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La città nella neve
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E-book207 pagine3 ore

La città nella neve

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I cinque racconti della Città nella neve mostrano la realtà di una nazione ‘di periferia’ alla ricerca di un contatto ravvicinato con l’Europa. La guerra tra georgiani e abcasi (Assassino), il legame d’amore tra due ragazzi sullo sfondo della crisi energetica degli anni Novanta (La città nella neve), la quotidianità di un uomo non vedente in bilico tra nostalgia e rabbia (In sogno vidi), i ricordi di giovinezza in una Tbilisi multietnica dei tempi sovietici (Una sera): è un mosaico composto tanto da storie private quanto da vicende che hanno segnato la storia della Georgia. Chiude la raccolta Musakala, in cui l’autore ha ricostruito, romanzandolo, il punto di vista dei combattenti mujaheddin durante la guerra in Afghanistan.
LinguaItaliano
Data di uscita3 mag 2018
ISBN9788864792057
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    Anteprima del libro

    La città nella neve - Beka Kurkhuli

    ASSASSINO

    Alla fin fine una è la condanna per noi tutti – la morte.

    IOSIF BRODSKY

    Tutti noi siamo assassini, tutti,

    di questa o di quell’altra parte,

    il che non porterà nulla di buono.

    ERNEST HEMINGWAY

    Mi incise sulla spada il Signore

    il mio mesto destino:

    uccisi il mio compare,

    sguainai la spada contro il fratello.

    Mi perseguitano per ammazzarmi

    i nemici in agguato sulle strade.

    DETTO POPOLARE GEORGIANO

    Il mare era calmo. Profondo, sconosciuto, produceva un mormorio discreto. Si estendeva piatto fino all’orizzonte lontano, sfiorato dai riflessi cangianti del cielo azzurro. Una bianca nuvola smisurata fluttuava nel cielo terso come enorme nave spaziale, riflettendosi sulla superficie poco increspata.

    Nuotava tra le tiepide onde lievi. Poi si immerse, aprì gli occhi e nell’acqua iridata di riflessi verdi e oro vide un raggio di sole fiammeggiante proiettarsi, a tratti indeciso, verso il fondo. D’improvviso si sentì trafiggere sotto la scapola sinistra da una punta lunga e sottile come un filo, una volta, una seconda, poi un’altra ancora, mentre una luce si diffondeva nell’acqua che pareva imbiancarsi e sentì per la quarta volta un colpo sotto la scapola sinistra. Pareva che il cuore smettesse di battere. «Cavolo, sto morendo!», il pensiero lo folgorò.

    Freddato come uno squalo bianco trafitto dal raffio, affondava. Tentò subito di riemergere, ma non vi riuscì. «Cazzo, sto morendo!». Preso dal panico e imprecando brutalmente, cercò di dimenare braccia e gambe. Poi tentò di muovere tutto il corpo, ma un dolore insopportabile s’insinuò immediatamente come un fuoco. Non aveva mai temuto il dolore, ma l’idea della morte certo non lo rallegrava, tanto meno in questo mare torbido e denso che lo trafiggeva a tradimento come una lancia, dalle spalle fin sotto la scapola sinistra. «Andate a fanculo, fetenti!», imprecava contro il bianco e infido mare stranamente illuminato dall’interno, contro il dolore e il suo cuore perforato. Ritentò un qualche movimento, poi dimenò anche le gambe.

    Più su, in alto, scorgeva la superficie; sembrava irraggiungibile, e se ne stava lì liscia e calma. La raggiunse e poco dopo, con una spinta violenta, emerse dall’acqua. Scollando la testa, con gli occhi sgranati di paura, cercò il sole giallo e ardente.

    A stento nuotò verso la riva. Non sentiva più il cuore. Sulla battigia nera nessun soccorso lo aspettava.

    Vicino a Zugdidi, nel villaggio di Akhalkakhati, al piano primo dell’ex casa della cultura ricavata in un edificio a due piani, decrepito e dalla lunga facciata, su di un sedile lacero appartenuto a un pullmino Ford, sedeva Ghia Ezukhbaia di Nabakevi, il partigiano alto due metri soprannominato Pshaveti. Teneva il viso discosto dalla fiamma della stufa mentre ascoltava i brontolii della moglie.

    La moglie di Ghia impastava la farina di mais bianco in un catino smaltato sopra un lungo tavolo, accanto al rubinetto dell’acqua, per ricavarne delle pagnotte oblunghe da friggere nella padella in ghisa. Sembrava accordare il suo brontolio al ritmo con cui rigirava l’impasto.

    «Che tu sia maledetto per aver ridotto me e i miei figli in questa miseria! Stupido che non sei altro… se è questo che volevi, perché sposarti, perché rovinare la mia vita e quella dei miei figli… cosa hai ottenuto, povero disgraziato? Chi ti ringrazierà ora, chi ti difenderà? Eccoti qui ed ecco la tua amata Georgia, perché non ti soccorre?! Guardami, sto per friggere l’ultima pagnotta raschiando dalle mani i residui dell’impasto… ti sei fatto nemici tra gli abcasi, tra i georgiani, tutti ti danno la caccia per ucciderti. Stiamo rinchiusi con tre porte di ferro e ogni notte al minimo fruscio tremiamo per paura di essere arsi da qualcuno, noi con i nostri figli. È vita questa?! C’è un chilometro e mezzo da qui al fiume Enguri, volendo qualsiasi abcaso potrebbe raggiungerci in un paio di minuti. A che cosa è servita questa guerra, cos’hai guadagnato, chi hai sconfitto?!».

    Ghia Ezukhbaia era soprannominato Pshaveti¹ non perché fosse uno dei migliori partigiani nei paraggi dell’Enguri, in quanto non dava tregua né agli abcasi né ai russi, bensì perché combatteva come uno spericolato montanaro e sapeva imprecare in modo originale per essere un megrelo. Ma ora, rigirando tra le mani un pezzo di legno, subiva zitto i rimproveri della moglie.

    «Non potevi startene alla larga, no?! Ora staresti a Nabakevi, avresti racimolato un po’ di mandarini e nocciole, seppur malvolentieri alcuni li avresti ceduti a loro, ma qualcosa sarebbe rimasto anche per te. Tutta la gente di Gali attraversa quel territorio e nessun abcaso vi fa più caso. La gente lavora, si busca qualche cocuzza; sai che la famiglia di Kishmaria si è messa ad allevare bestiame?».

    «Ci mancherebbe che diventassi lo schiavo di canaglie come loro!», disse e, gettato il legno nella stufa, sbatté bruscamente lo sportello.

    «Ma che schiavi e schiavi! Figuriamoci, saresti l’unico eroe qui? Ci vantiamo di essere partigiani e non possiamo uscire di casa per paura di incrociare i creditori del negozio di alimentari. Tutta la gente della provincia di Gali sta tornando alla sua terra, anche loro sarebbero schiavi?! Ricominciano a vivere, ricostruiscono le loro case, e né gli abcasi né i russi li disturbano. Tu non sai fare altro che stare seduto, o ammazzare la gente…».

    «Zitta! E non malignare. Non ci torno con un lasciapassare russo, e non se ne parli più!».

    «Ma guardate qui! Un eroico Tsotne Dadiani*… anche se tu ci volessi tornare, chi ti vorrebbe? Sei immerso nel sangue fino al collo. Quanti peccati hai commesso, Ghia Ezukhbaia! Ti rendi conto che li pagheranno i figli tuoi?!».

    «Finiscila con queste calunnie. Basta!».

    «Come basta! Cosa basta! Finiscici, ammazza anche noi, non temo più nulla ormai, non ce la faccio più, non si può continuare così, io impazzisco! Questa guerra maledetta è terminata per tutti tranne che per te e per i tuoi amici, briganti e drogati! Tutta l’Abcasia e il Samegrelo ti perseguitano, oramai non ti è più possibile tornare a casa!».

    «Che cosa pretendi da me, si può sapere?».

    «Da stamani ti dico quel che voglio, ma riesci a raccapezzarti?! Quando mai hai dato retta agli altri?! Fai sempre tutto di testa tua ed ecco in che condizioni siamo finiti grazie ai tuoi ragionamenti».

    «Continua a cucinare e non intrometterti in vicende che non ti riguardano».

    «Quando ho generato i tuoi quattro figli non mi riguardava?! Il maggiore ha ventidue anni ormai, ricordi? Che vita hanno avuto, poveri ragazzi? Solo guerra e disgrazie. Che futuro avranno, non dovrebbero forse studiare, non dovranno sposarsi, avere una casa, un focolare?! Macchè! Sono costretti a vivere affamati e scalzi! Figuriamoci… siamo guerriglieri! E a chi fai la guerra se non a te stesso?!».

    Ghia afferrò il legno sotto la stufa e scuotendolo lo sistemò; accese l’Astra e ne trasse una boccata profonda.

    «Ecco, così, goditi la vita, e io cos’ho per consolarmi?! Perché ti ho sposato… perché? Povero papà! Aveva previsto tutto… mi supplicava di non farlo, minacciava persino di togliersi la vita…».

    «Ma va’… ammazzarsi…

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