato di un’appropriazione indebita. Dopo aver scontato la condanna, fu arrestato una seconda volta per aver causato disordini in una sinagoga: finì ai lavori forzati nelle miniere di Sardegna. Liberato indirettamente dall’intervento di papa Vittore, era tornato a Roma nel 190 per intraprendere la carriera ecclesiastica. Divenne diacono – dal greco diákonos, servitore, una figura sottoposta al vescovo e ai presbiteri – e amministratore del cimitero cristiano sulla via Appia, forse il primo posseduto dalla comunità, certo il primo attestato, dove venivano sepolti anche i vescovi di Roma: oggi le conosciamo come catacombe di san Callisto, che dimostrò le sue capacità, si legò al successore di Vittore, Zefirino e, quando quest’ultimo morì, fu eletto suo successore dal clero di Roma.

    Quanto accadde in seguito non aveva precedenti. Un presbitero romano, Ippolito, si rifiutò di accettare l’elezione di Callisto, raccolse intorno a sé un piccolo gruppo di chierici e si fece nominare vescovo. Ecco servito il primo antipapa della storia.

    È un fenomeno – quello degli antipapi – che letto in prospettiva storica rischia di non rivelare la propria tragicità. Oggi di norma sappiamo chi tra i contendenti fosse da considerare papa e chi antipapa – o almeno qual è stato il responso della storia –, ma spesso questo non fu affatto chiaro ai contemporanei; talvolta fu anzi confermata la consacrazione di chi aveva tutta l’aria dell’usurpatore. Quando i papi sono più di uno si vive in un tempo sospeso; tutto sembra poter accadere.

    In questo caso Ippolito accusava Callisto di essere troppo morbido, troppo lassista, persino di abbracciare in maniera velata alcune dottrine eretiche. Lo stile del nuovo vescovo era infatti conciliante, molto lontano da quello che Ippolito considerava il suo modello, Vittore. Se l’eccessiva rigidità poteva allontanare parte del clero dalla chiesa di Roma, Callisto intendeva piuttosto dimostrarsi accogliente. Così, tra le altre cose, si attribuisce a lui il merito di aver permesso alle nobildonne cristiane di sposare uomini di ceto inferiore: se questo fosse vero, si tratterebbe del primo caso in cui la chiesa avrebbe rivendicato un diritto sulla regolamentazione del matrimonio. Ad ogni modo la scelta aveva un significato preciso. La diffusione del cristianesimo era rimasta a lungo al confine delle classi superiori: per un senatore o un militare era quasi impossibile dirsi cristiano, dato che il suo ruolo comportava doveri come il pubblico sacrificio agli dèi del politeismo. Le donne, le matrone, erano state le prime a convertirsi, abbandonando culti che le relegavano a una posizione marginale nei riti pubblici – con l’eccezione delle sei Vestali – e che limitavano la loro azione religiosa a riti privati da cui solitamente gli uomini erano esclusi. Tra i pagani, insomma, l’universo religioso maschile e quello femminile erano separati, ed era stato il secondo a introdurre il nuovo credo tra le classi altolocate.

    Il romanzo dei papi ha poche regole certe, ma di sicuro è più facile aprire uno scisma che ricomporlo. Ippolito continuò a rivendicare il titolo di vescovo di Roma per tredici anni dopo la morte di Callisto, durante il pontificato dei successori. Avrebbe deposto le armi solo rimettendo l’anima a Dio. Non era un uomo malvagio, non era assetato di potere: era uno dei maggiori teologi del suo tempo, un pensatore di tale rigore da risultare in eguale misura rispettabile e divisivo. Per questo Ippolito è uno dei due antipapi che la chiesa ha poi riconosciuto come santi: scismatico sì, ma a fin di bene.

    Di Callisto non conosciamo il destino. Un racconto lo vuole linciato a Trastevere e martire, ma è probabile che non rispecchi la verità. La chiesa considera martiri tutti i papi dei primi tre secoli, eppure l’atteggiamento del potere romano nei confronti di quella religione orientale non fu sempre repressivo e durante il pontificato di Callisto non si registrarono persecuzioni.

    La storia della violenza anticristiana è complessa. L’impero prese consapevolezza del fatto che il cristianesimo fosse una nuova religione – da differenziarsi rispetto al tollerato ebraismo – piuttosto tardi, e ancora più tardi si accorse di quanto i cristiani, sostenitori di quella che molti consideravano una degenerata superstizione, mettessero in discussione l’integrità sociale. Sorvolando su casi isolati, anche se ve ne sono di significativi, fu dalla seconda metà del III secolo che due grandi ondate persecutorie scossero una comunità sempre più vasta e ricca, mentre l’impero traballava tra divisioni interne e invasioni di popoli germanici. Il primo a farne le spese fu papa Fabiano, eletto nel 236, responsabile di una riorganizzazione della sua chiesa in sette diaconie e dell’ordinazione di alcuni vescovi incaricati della predicazione in Gallia. A lungo visse in pace, poi tutto si trasformò in tragedia quando, alla fine dell’anno 249, l’imperatore Decio decise che ogni suo suddito dovesse sacrificare pubblicamente agli dèi del politeismo dietro il controllo degli ufficiali imperiali. Chi lo faceva, otteneva un certificato, un libellus; gli altri sarebbero stati considerati nemici dell’impero, con tutto ciò che comportava.

    Per i ricchi bastava investire qualche soldo in una piccola corruttela e ottenere il documento; per gli altri la scelta era tra il martirio – parola ancora una volta di radice greca, da mártys, che significa testimone – e il gesto sacrilego. Papa Fabiano neppure ebbe tempo di rifletterci: noto e odiato dall’imperatore, fu imprigionato nel carcere Tulliano dove morì di fame nel 250. La persecuzione di Decio sarebbe durata fino

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