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Damnati
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E-book309 pagine4 ore

Damnati

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Info su questo ebook

Adriano è un giovane agente di polizia che ha chiesto di prestare servizio su un'isola penitenziaria dove sorge la sezione speciale San Gabriele, definita anche la 'mano sinistra di dio', carcere di massima sicurezza in regime di 41bis.
L’unico collega con cui interagisce è Vincenzo, poliziotto di lungo corso nonché memoria storica del carcere. È lui a raccontare le storie di alcuni detenuti tra cui il boss mafioso Salvatore Totò Santarita, detto 'u Sarracino, e l’ex brigatista Davide Mason.
A fare da contrappeso è Maurizio, detto il Dogo, agente spietato, aguzzino, distorto servitore dello Stato, personaggio sadico che rappresenta la parte della legge dominata dalla pena, dalla punizione, dall’umiliazione, dalla vendetta.
L’Isola, come i personaggi, porta addosso una profonda cicatrice: un muro di cemento armato lungo tre chilometri e alto sei metri. Dentro si trovano guardie e carcerati, indistintamente damnati, in un gioco in cui ruoli e identità vanno a confondersi.
In un’alternanza tra narrazione al presente e ricordi del passato, tra storie personali ed eventi storici, emergeranno tutti i pezzi della vita di Adriano, per unirsi come gocce di mercurio atomizzate, anni prima, da un tragico evento.

Un romanzo in cui, attraverso pennellate iperreali e una grande attenzione alle psicologie dei personaggi, Paola Castriota dipinge un mondo dominato dalla ferocia e dal sopruso, dove le certezze di sfaldano e la vita assume i contorni sfocati dell'incubo.

Serrato, claustrofobico, scritto con la precisione di una sceneggiatura cinematografica, Damnati è un'opera capace di scuotere le coscienze, di porci davanti a scomodi interrogativi e di farci guardare il male e tutta la sua inevitabile profondità come attraverso uno specchio scuro.

LinguaItaliano
Data di uscita1 giu 2023
ISBN9788869348242
Damnati
Autore

Paola Castriota

Appassionata di storia, diritti civili e politica, Paola Castriota, laureata in Giurisprudenza alla Statale di Milano, svolge la professione di giornalista dal 2007. Scrive di cronaca locale e giudiziaria, seguendo in particolare l'ultimo processo per la bomba di Piazza della Loggia a Brescia. Nel tempo approfondisce anche lo studio del linguaggio cinematografico e iconografico. Dal 2015 dirige vari documentari tra cui Nero Piombo - Storia di una strage politica. Ogni anno si dedica a incontri di educazione civica con gli studenti delle scuole superiori. Tra le opere pubblicate: Fascisti - Storie di vite estreme (Liberedizioni).  

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    Damnati - Paola Castriota

    Paola Castriota

    Damnati

    Romanzo

    Ogni personaggio narrato è frutto di pura invenzione. Alcuni fatti sono ispirati ad avvenimenti realmente accaduti, ma poi liberamente interpretati dall’autrice.

    © 2023 Bibliotheka Edizioni

    www.bibliotheka.it

    Isbn 9788869348235

    I edizione, giugno 2023

    Tutti i diritti riservati.

    Disegno di copertina: Paolo Niutta

    www.capselling.it

    Paola Castriota

    Appassionata di storia, diritti civili e politica, si laurea in Giurisprudenza alla Statale di Milano, svolgendo dal 2007 la professione di giornalista. Scrive di cronaca locale e giudiziaria, seguendo in particolare l’ultimo processo per la bomba di Piazza della Loggia a Brescia.

    Nel tempo approfondisce anche lo studio del linguaggio cinematografico e iconografico.

    Dal 2015 dirige vari documentari tra cui Nero Piombo - Storia di una strage politica.

    Ogni anno si dedica a incontri di educazione civica con gli studenti delle scuole superiori. Tra le opere pubblicate: Fascisti 70 - Storie di vite estreme (Liberedizioni).

    L’isola è distanza fisica dalla terraferma, dalle città che brulicano, da ciò che si muove, che va avanti. L’isola ti fa sentire lontano dagli accadimenti, dalle profezie che si avverano, dal tempo che scorre, dal divenire. La distanza fisica diventa anche distanza mentale.

    A chi difende chi non si può difendere

    L’Isola appare lentamente, come il sogno di un luogo appartenuto a qualcuno che non c’è più.

    Ci arrivo di notte, la prima volta.

    È solo un’ombra nera che si confonde con il nero.

    Non fosse per la luna che vi getta sopra una gelida luce di falce.

    È aspra la roccia, e scura. Ne vedo a fatica i contorni, sagome di uomini torvi che mi scrutano in silenzio come rapaci notturni.

    Il rombo cupo della motovedetta mi impedisce di sentire. Meglio così.

    Mi hanno chiesto se ho problemi con i turni di notte. No, nessun problema. In verità di notte faccio di tutto per dormire il meno possibile. Perché se dormo, sogno.

    Mi è stato detto che il mare lentamente si sta mangiando la costa e gli edifici. Ogni cosa si sgretola giorno dopo giorno, ora dopo ora.

    Vorrei fosse così anche per me.

    Che il mare mi consumasse e che il vento poi mi disperdesse.

    Papà era agente di polizia penitenziaria nel grande carcere della metropoli, mentre mamma, di mattina, lavorava in una profumeria e di pomeriggio stava a casa oppure andava a fare i mestieri nelle case degli altri. Uno stipendio intero e uno quasi intero permettevano alla nostra famiglia di vivere serenamente.

    La presenza di papà era intermittente, per via dei turni di lavoro. Mamma ce l’aveva spiegato usando l’esempio delle fasi lunari dopoché mio fratello Fabio, all’incirca all’età di cinque anni, si era messo a cercarlo disperatamente di notte, senza trovarlo. Era andato a colpo sicuro nella camera dei miei e, avendo trovato vuota la metà del letto, era stato preso dall’angoscia che papà ci avesse abbandonati.

    Anni dopo, alle ricorrenze in famiglia, Fabio ricordava l’episodio definendolo ‘un classico evento traumatico scatenante’ che l’aveva profondamente segnato. Naturalmente tutti ridevano, pure Fabio, ma in fondo, qualcosa gli era rimasto, da qualche parte, dentro. Una piccola, microscopica cicatrice, invisibile a occhio nudo.

    Ad ogni modo, siccome il periodo dei turni di notte durava più di una settimana, e tutte le notti Fabio con una puntualità sconcertante si presentava piangendo ai piedi del lettone matrimoniale, mamma aveva trovato un modo efficace per far capire a entrambi – anche io, più piccolo di due anni ero stato coinvolto in via preventiva – il motivo delle regolari assenze notturne di papà.

    Aveva estratto un grande libro illustrato di astronomia e ci aveva mostrato come, durante il mese, la luna fosse visibile, ma non sempre nello stesso modo. Prima, una parentesi sottilissima come la pupilla di un gatto, poi, spicchi sempre più grandi e infine un cerchio bello tondo argenteo. Dopodiché, ancora spicchi, ma questa volta con la gobba al contrario e infine più nulla. Poi ricominciava tutto.

    Mamma ci aveva detto che la luna non se ne andava veramente, semplicemente non potevamo vederla e lo stesso era con papà.

    Il fatto che in certi periodi del mese non fosse presente in casa di notte non significava che ci avesse lasciati, semplicemente si trovava in una posizione non visibile a noi, ma solo per poco tempo.

    Ogni sera, con grande pazienza, ci prendeva, portandoci sull’unico balcone di casa. Ci avvolgeva sotto le sue ali con una grande coperta e poi indicava il luminosissimo disco lunare. L’esempio pratico funzionava sempre. Anche a distanza di secoli, gli astri notturni tornavano a essere utili e rassicuranti perché erano lì a disposizione degli umani che li interrogavano dal basso, con il naso all’insù.

    Penso sia nata in quel momento la mia curiosità verso il cielo. Avevo capito che il cielo poteva dare risposte o quantomeno accogliere domande.

    La luna ricompariva sempre, non perdeva mai l’appuntamento con noi, così anche papà. Alle notti in cui lui si eclissava seguivano i risvegli migliori. La mattina, infatti, lui compariva nella nostra camera. Ci veniva a svegliare e Fabio si tirava su col busto, come mosso da un misterioso automatismo, allungava le braccia, tese e cariche di energia attrattiva, e papà, sempre mosso da un misterioso automatismo, andava incontro al suo abbraccio, trascinato da un magnetismo altrettanto irresistibile. Fabio gli si stringeva al collo come una scimmietta, sprofondando il viso nell’incavo del collo. Poi arrivava mamma.

    Rotazioni e rivoluzioni dei pianeti del mio sistema solare che mi facevano sentire bene, al sicuro.

    Ho sempre avuto una memoria fotografica molto buona. Ancora adesso i ricordi sono impressi come polaroid dai colori vividissimi. Ho ancora davanti agli occhi e la vedo perfettamente definita, l’immagine di papà e Fabio abbracciati: lui vestito da agente con il berretto blu infilato nel passante sulla spalla sinistra della camicia, mio fratello, uno scricciolo magro tutto-testa, con il pigiama a quadrettini sottili.

    Mamma era mamma. E a parte il fatto che tra le varie cose ci aveva insegnato a leggere il cielo, era la creatura più bella che ci fosse. Non solo era unica, ma anche in un confronto tra tutte le altre del mondo, le avrebbe battute a mani basse, senza nemmeno doversi truccare o vestire bene.

    Aveva fatto il ’68, apparteneva alla rivoluzione, alle lotte di piazza, agli slogan e alle provocazioni.

    Ironia della sorte aveva conosciuto papà proprio durante una manifestazione.

    Lui in quel periodo era agente di pubblica sicurezza e si prendeva sputi, calci, insulti quasi ogni giorno. Aveva imparato a difendersi da quel branco di scalmanati perditempo figli di papà – come li chiamava lui – che occupavano strade, piazze e università per non dover studiare né lavorare. A volte, gli capitava di fronteggiare quelli con la barba e i capelli lunghi, vestiti con l’eskimo, altre volte quelli con i capelli corti e i giubbotti in pelle. Erano anni da schifo, avrebbe ricordato tempo dopo, ripetendo sempre quelle parole con un’amarezza che rabbuiava il suo sguardo.

    Siccome i poliziotti raramente facevano carica sulle manifestanti donne, i movimenti studenteschi, quelli più numerosi, avevano preso l’abitudine di metterle in prima fila. In questo modo, le forze dell’ordine si trovavano di fronte un blocco di femministe agguerrite, ma pur sempre donne. Si creava un conflitto etico non indifferente. Perché se era vero che la cultura maschilista era la norma e che quelle donne scendevano in piazza proprio per slegarsi dal patriarcato e decidere da sé e per sé, era anche vero che portare avanti una carica contro di loro richiedeva uno sforzo considerevole. Non era così per tutti gli agenti, ma per la maggior parte sì, perlomeno per quelli che sotto i caschi imprecavano dicendo: siamo pur sempre uomini.

    Le pasionarie in prima fila, compatte e allacciate le une alle altre in un intreccio di braccia che lasciava sguarnita la protezione del petto, tenevano testa al plotone di poliziotti in tenuta antisommossa. Ogni tanto rifilavano qualche calcio, ma il più delle volte mettevano fiori nei risvolti delle loro divise e li provocavano con slogan a effetto.

    In una delle manifestazioni, mamma, che era in prima linea, si era ritrovata letteralmente sbalzata in avanti insieme alle compagne, andando a impattare contro l’agente che aveva di fronte. Lui al posto che respingerla proteggendosi col manganello a mo’ di sbarra sul petto, aveva aperto istintivamente le braccia, accogliendola. Il manganello a penzoloni era rimasto allacciato al polso come una prolunga artificiale del braccio.

    A quel punto era successa una cosa completamente insolita, inaspettata e destabilizzante. I due si erano ritrovati abbracciati, occhi negli occhi, ancora sorpresi dalla fulmineità dell’evento. I rumori degli strepiti intorno – voci maschili che lanciavano ordini come dardi, voci femminili che rispondevano a tono ma di qualche ottava sopra – erano stati risucchiati, tutto era scomparso, e per un attimo l’agente e la rivoluzionaria si erano trovati soli in quella piazza come illuminati da un fascio di luce mentre intorno era buio.

    Poi lei, istintivamente, aveva fatto un gesto altrettanto rivoluzionario. Aveva alzato la sua mano dalla pelle bianca e sottile e aveva accarezzato il poliziotto sul casco all’altezza della guancia, si era avvicinata col viso e aveva lasciato, con un bacio, le labbra sulla sua visiera.

    Il gesto era stato talmente dirompente da bloccare tutti quanti, da una parte e dall’altra. All’improvviso, nessuno aveva più voglia di proseguire la mattinata di scontri. La carezza e il bacio da cui l’agente si era lasciato avvincere avevano tolto significato al conflitto, alla foga provocatoria delle femministe e alla repressione istituzionale della polizia.

    Alcune delle pasionarie della prima fila avevano trascinato via mamma perché i fotografi avevano già scattato qualche foto di troppo che non sarebbe stata certamente usata a favore della lotta femminista. Anche perché i giornali erano amministrati, diretti e scritti da uomini che non ritenevano particolarmente importanti le rivendicazioni dell’altra metà del cielo. Avevano tutt’altro peso invece le manifestazioni sindacali, senza ombra di dubbio, sia a livello di inchiostro sia a livello di combustile per i nascenti gruppi estremisti.

    Probabilmente qualche illustre penna avrebbe dato dell’episodio curioso una lettura a tinte rosa oppure indignata in un’ottica di assalto alla probità dei fedeli servitori dello Stato.

    L’agente baciato, in quel momento lontano anni luce dai titoli di giornale del giorno dopo, era rimasto fermo come un allocco, poi qualcuno gli aveva strappato dalle braccia quella creatura piovuta da chissà dove. Un collega gli aveva dato un colpo in testa con la mano pesante e guantata per riportarlo alla realtà. Gli aveva chiesto sbrigativamente se fosse tutto a posto, e lui, aveva risposto: sì, sì tutto ok, quando invece avrebbe voluto rispondergli che non si era mai sentito così bene e così male allo stesso tempo perché all’incantevole incontro si era sostituita la repentina perdita. Quella ragazza era stata fagocitata dalla folla di donne, scomparendo alla sua vista. Il pensiero che non l’avrebbe più ritrovata si era insinuato in lui gettandolo nell’angoscia. Un insieme di pensieri e sensazioni che, a naso, sarebbe stato troppo complesso da spiegare, lì per lì, al collega dalla pesante mano guantata.

    Così si erano conosciuti mamma e papà.

    Ogni volta che mamma riportava alla memoria quell’episodio, non mancava mai chi, ascoltando il racconto, si inseriva chiedendo la fatidica domanda: e poi cosa è successo?

    Lei sorrideva, schermendosi, e poi diceva che niente, nelle settimane successive aveva portato al comitato di femministe svariate e motivate proposte di manifestazioni di piazza con un fervore sempre più travolgente. Ovviamente, credeva in quelle istanze, ma la verità era che non avendo la minima idea di chi fosse quel poliziotto e di come ritrovarlo, pensava che l’unico modo di incontrarlo, di impattare nuovamente su di lui piombandogli fra le braccia, fosse ricreare la stessa situazione. Il calcolo statistico le dava ragione, ma gli incontri decisivi nella vita hanno sempre poco a che fare con la statistica e infatti in piazza non riuscivano più a ritrovarsi.

    Oltretutto, non esistevano numeri identificativi sui caschi dei poliziotti, che le avrebbero permesso di risalire in qualche modo all’identità dello sconosciuto agente.

    Cosicché anche nel suo cuore aveva iniziato a salire un velo di tristezza, scoramento e angosciosa speranza.

    Finché un giorno papà si era presentato, vestito in abiti borghesi, al comitato della lotta femminista. Non avevano voluto farlo entrare perché, almeno lì – dicevano le ragazze del servizio d’ordine esterno – la presenza maschile era bandita completamente. E così lui aveva aspettato per ore sul marciapiede opposto, chiuso in una camicia di cotone stirata bene e in preda ai dubbi sull’eventuale eccessivo uso del dopobarba con cui, forse, in effetti, magari, aveva esagerato.

    Portava pantaloni color terra bruciata, stretti sulle cosce e leggermente a campana in fondo, basette un po’ lunghe, ma ben curate e la riga da un lato. Teneva dietro le braccia un mazzolino di gerbere rosse che aveva accuratamente scelto pensando a quali, tra i fiori, avrebbero potuto rappresentare meglio l’anima di una femminista.

    Poi le aveva viste: semplici, vivaci, rosse. Praticamente perfette.

    Stringendo in mano quella sensazione di ideale aderenza tra il fiore e il messaggio, si era sentito rincuorato come chi sa di aver detto la cosa giusta con le parole giuste.

    Nel tardo pomeriggio, l’aveva vista, mentre usciva dal comitato. Camminava piano attorniata da altre compagne e portava, arrotolato sotto il braccio, quello che aveva tutta l’aria di essere uno striscione da esibire alla prossima manifestazione. Papà aveva sentito una scarica dal cuore alla pancia e ritorno. Si era lanciato dal marciapiede in mezzo al traffico, quando, sulla linea di mezzeria, lei aveva scorto prima lui e subito dopo il mazzo di fiori. L’aveva fulminato con uno sguardo talmente feroce che papà si era bloccato, pietrificato come colpito dagli occhi di Medusa, a metà dell’attraversamento, mentre le macchine suonavano i clacson, lo schivavano e lo insultavano con convinzione.

    Allora aveva rinculato anche se la formazione accademica avrebbe consigliato l’utilizzo di un altro verbo ovvero ripiegare perché gli italiani in guerra non si ritiravano mai, né tantomeno rinculavano, al massimo, appunto, ripiegavano.

    Era tornato sul marciapiede opposto ed era rimasto così, a braccia lunghe, appassito, a testa bassa, quasi ibernato tra lo choc e il profondo sconforto. Era tutto finito, allora, pensava, eppure gli era sembrato che quel giorno in piazza… che sciocco, aveva tanto fantasticato su un sogno assurdo.

    Si era incamminato sconsolato, mentre le gerbere appassivano anche loro a testa bassa. Dopo un isolato una voce alle spalle l’aveva chiamato: ehi tu, guardia! Lui si era voltato di scatto, incautamente, perché in quel periodo era così che gli estremisti identificavano le vittime per poi ammazzarle come cani sui marciapiedi, sotto i colpi delle P38.

    Mamma se ne stava lì, in piedi col suo striscione sottobraccio. Gli aveva spiegato che non poteva farsi vedere mentre familiarizzava con un uomo con dei fiori in mano. Le femministe non accettavano fiori, eventualmente erano loro a regalarli agli uomini in divisa. Però, quella volta, in via del tutto eccezionale, li aveva accettati. In cambio gli aveva dato da portare lo striscione della prossima manifestazione.

    Avevano camminato e parlato tanto, mangiato un gelato e parlato tanto, bevuto un caffè, ignorato monumenti e luoghi turistici, e parlato tanto. Avevano attraversato le piazze come due normali ventenni.

    Fino a casa di lei, che in verità distava poche centinaia di metri dal comitato di lotta femminista, ma che quel pomeriggio per essere raggiunta aveva richiesto il giro della città.

    Sull’Isola non piove quasi mai. Ogni via è polverosa e la vegetazione è intricata, inaccessibile, piena di rovi e arbusti secchi. Basterebbe il pensiero del fuoco per innescare un incendio. Le fioriture primaverili resistono un giorno poi stingono, abbassano la testa, si inchinano al sole, tengono gli occhi fissi a terra.

    Il sole martella per sei mesi l’anno. Gli altri sei li passa nascosto dietro una coltre di nuvole, foschia e cattivo tempo. È praticamente impossibile camminare senza cappello durante i mesi estivi, si corre il rischio di cadere di botto, senza preavviso, come colpiti da un dardo invisibile piovuto dall’alto.

    Il caldo è talmente soffocante da rallentare riflessi e movimenti, da risucchiare energia vitale, da disidratare i pensieri. Si suda moltissimo, in silenzio, ché non c’è forza nemmeno per rifugiarsi nella banalità della frase: fa caldo.

    Bisogna arrendersi, non opporre resistenza, ché tanto è peggio.

    Vivono bene solo i rettili qui e infatti ne è pieno. Non ci sono grandi predatori tranne l’uomo.

    Le coste sono frastagliate, acuminate, rossastre. Denti spezzati di una creatura marina che si tiene a galla come può, sdraiata sul dorso. Nelle calette si incastrano grandi tronchi mentre le alghe si lasciano andare, macerandosi. Quando c’è bassa marea salgono a vampate acri odori di putrefazione. Ogni cosa secca in fretta sopra gli scogli battuti dalle onde salate.

    L’Isola ha una grossa cicatrice grigia, spessa, che asseconda le irregolarità del terreno come pieghe sulla pelle.

    Penso a una frase che mi diceva sempre mamma: la pelle delle cicatrici è più resistente. Non è vero, vorrei dirle adesso, è solo più dura.

    L’Isola la mette in mostra spudoratamente come una sorta di rivendicazione di presenza, di presidio, di inaccessibilità. Questa cicatrice è un artefatto lungo tremila metri e alto sei, che ha un lavoro da svolgere e pare lo faccia benissimo.

    Il Muro, come viene chiamato normalmente, ha il compito di separare, dividere, definire, e come tutte le strutture dotate di questa funzione, crea di conseguenza una distinzione tra chi sta da un lato e chi dall’altro.

    Tra chi sta sopra e chi sta sotto.

    Tra chi guarda dall’alto e chi guarda dal basso.

    Tra chi l’ha voluto e chi lo subisce.

    L’unico accesso attraverso il Muro è un gigantesco portone in ferro. Oltre quella soglia inizia una sorta di trasformazione che prende gli uomini e la natura. Il tempo si dilata, lo spazio è fatto di vegetazione inaridita, le persone lentamente vengono svuotate. Dal portone parte una strada sterrata, dritta, che si è ricavata una striscia polverosa fendendo arbusti fittissimi.

    Al termine della strada, un paio di chilometri in totale, ci sono altre mura anticipate da distese di filo spinato.

    Covoni in ferro arrugginito si propongono alla vista come una lenta mutazione della natura da isola a luogo di pena.

    Perché l’Isola è questo: un carcere.

    Ma non ospita un carcere qualunque, bensì il più isolato e misterioso di tutto il Paese. La sua fama è diventata un miscuglio pastoso di miti e leggende, come tutte le cose di cui si sa poco o nulla, e che stanno in luoghi non ben definiti in mezzo al mare.

    L’ultimo portone blindato permette di accedere a un ampio piazzale in fondo al quale si staglia austero un imponente edificio granata di due piani. Nella sezione centrale della costruzione svetta una specie di torre sormontata da una grande campana in ottone verde ossidata dalla salsedine.

    Il corpo dell’edificio è fatto di rettangoli e quadrati, anonimo, analfabeta. Comunica la sua totale indifferenza verso chi si muove lì dentro ma anche il monito tipico di ogni costruzione sormontata da una torre: vedo, posso colpire, posso far male.

    Ci sono altri edifici, ugualmente seri e muti come il primo, ma dislocati in punti che a noi non è dato sapere. Poi ci sono camminamenti e corridoi interni.

    Attraversare questi spazi è come camminare attraverso campate.

    Ricorda un cimitero, questo luogo. Tuttavia qui non ci sono fiori, né lapidi con nomi ed epitaffi a ricordare la vita, ma solo cemento, scheletri in ferro arrugginito e pietra arenaria.

    Fabio era nato nel novembre del ’68 perché mamma e papà semplicemente non erano riusciti a evitare di amarsi. Ormai tutti sapevano della relazione: colleghi di lavoro, compagne di lotta, famiglie. Si amavano troppo da badare al resto, tutto qua, anche se i tempi erano duri e le ideologie erano muraglie quasi invalicabili.

    Forse avevano cercato un figlio perché convinti che il senso di responsabilità in qualche modo li avrebbe aiutati a trovare il coraggio di superare i pregiudizi dei tempi: non sposati, lui guardia, lei rivoluzionaria.

    O forse no, le cose erano andate così perché dovevano andare così, in modo naturale, pieno.

    Fabio in qualche modo li aveva salvati perché aveva permesso loro di sfilarsi dal caos e dalla violenza cieca, politica, insensata, che di lì a poco avrebbe trascinato giù tutto il Paese, prendendolo per il colletto.

    A dicembre dell’anno successivo una bomba era esplosa all’interno di una banca, di pomeriggio. La banca sarebbe dovuta essere chiusa, invece, era rimasta aperta un po’ più a lungo. Vi erano dentro decine di uomini, soprattutto agricoltori. Una valigetta era stata appoggiata sotto un massiccio tavolo al centro della banca, attorno al quale si sedevano clienti, affaristi, negoziatori. La valigetta, o meglio il suo contenuto, a un certo punto aveva brillato, rendendo la scena completamente bianca. Tutto era stato annullato: i vetri degli sportelli, i muri ricoperti da pannelli in radica scura, le sedie, le borse, i cappelli degli uomini in giacca e cravatta perché seppur gente di campagna, a quei tempi, ci si vestiva bene quando si andava in città.

    L’interno della banca era diventato un foglio bianco, una scatola vuota con al centro una lampadina a incandescenza, un non-luogo senza tempo, senza numeri, senza parole. Per un attimo apparentemente eterno.

    A poco a poco però erano tornate le forme delle cose. Straziate, deformate, smembrate.

    Le prime cose riconoscibili, nel ricordo dei sopravvissuti, erano state un grande orologio a lancette col vetro crepato, e i fogli di carta che lentamente cadevano come fiocchi di neve abbandonati. Il bianco aveva lasciato il posto al rosso così scuro da diventare quasi nero in certi punti.

    La bomba era scoppiata di pomeriggio, a poche ore dalla mezzanotte che avrebbe portato nelle case dei bambini Santa Lucia a bordo del carretto carico di regali, trainato dall’asinello. Invece quel giorno una ventiquattrore nera si era portata via diciassette padri.

    Non era arrivata Santa Lucia, era arrivato l’uomo nero.

    Papà faceva parte del servizio d’ordine disposto dalla questura attorno alla banca. Era uno degli omini in divisa del cordone che doveva impedire ai fotoreporter e ai curiosi di avvicinarsi e vedere coi propri occhi la densità dell’orrore.

    Purtroppo anche papà era stato trascinato dal richiamo oscuro e un’occhiata dentro,

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