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Kulap. Storie Di Trakaul 2
Kulap. Storie Di Trakaul 2
Kulap. Storie Di Trakaul 2
E-book267 pagine3 ore

Kulap. Storie Di Trakaul 2

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Info su questo ebook

Dopo aver lasciato andare la sua amata, David non ha altra scelta che far parte di una delle mafie più potenti e crudeli dell'Asia. Dovrà affrontare missioni sempre più pericolose che lo aiuteranno a scalare i vertici dell'organizzazione. Riuscirà a sfuggire alle loro grinfie? Riuscirà a fuggire da se stesso e dalla spirale di oscurità in cui si trova? O finirà per cedere al lato più oscuro? Una storia di mafia, violenza e vendette con un'intensità che tiene il lettore in bilico fino alla fine. A volte la vita non offre molte opzioni e quelle che ti offre non sono sempre quelle che ti piacciono di più. Non devono nemmeno piacerti.

Il finale appassionante della bilogia di Trakaul! Dopo aver lasciato andare la sua amata, David non ha altra scelta che far parte di una delle mafie più potenti e crudeli dell'Asia. Dovrà affrontare missioni sempre più pericolose che lo aiuteranno a scalare i vertici dell'organizzazione. Riuscirà a sfuggire alle loro grinfie? Riuscirà a fuggire da se stesso e dalla spirale di oscurità in cui si trova? O finirà per cedere al lato più oscuro? Una storia di mafia, violenza e vendette con un'intensità che tiene il lettore in bilico fino alla fine. A volte la vita non offre molte opzioni e quelle che ti offre non sono sempre quelle che ti piacciono di più. Non devono nemmeno piacerti.
LinguaItaliano
EditoreTektime
Data di uscita23 giu 2023
ISBN9788835453123
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    Anteprima del libro

    Kulap. Storie Di Trakaul 2 - Javier Salazar Calle

    Capitolo 1

    Vietnam

    Stavo finalmente arrivando in Vietnam, sulle spiagge appartate della bellissima isola di Phu Quoc, molto vicino alla Cambogia. Ero andato in aereo a Ho Chi Ming e, da lì, avevo intrapreso un estenuante viaggio su strada. Guidavo un’auto malridotta che condividevo con un abitante locale; non volevo dover ricorrere alle agenzie di noleggio o ai mezzi pubblici.

    Dopo una notte in bianco, al mattino presto, avevo preso il traghetto per la mia destinazione. Avrei potuto prendere un aereo, che era più veloce, ma non volevo rivelare la mia posizione. In realtà, ciò che mi consumava era la voglia di vedere Sumalee. Avevamo mantenuto i contatti attraverso falsi profili sui social network dove lei pubblicava quello che faceva in modo che potessi seguire le sue tracce. Dopo aver viaggiato in alcuni angoli del Paese, immagino per trovare il posto giusto dove stabilirsi, Sumalee aveva deciso di rimanere sull'isola di Phu Quoc. Anche se turistica, non era molto conosciuta. Lei, che conosceva l'inglese, aveva trovato un lavoro rapidamente e senza dover rispondere a troppe domande.

    Mentre ci avvicinavamo all'isola, potevo vedere che tutto ciò che avevo letto nelle guide turistiche, mai su Internet per non lasciare traccia, era vero. Da lontano si vedevano solo piccole spiagge paradisiache con la giungla alle spalle, punteggiate di tanto in tanto da edifici più grandi, hotel. Ma ormai, non mi importava. Avevo solo una cosa da fare: ritrovare finalmente Sumalee.

    Ricordavo ancora chiaramente la scia che aveva lasciato il motore della sua nave a Singapore quando si era allontanata, pochi istanti dopo averle detto che non potevo andare con lei, che dovevo pensare a un modo per liberarci di Trakaul e, soprattutto, di perdonarla.

    Dopo tanti mesi, separati, alla fine avevo trovato il momento giusto. Ai miei due colleghi di Trakaul avevo detto che volevo fare turismo nel sud-est asiatico approfittando dei voli così economici della regione. Avevo fatto un primo viaggio di due settimane in Birmania, interpretando il ruolo del perfetto turista. La mia idea era che si abituassero a quei viaggi per non tenermi sempre sotto controllo. Avevo visitato i luoghi più tipici: le pagode di Bagan, il lago Inle, i percorsi a piedi per Paradise Island, godendomi l'alba sul ponte U-bein ... Tutto questo pensando a come sarebbe stato vivere con Sumalee al mio fianco. Quando vedevo l'opportunità mi perdevo tra la gente, utilizzavo servizi turistici che negoziavo con i locali, invece che con le agenzie di viaggio, e pagavo sempre in contanti. Non sapevo se mi stessero tenendo d'occhio, ma era più prudente pensare al peggio e dare per scontato che lo facessero. Sulla base di questa supposizione, volevo che si abituassero a questo stile di viaggio, perdendomi nei luoghi ed essendo difficile da controllare.

    Dopo il primo viaggio, ne avevo fatti altri in diverse regioni della Thailandia e dei Paesi circostanti. Fino a quando non arrivò il momento di organizzare il viaggio in Vietnam, che era l'obiettivo di tutte quelle pantomime. Dissi che avrei girovagato per il Paese, per conoscere la realtà della vita quotidiana della sua gente come avevo fatto le altre volte. In apparenza, gli era sembrato giusto.

    Ed ero lì. A pochi chilometri da Sumalee e lei non ne aveva idea. Poiché non potevamo comunicare direttamente, non sapeva nulla di me e ignorava in che punto dell'isola mi trovavo. Conoscevo il suo falso nome dal passaporto di Singapore, Anong, e la zona in cui lavorava; con quello l'avrei cercata. Nonostante tutto, non sapevo cosa avrei trovato. Era vero che aveva pubblicato puntualmente alcune foto su Internet, ma non avevo idea di come si sentisse o se si fosse rifatta una vita. Aveva già dimenticato l'amore che ci aveva unito? Aveva trovato qualcun altro? Pensava ancora a me? Era felice? Erano molti dubbi, ma ero determinato a risolverli.

    Quando la nave attraccò, incontrai l'uomo con cui avevo concordato il mio soggiorno. Cercando di essere il meno visibile possibile, invece di prenotare un hotel avevo scelto di contattare un nativo che mi affittasse una casetta e una moto con cui poter visitare l'isola a un prezzo molto ragionevole. Gli diedi un nome falso e lui non fece domande. Non aveva motivo di dubitare della mia parola. Se qualcuno mi cercava, la versione ufficiale era che alloggiavo in un hotel nel centro di Ho Chi Ming, a più di trecento chilometri da lì. In effetti, avevo fatto una prenotazione che non avrei mai usato.

    Con un furgone sgangherato l'uomo mi accompagnò fino all’abitazione e, una volta dentro, mi diede le chiavi della moto e una mappa dell'isola dove erano segnati la casa e il porto. Gli chiesi dove credeva che lavorasse Sumalee e me lo indicò. Lo pagai per l'accordo e se ne andò felice. Non aprii nemmeno la valigia, la prima cosa che feci fu studiare la mappa con attenzione per partire il prima possibile. C'era solo una strada asfaltata in tutta l'isola; il resto, come avevo visto dal furgone, erano strade di terra rossa. Il tragitto fino a Sumalee era di appena venti chilometri, ma, a causa dello stato delle strade, calcolai che mi ci sarebbe voluta più di un'ora di viaggio. Con il casco ben allacciato, avviai la vecchia moto e partii.

    Un'ora e mezza dopo sbagliai due volte strada arrivai a destinazione. Parcheggiai la moto e andai nell'unico ristorante presente. Ero affamato. Mi sedetti a mangiare qualcosa a uno dei tavoli con vista sulla spiaggia e mi rilassai; avevo bisogno di alleviare la tensione del viaggio. Mentre mangiavo, osservavo la gente. Non c'erano molti occidentali e quelli che vedevo erano piuttosto giovani. Tra i 20 e 30 anni in media. Nel frattempo, in mezzo al frastuono di lingue diverse, vietnamita a parte, riuscii a identificare anche una coppia che parlava thailandese, lingua in cui avevo fatto molti progressi. In lontananza, vidi avvicinarsi un gruppo che tirava un carrello. Dall’aspetto, pensai che venissero da qualche club di immersioni con i turisti. Immaginai che nel carrello ci fosse l’attrezzatura: bombole, neoprene, regolatori, maschere, pinne, scarpette, giubbotti di salvataggio ... In effetti, entrarono nella spiaggia e si diressero verso un'imbarcazione che li aspettava molto vicino alla riva. Lì un paio di uomini vietnamiti scaricarono l’attrezzatura dal carrello per caricarla sulla barca. Una donna orientale parlava con i quattro giovani, due uomini e due donne dall'aspetto nordico per il pallore della loro pelle. Doveva essere la traduttrice. Aveva un'aria familiare. Mi misi la mano sulla fronte per schermare gli occhi dal sole e poterla vedere meglio. Sì, mi era familiare. Era Sumalee. Il cuore mi balzò in gola. Non sapevo cosa fare. Tanti dubbi, tanta preparazione e, alla fine, lei era a pochi metri da me. Cosa dirle? Come affrontarla? E se non voleva vedermi?

    Dopo alcuni secondi di esitazione, pagai il mio cibo e mi avvicinai un po’ per vederla meglio. Aveva i capelli corti e castani, il che mi sembrava strano. Eppure, era bellissima. Così come la ricordavo o anche di più. Un maremoto di sentimenti contrastanti affiorò nel mio cuore. Volevo davvero tornare da lei? La amavo ancora? Potevo fidarmi di nuovo di lei? La osservai senza che mi vedesse mentre assisteva i subacquei. Quando questi si imbarcarono e si allontanarono, mi avvicinai a lei.

    «Sumalee», la chiamai titubante.

    Lei si girò spaventata e, non appena mi riconobbe, rimase a fissarmi, pietrificata.

    «Da ... Da ... David...», balbettò.

    «Sì, tesoro, sono io. Finalmente sono riuscito a venire a trovarti», confermai indeciso, non sapendo cosa aspettarmi.

    «Sei ... Sei qui.»

    Sembrava nervosa, anche fredda. Non sapevo bene cosa pensare del suo atteggiamento.

    «Ti avevo detto che, dal momento in cui sei partita da Singapore, mi sarei dedicato anima e corpo a trovare un modo per sfuggire alle grinfie di Trakaul. Ed eccomi qui. Ce l'ho fatta.»

    Continuò a guardarmi senza mostrare alcuna reazione che non fosse di sorpresa assoluta, di totale sconcerto. Guardò di lato e pensai che sarebbe scappata. Tornò a guardarmi con attenzione e alla fine si mosse. Venne verso di me e mi diede un abbraccio così forte che, per un momento, non riuscii respirare. Provai un grande sollievo.

    «Sei qui, sei qui», ripeté più e più volte tra balbuzie e singhiozzi. «Sei qui.»

    All'improvviso si staccò da me e mi guardò spaventata. Rimasi in attesa, sorpreso.

    «Non sarà pericoloso? Essere qui? Stare insieme?»

    «Non lo so, ma se Trakaul sapesse dove sei, immagino che saresti morta da molto tempo. Anzi, saremmo morti entrambi. Non credo che mi abbiano perdonato per averli ingannati.»

    «Non lo so, non lo so. Preferirei che andassimo in un posto meno affollato.»

    «Certo. Devi tornare al lavoro?»

    «No, per oggi ho finito.»

    «Allora ti porto in moto alla casa che ho affittato. Si trova nella parte est dell'isola, dove c’è il molo principale.»

    Rimase un attimo a pensare, come se non capisse. Alla fine, annuì, mi abbracciò forte di nuovo e guardandomi disse:

    «Okay, dove hai detto che è questa moto?»

    Le diedi il casco e in un'ora eravamo a casa mia. Il tragitto si rivelò molto più breve dell'andata. Non solo perché conoscevo già la strada, ma perché non avevo più l'ansia dell’incontro e perché sentivo le braccia di Sumalee intorno al mio busto, che mi stringevano con forza, la sua testa appoggiata alla mia schiena, il suo corpo attaccato al mio. Avrei potuto guidare per giorni così.

    Quando arrivammo a destinazione, entrammo in casa tenendoci per mano, senza dire nulla. Quando chiusi la porta, Sumalee sembrò rilassarsi, finalmente lontani da qualsiasi sguardo indiscreto. Restammo uno di fronte all'altra, guardandoci come se cercassimo di ricordare i nostri volti. A poco a poco ci avvicinammo e le accarezzai il viso. La afferrai per la vita, la avvicinai un po' di più a me e le diedi un dolce bacio sulla fronte. Poi, con la mano destra, giocai con i suoi capelli, ora così corti e diversi. Chinai la testa per sentirne il profumo. Gelsomino, sempre gelsomino. Sì, era la mia Sumalee. Mi mise le mani sul petto, mi allontanò un po' e potei vedere l'intensità dei suoi occhi, il fuoco del suo sguardo. Non ci pensai due volte. La presi in braccio e la portai in camera da letto come due novelli sposi la prima notte di nozze. Una volta lì, la adagiai delicatamente sul letto e iniziai a sbottonarmi la camicia. Anche lei iniziò a spogliarsi. Mentre ci toglievamo tutti i vestiti, non smettevamo di guardarci con tale ardore, che quasi si poteva toccare il calore che generavamo. Quando finimmo di spogliarci, lei si sdraiò sul letto ed io avanzai verso di lei fino a quando il mio viso fu sopra il suo. Per qualche istante, restammo in quella posizione. L'ansia cresceva dentro di noi mentre cercavamo di controllarci. Finalmente iniziai a baciarla. Prima a poco a poco, molto delicatamente. Sulle guance, sul collo, lungo il naso, sulle labbra. Piccoli baci, che diventarono più intensi fino a quando, finalmente, le nostre labbra si unirono e si scatenò tutta la passione accumulata. Una frenesia di lingue che danzano come fiamme di fuoco, in un impeto di follia per l'attesa. Ci divoravamo con la bocca. A volte l'impeto ci faceva mordere sul collo, sulle orecchie. Era un parossismo di lussuria, la malattia dell'amore al suo apice. Non potevamo più aspettare, il nostro corpo lo chiedeva. La penetrai con forza. All'inizio lasciando il mio pene dentro di lei, senza muovermi, stringendola come se volessi schiacciarla con il mio corpo, poi iniziai una serie di spinte selvagge. Sumalee continuò a gemere fino a quando, con un grido, raggiunse l’orgasmo. Pochi secondi dopo, venni anch'io. Con un'intensità che non ricordavo da tempo.

    Rotolai al suo fianco e restammo abbracciati. Con la fronte unita, ascoltando il nostro respiro, riprendendo le forze. Quando il nostro respiro divenne normale, Sumalee si mise a cavalcioni su di me e cominciò a baciarmi. Questa volta in modo molto più tenero rispetto a prima, più delicato. Non appena notò la mia erezione incipiente, mi guidò dentro di lei e iniziò a muoversi avanti e indietro. Io alzai le braccia e le accarezzai i seni, pizzicandole i capezzoli ... Quanto mi era mancato il suo seno, piccolo ma sodo! La afferrai per i fianchi costringendola a sdraiarsi in avanti per poterla baciare. Con le mani sul suo sedere, la aiutai a seguire i miei movimenti. A causa delle ondate di piacere che percorrevano il mio corpo, il battito del mio cuore accelerò, e venni con un orgasmo meno intenso, ma più lungo del precedente. In quel momento, al culmine del godimento, Sumalee mi puntò un revolver alla testa, uno troppo grande per le sue piccole dita, girò un po' la testa, come a mostrare curiosità, abbozzò mezzo sorriso e mi sparò a bruciapelo. Sentii la mia testa esplodere in tutte le direzioni.

    Con un movimento brusco, mi svegliai e mi sedetti sul letto. Inspirai a fondo cercando di prendere un po' d'aria e mi palpai il viso spaventato. Stavo bene, era solo un sogno. Un sogno del cazzo. Un orribile incubo. Un delirio ricorrente.

    Non era la prima volta che mi capitava ed ero sicuro che non sarebbe stata l'ultima. Ogni volta era un sogno più elaborato, con l’aggiunta di dettagli reali che trovavo nel falso profilo di Sumalee sui social e nei miei ricordi. A poco a poco, i miei sogni, o meglio, gli incubi, erano diventati più complessi, più reali. Quello che rimaneva sempre lo stesso era il finale: in un modo o nell'altro, Sumalee finiva per uccidermi con un colpo di pistola, mi pugnalava, avvelenava, o annegavo ... Il modo in cui mi uccideva era molto creativo, il risultato, invariabilmente, lo stesso. Una morte improvvisa e inaspettata. Un omicidio. Un tradimento. Di nuovo.

    Le notti in cui non sognavo Sumalee, ricordavo Bang Kwang, l'infernale prigione della Thailandia dove ero stato rinchiuso. Mi svegliavo urlando mentre mi picchiavano e mi chiudevo a riccio per difendermi. Ricordavo torture, stupri, fame, sofferenza e persino le sensazioni provocate dal Rohypnol, le pillole tranquillanti di cui mi imbottii per un po' in prigione. La notte non era il mio momento migliore. Era da un po' che dormivo poco.

    Mi alzai dal letto con il corpo dolorante e mi affacciai alla finestra nella speranza di schiarirmi un po' le idee. Il rumore costante di Bangkok peggiorò il mio mal di testa. Ero rimasto a Singapore per poco tempo dopo che Sumalee se ne era andata. Era troppo pericoloso per me. Potevano riconoscermi. Ecco perché, una volta terminata la mia missione di uccidere Sumalee, mi portarono di nuovo in Thailandia. Qui ci diedero istruzioni telefoniche su ciò che io e la mia squadra dovevamo fare: Khalan, Arthit ed io. Era sempre la stessa persona che chiamava e, dato conosceva la password del giorno, che ricevevamo in precedenza, facevamo quello che ci ordinava.

    Furono mesi terribili in cui mi resi conto di come cambiavo man mano che portavo a termine le missioni. Era come quando da giovane facevo parte di una banda di ragazzi illusi che si credevano i re del mondo, ma elevato all'ennesima potenza. Picchiai così tante persone da non riuscire più a contarle, pagai omicidi su commissione, compreso quello di una bambina di dodici anni per punire un padre che chiedeva soldi a chi non doveva; bruciai proprietà dalle quali vidi uscire persone in fiamme che sopravvissero e che avrebbero trascorso il resto della loro vita sfigurati, trasformati in mostri; estorsi denaro, pagai tangenti ... Del David di qualche anno fa non c'era più nulla. Anche se mi confrontavo con quello che aveva fatto le prime missioni per Trakaul, c'era poco ancora riconoscibile. Ero diventato un essere oscuro e imprevedibile che combatteva un'eterna battaglia interiore contro se stesso.

    Tornando a letto, sentii una forte fitta a un fianco. Era il risultato degli intensi allenamenti di Muay Thai che stavo seguendo. Non solo mi allenavo quasi tutti i giorni, dal lunedì alla domenica, ma due o tre volte alla settimana facevamo combattimenti reali in cui era difficile non farsi male. Diversi compagni erano finiti in ospedale privi di conoscenza o con qualche osso rotto. All'inizio avevo paura del combattimento e del dolore. Avevo difficoltà a sferrare un colpo con tutte le mie forze per paura di fare del male e ricevere altrettanto. Superai tutto questo dopo molte sconfitte. Mi concentrai sul pensiero che avevo a che fare con i miei persecutori in prigione, quei bastardi che mi picchiavano solo perché gli andava. Presto scoprii che ero bravo, molto bravo. Man mano che miglioravo la mia forma fisica e imparavo le tecniche di combattimento, tutti si accorsero che ero bravo. Diventava sempre più difficile battermi. Avevo una grande resistenza al dolore, forse per quello che avevo sofferto a Bang Kwang o per il mio passato da gangster o per la mia formazione di boxe o per tutto quanto insieme. Combinavo i colpi con fluidità, miglioravo la tecnica ed ero in ottime condizioni fisiche. La potenza dei miei colpi cresceva in modo esponenziale. Una delle cose che scoprii quando combattevo già da un po’ e mi ero allontanato dalla banda a cui appartenevo, fu che in un combattimento affronti da solo l'avversario, ma con te c'è tutta la forza della palestra in cui ti sei allenato, la spinta dei compagni, i consigli dei veterani e le indicazioni del tuo allenatore. Nel mio caso Ángel, che mi aveva tirato via dalla strada insegnandomi a combattere non solo sul ring ma anche nella vita. Quando stai combattendo, modifichi la tua disposizione fisica e mentale, creando una simbiosi. Il tuo corpo diventa una macchina intelligente in grado di regolarsi e reagire senza aspettare ordini coscienti dal cervello. Ci sono pugili che hanno continuato a combattere, anche a vincere, senza sapere cosa stavano facendo. Ángel diceva che non era una questione di mentalità, che se sei un combattente e sei pronto, combatti. Solo questo. Puro istinto.

    Alla fine, frequentai la palestra più rinomata della zona per poter continuare a progredire e iniziai a organizzare combattimenti con i migliori pugili di altre scuole per ottenere rivali del mio livello. Lì, un giorno, mi resi conto che c'era un cartello in inglese e in thailandese con le dodici regole dell'etica dei praticanti:

    Rendi te stesso utile al pubblico.

    Sii cortese e educato con tutti ogni volta che è possibile.

    Non essere violento nelle parole, nei pensieri o nelle azioni.

    Sii fedele a te stesso e agli altri.

    Dimostra perseveranza quando possibile.

    Sii disposto a sacrificarti per il bene del tuo Paese, se necessario.

    Abbi una forte disposizione e determinazione (forte come l'acciaio, duro come il diamante).

    Mantieni alto il morale.

    Prenditi cura del tuo nome e della tua proprietà.

    Allenati ed esercitati regolarmente.

    Non approfittare del tuo avversario violando le regole della competizione.

    Mostra rispetto per le leggi della natura.

    Questo mi fece ricordare la mia permanenza in prigione. Un pugile thailandese dal comportamento irregolare di nome Channarong, quasi alla fine della mia reclusione, decise di aiutarmi un po’ con gli allenamenti e, di tanto in tanto, mi diceva alcune di quelle frasi. Il più delle volte mi lasciava a pensare a cosa intendeva dirmi e come avrei potuto applicarlo in prigione. Sarebbe stato meglio se mi avesse aiutato a combattere meglio invece di darmi consigli che, lì dentro, non mi servivano a niente. Chi avrebbe mai detto che avrei

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