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I senza padre
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E-book165 pagine2 ore

I senza padre

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Info su questo ebook

Dopo la “Crisi” il mondo è divenuto un luogo d’incubo. Un uomo che lavora per un organo di tutela dell’infanzia si troverà innanzi a un misterioso popolo di bambini abbandonati nei sotterranei di Sofia, in Bulgaria, I Senza Padre, conoscitori di un mistero: Bhaar, un essere mostruoso che ha costruito l’orrendo muro che si nutre di sangue e anime.
LinguaItaliano
Data di uscita18 mag 2015
ISBN9788866186991
I senza padre

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    Anteprima del libro

    I senza padre - Yanuk Lurjiame

    633/1941.

    I

    I SENZA PADRE

    Diario di Ion Milkheev

    …Agosto…

    Ogni giorno da molto tempo le mie notti sono dominate da un crepitio mentale, onde radio oniriche che si propagano nell’intorno dominato dalla mia attenzione. Sono i Senza Padre, I Taomur-yre.n, quella gente che rimase chiusa nei mondi di Bhaar. Non credo siano moltissimi, ancora.

    E questo stampato giace sulla parete.

    Prima che trovassi la mia Stele di Rosetta non avevo idea di cosa significasse, ora è innanzi a me, una martellante icona. Fu tale disegno tremolante ad avermi introdotto in una nuova conoscenza.

    L’Orfano di Sofia

    Subito dopo l’accademia venni inviato presso l’Institut pour l’Accueil - chiamato in modo familiare ‘IA’ - di Sofia, ero un tenente. Non c’è nulla che possa descrivere come quell’epidemia di eventi catastrofici, passata alla storia semplicemente come La Crisi, avesse ridotto un paese che, già prima che il disastro europeo avvenisse, zoppicava per essere su un binario di normalità. Ricordando com’erano ridotti gli orfani di quel luogo, a malapena posso formulare un pensiero con un verbo al futuro. Era estate e un’afa malsana mi chiudeva la mente e la gola mentre mi trovavo con la torcia puntata sulle pareti di un condotto di scolo nei sotterranei di Sofia.

    Ci vivono dei ragazzini, qui, Tenente, sbrighiamoci, altrimenti si danno l’allarme e non li prendiamo più.

    All’orizzonte allignava un’epidemia di tifo, l’ennesima in Bulgaria. Ormai era una prassi, per la gente di Sofia, vedere uomini con scafandri spruzzare polvere bianca per le strade e rimuovere i corpi dei piccoli vagabondi, ridotti a pelli stese sullo scheletro.

    Cosa significa questa scritta, Maggiore? chiesi al mio mentore, che mi aveva condotto sino a lì.

    Ma che diavolo ne so! Sono mesi che i nostri uomini segnalano questi sgorbi! Non siamo riusciti a capire cosa siano, forse sono dei messaggi che si danno fra loro, questi ragazzini. O peggio, uno scambio d’informazione fra mercanti di carne. Magari occupatene tu, cervellone!

    Sapeva dei miei studi particolari - che avevo condotto di notte - sulle leggende di questi luoghi costruiti nei tunnel, sussurrate da una popolazione che stavo inseguendo sin da quando all’accademia mi era stata presentata una foto con quei graffiti. Per questo avevo scelto Sofia come prima destinazione. Volevo vedere con i miei occhi.

    L’Accademia non aveva dato peso a questi reperti murali, descritti solo sommariamente per illustrare ai cadetti la vita dei ragazzini nelle fogne. Ma io rimanevo sveglio, tormentato da quei disegni incisi sulle mura dei sotterranei. Nessuno voleva supportare la mia propensione a studiarli; solo il Maggiore Todorv, sospettando che potessero trattarsi di messaggi dei nostri avversari, aveva dato corda al mio studio e richiesto all’Accademia il mio trasferimento nel suo IA in Bulgaria. Per questo mi stava conducendo nei tunnel alla ricerca dei ragazzini infettati da tifo e di questi strani scritti.

    *

    Fu un giorno in cui dovemmo strappare un ragazzino alle fogne che trovai quel che cercavo e che la mia conoscenza delle cose mutò del tutto. Lo inseguimmo per mezza città ma alla fine lo trovammo. Non vi fu molto da fare. Morì dopo poco, per il tifo, in ospedale. Ero con lui gli attimi che precedettero la sua morte, cercando di alleviargli quei momenti. Mi parlò poco prima di spirare e mi lasciò stupito, perché fino a quel momento non aveva emesso fiato, tanto da farci pensare che fosse sordo muto:

    Matthia, io so cosa cerchi. Ti ho visto mentre leggevi le nostre memorie. Ora ascolta bene. Ho nella tasca della giacca un foglio. È il progetto di un’iscrizione che avrei dovuto lasciare su un muro, ma mi sono mancate le forze. Troverai quello che cerchi. Sei fortunato, soldato. Forse è l’unica volta in cui ho traslitterato un testo murale. Non lo faccio mai, è evidente che tu l’aspettavi e che il foglio lo sapeva.

    Mi colpì la lucidità con cui mi stava parlando. Non parve un ragazzino di dieci anni, bensì un adulto che stava cercando di dire una cosa assurda. Soprattutto, rimasi basito guardando poi ciò che mi aveva lasciato il ragazzino. Lui non sapeva leggere né scrivere, poiché aveva campato sempre per le strade di Sofia, non aveva avuto maestri, né genitori e non aveva messo piede in alcun orfanotrofio.

    Ragazzo, non mi chiamo Matthia. Io sono Ion, Ion Milkheev. Se mi dici chi è Matthia, posso chiamarlo, affinché venga subito qui da te. È una persona di cui ti fidi?

    Mi rispose con queste parole: No, va bene così. Matthia è davanti a me. Prima di essere Ion era Matthia.

    Come potevo comprendere ciò che mi stava dicendo? Forse la febbre tifica gli stava devastando la mente e parlava mischiando delirio a verità. Gli presi una mano e gli dissi solo:

    D’accordo, Matthia ti ascolta, diedi corda alla sua triste allucinazione.

    In quel momento però, non appena proferii la mia frase, avvertii dentro di me uno squasso improvviso. Vidi un uomo su una spiaggia spazzata da un vento freddo innanzi a un mare dal colore del metallo, probabilmente era un paesaggio di una costa del Nord. Indossava una divisa nera con una cappa pesante ma indossata senza alcuno sforzo, naturalmente, come fosse un paio di ali. Pareva un guerriero di un lontano futuro. E sembrava preoccupato. Non ho avuto più una simile visione, tanto viva.

    Mi ripresi e cercai quanto mi aveva detto il piccolo orfano. Trovai quel pezzo di carta.

    Il foglio aveva il testo scritto sia con quei strani caratteri che avevamo visto sui muri che in lettere latine.

    Mi lasciò senza neppure dirmi come si chiamava, non aveva alcun documento, e nessun amico che avesse potuto riconoscerlo. Così morì il mio piccolo poeta anonimo.

    *

    Ho sotto gli occhi questo foglio di quaderno che mi lasciò il piccolo bambino di Sofia, l’ho con me da tanto tempo:

    Quel giorno, per la prima volta, potei leggere la traduzione e i suoni di una di quelle scritte che avevo inseguito per tanto tempo, una Stele di Rosetta rinvenuta nelle tasche di un piccolo vagabondo di Sofia:

    Ysmis-i-Sansulbatzia istoposmark.is (perché) Quel pozzo è Sansulbazia

    Quella scritta che dominava solitaria la mia parete ora aveva un senso. Riuscii a traslitterarla grazie ai fogli del Piccolo Poeta Anonimo e vi trovai esattamente quel nome: Allaghé.

    Dopo quell’evento continuai la mia vita in diversi IA europei sino a quando, una volta divenuto Maggiore a mia volta, non fui inviato a reggere l’Istituto del mio paese.

    ***

    I Mercanti della Crisi

    Il Maggiore Ion Milkheev seguiva il piccolo zingaro da un po’. Serviva nell’OIGE da molto tempo. L’Organisation Internationale pour la Garde des Enfants era uno strano ente nato in Elvezia e gestito da militari e medici ma con mandato universale. La sede di Lugano aveva ricevuto una segnalazione, dalla polizia di frontiera con l’Italia, di un ragazzino fra i sette e i dieci anni che sgattaiolava per le strette vie di Basso sino a inoltrarsi nei boschi dell’Insubria. I testimoni lo descrivano di fattezze simili a quelle di uno zingaro.

    L’OIGE aveva diversi Istituti di Accoglienza, IA, Institut pour l’Accueil, di piccoli orfani sparsi un po’ ovunque nel mondo e inviò l’ordine di occuparsi di quest’avvistamento al Maggiore Milkheev, comandante dell’I.A. di Urizzone, molto vicino a Basso, appena prima della frontiera con l’Italia. Urizzone come Basso era un piccolo villaggio ai bordi delle montagne ticinesi, dalle piccole e strette vie, con le minuscole chiese medioevali. Le prime vetrine di un paese dove la Crisi era passata senza lasciare le cicatrici deleterie che invece aveva inflitto a quasi tutti i paesi d’Europa.

    Il Maggiore cercò notizie per poter risalire al luogo dove il piccolo si rifugiava, ma prenderlo non fu facile. Per giorni Ion venne portato allo sfinimento vista la rapidità e l’astuzia del fanciullo, incongrue per la sua età. Sembrava un gatto randagio, furtivo, che all’occorrenza poteva reagire aggredendo chi gli si faceva troppo vicino.

    Gli Scanziani, che allevavano cavalli da almeno tre generazioni, ricordavano bene il ragazzino. Sorpreso a rubare il cibo dei loro cani, non poteva lasciare indifferenti gli abitanti della fattoria. La Crisi, che sino ad allora era stata vista all’orizzonte, oltre la sbarra della frontiera, ora si era manifestata in quel momento in casa loro, nel modo più tremendo.

    Accolsero Ion amichevolmente. Fu Marianne, la figlia maggiore, che gli raccontò di quando quel piccolo Bulgaro era stato ammaliato da un uomo di aspetto gradevole, sulla cinquantina, vestito con la camicia nera dei preti. Lo conoscevano bene in paese, per questo nessuno si era mosso. Era l’insegnante di fisica presso il Seminario Arcivescovile di Tonago, poco al di là della frontiera. Il seminario era un punto di riferimento per i piccoli sbandati della Crisi. Entravano zingari e ne uscivano dottori. Forse, disse la giovane Scanziani, il piccolo orfanello avrebbe avuto un destino migliore lì dentro che per strada. Perciò nessuno aveva reputato utile intervenire quando Lutwak aveva convinto il piccolo a entrare nel Convitto.

    *

    La Crisi, attraverso i suoi orrori, tolse alle persone la capacità di intuire cosa si stesse preparando nel loro mondo, anestetizzandoli con il motto il fine giustifica i mezzi. Pur di rendere degli uomini civili e onesti, dei lavoratori, quella massa di fanciulli disperati, ogni cosa poteva andar bene e il prezzo da pagare per essere ammessi nella società produttiva non era mai simile alla miseria in cui versavano. Essere un lavoratore significava essere un ingranaggio utile. Se non eri un ingaggio eri un miserabile.

    Ion Milkheev cercò sempre di rimanere immune dalla droga sociale del fine come giustifica di ogni mezzo; la sua squallida solitudine faceva da contrappeso all’impulso del cervello che attirava verso quella droga: sposati, stabilizza la società con la tua famiglia, lavora. Ion si chiedeva se, con tutti quei piccoli disperati in giro, si potessero stabilizzare le cose sfornando altri serbatoi di sangue ed emozioni. Ma i cartelloni pubblicitari dicevano così: un nucleo familiare era un nucleo di vita nuova, solo crescendo un figlio equilibrato si dava alla società un membro adatto a governarla.

    Ion trovò nella prigione in cui dei luridi mercanti di carne avevano rinchiuso il piccolo Kioran qualcosa di assurdo. Il Maggiore lottò duramente per liberarsi delle resistenze dei suoi superiori a Lugano, ai quali pareva un atto blasfemo un’irruzione dell’OIGE nella cripta del più grande Seminario dell’arco alpino. Il Convitto di Tonago era un faro nelle tenebre portate dalla Crisi.

    Da tempo Ion Milkheev studiava padre Lutwak, quel prete professore di fisica presso il Seminario Arcivescovile. Ebbe il consenso a seguire il caso, ma da lontano.

    Doveva muoversi cauto a ridosso della frontiera italo-elvetica, oltrepassare in silenzio la sbarra che separava Urizzone dal paese lombardo Tànago, tipico esempio della vecchia edilizia grigia degli operai italiani che lavorano oltre la frontiera. Ion doveva evitare quegli sguardi che tutto sapevano e tutto vedevano alle pendici del Generoso. D’altronde se pur scombussolate dagli eventi funesti della Crisi, le sessanta banche, le orologerie e la grande fonderia d’oro

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