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Da un mondo che non c'è più
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E-book275 pagine4 ore

Da un mondo che non c'è più

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Con un’introduzione all’autore di Moni Ovadia
Edizione integrale

Joshua cresce nel villaggio ebraico di Leoncin, nell’odierna Polonia: la sua vita scorre tra estenuanti studi ebraici, regole severe e voglia di ribellione. Suo padre ha un animo ingenuo, è convinto che «Con l’aiuto di Dio, tutto andrà bene»; la madre, intelligente e brontolona, deve rimediare alle sue catastrofi. E poi c’è il nonno che passa la vita a scovare nuovi divieti; c’è il rabbino che cerca i derelitti più poveri e sporchi per accoglierli nella sua casa; ubriaconi e santi, cristiani che un giorno minacciano di sterminare tutti i figli di Israele e il giorno dopo vanno da loro alla ricerca di un buon affare; insomma, c’è tutta la vita di un mondo che per noi è perduto per sempre. Da un mondo che non c’è più è un’opera diversa dalle precedenti di I.J. Singer, in questo testo, più che negli altri, l’autore ci fa sentire il peso opprimente e confortante della Torah; ci presenta le superstizioni delle donne, il coraggio e le piccole meschinità degli uomini. Personaggi che restano impressi nella memoria, episodi semplici e indimenticabili, racconti di vita privatissima e universale: è il testamento poetico di un maestro della letteratura.
Israel Joshua Singer
è nato a Bilgoraj, in Polonia, nel 1893. Fratello maggiore di Isaac (premio Nobel per la letteratura nel 1978), ha vissuto in Polonia e in Unione Sovietica ed è emigrato nel 1934 negli Stati Uniti, dove è morto nel 1944. Ingiustamente trascurato e messo in ombra dalla fama del fratello, è stato prolifico e grande autore di romanzi e racconti in lingua yiddish, introducendo nella narrativa yiddish elementi innovativi e caratteristici del suo stile: i diversi livelli di trame e sottotrame, l’ampio respiro delle vicende, i continui ribaltamenti dei piani e dei punti di vista, nonché le indimenticabili gallerie di personaggi. La Newton Compton ha pubblicato Yoshe Kalb, I fratelli Ashkenazi, La famiglia Karnowski e Da un mondo che non c'è più in volumi singoli e la raccolta I capolavori.
LinguaItaliano
Data di uscita9 dic 2015
ISBN9788854189836
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    Anteprima del libro

    Da un mondo che non c'è più - Israel Joshua Singer

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    550

    Di Israel J. Singer la Newton Compton ha pubblicato:

    Yoshe Kalb

    I fratelli Ashkenazi

    La famiglia Karnowski

    I capolavori


    Titolo originale: Fun a velt vos iz nishto mer

    Traduzione di Bianca Francese e David Sacerdoti

    Prima edizione ebook: gennaio 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-8983-6

    www.newtoncompton.com

    Israel J. Singer

    Da un mondo che non c’è più

    Con un’introduzione all’autore di Moni Ovadia

    Edizione integrale

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    Cercatelo nei libri

    La pubblicazione dei capolavori di Israel Joshua Singer, promossa da Newton Compton, rappresenta un’operazione di alto profilo editoriale e offre al lettore italiano un’occasione rara: l’incontro con uno dei più grandi scrittori del secolo scorso ancora colpevolmente poco conosciuto, soprattutto nel nostro Paese. Ma l’opportunità non si limita all’esperienza di leggere un gigante della letteratura, si estende, attraverso la sua poderosa e prodigiosa scrittura, al dono di entrare in un’intera epopea dal destino unico e unicamente tragico, quello dell’ostjudentum, la nazione transnazionale della diaspora ebraica del centro-est Europa e del suo resto nordamericano cantata nella sua ultravitale esistenza con gli intraducibili registri della magica e affettiva lingua yiddish. Per conoscere e sentire l’epos intrinseco dell’umanità pulsante di un mondo popolato da donne e uomini specialissimi per condizione esistenziale, cultura e spiritualità è, a mio parere, necessario essere disposti a farsi carico della perdita irredimibile che la sua eradicazione violenta, nello spazio di un mattino, ha significato, significa e significherà per tutti noi che siamo venuti dopo, ebrei e goym, ovvero gentili. Per cominciare disponiamoci a fare silenzio e mettiamoci all’ascolto di alcuni versi del poema Canto del popolo ebraico massacrato di Itzhak Katzenelson, vittima e testimone supremo dello sterminio.

    Il sole levandosi sugli shtetelekh di Lituania e di Polonia, non incontrerà più un vecchio ebreo raggiante intento a recitare alla finestra un salmo, o un altro che sta andando in sinagoga […] e il mercato, il mercato è morto! Il mercato è pieno ma sembra vuoto.

    Mai più un ebreo vi porterà la sua allegria, la sua vita, il suo spirito. Mai più le falde di un caffetano svolazzeranno intorno a sacchi di patate, di farina, di grano, né una mano ebrea solleverà una gallina, accarezzerà un vitellino […]. Non c’è più un ebreo nel paese!

    E i bambini ebrei non si sveglieranno più al mattino dai loro sogni d’oro, non andranno più al cheder […].

    Non ci sono più! Non chiedete, voi dall’altra parte del mare, non chiedete di Kashrilevke o di Yehupetz… lasciate perdere!

    Non cercate più i Menachem-Mendel, i Tevye-Milkhiker, gli Shloyme-Noghed, i Motke-Ganek, non cercateli!

    Come i profeti dell’eterna Bibbia, come Isaia, Geremia, Ezechiele, Osea, Amos, si lamenteranno per bocca di Bilaik, ti parleranno dai libri di Scholem Aleichem e di Scholem Asch.

    Non risuonerà più la voce della Torà dalle yeshivot e dalle sinagoghe, né quella dei pallidi ragazzi nobilitati dallo studio, immersi nella Ghemarà… No, non era pallore era luce, una luce ormai spenta […] consunti e deboli, ma pieni di Talmud piccoli ebrei con grandi teste, fronti alte, occhi chiari – non ci sono più, non ci saranno mai più.

    Nessuna mamma ebrea cullerà più il suo bimbo; non moriranno né nasceranno più ebrei; non si canteranno più i dolci canti dei poeti, dei grandi scrittori ebrei – finito, tutto finito!

    Nessun teatro yiddish farà più ridere o piangere la gente, i musicisti e i pittori ebrei non creeranno più nella gioia e nel dolore, non cercheranno più vie nuove.

    E gli ebrei non combatteranno più nelle città, non si sacrificheranno più per il bene del prossimo […]. O sciocco goy, hai sparato all’ebreo ma la pallottola ha colpito anche te! E ora chi ti aiuterà a costruire le tue nazioni? Chi ti darà tanto cuore e tanta anima?

    E quelle teste calde dei miei comunisti non litigheranno più con i miei bundisti […]. Oh! Se poteste litigare ancora ed essere vivi!

    Ahimè, non c’è più nessuno… c’era un popolo, e ora non c’è più… c’era un popolo… e ora è scomparso!

    Il popolo annientato d’ora in avanti potremo sentirlo parlare solo nei libri dei grandi scrittori. Katzenelson, dal suo tragico osservatorio, non poteva annoverare fra loro Israel Joshua Singer: forse ne aveva sentito parlare, ma non gli sarebbe stato possibile collocarlo fra i padri della letteratura yiddish. Invece oggi noi, la voce di quel popolo, la sua umanità perduta, la sua composita, lancinante e contraddittoria verità possiamo ascoltarla soprattutto nelle pagine dei due Singer. Senza nulla togliere a Isaac Bashevis, premio Nobel per la letteratura e immenso narratore, troviamo gli ebrei dell’ostjudentum ritratti con particolare forza e incisione nella scrittura poderosa e incalzante di Israel Joshua, soprattutto per il tratto oggettivo del suo stile che ci restituisce quel mondo con una visione lucida, necessitata, certamente in modo diverso da quello del sublime lirismo partecipato di Joseph Roth nel suo struggente Giobbe, ma non per questo meno emozionante e coinvolgente. I suoi personaggi, ebrei, sono cittadini di quel popolo dell’esilio, costruiti con magistrale certezza: i fratelli Ashkenazi, Simcha Meyer e Jacob Bunim, il loro padre e patriarca Reb Abraham Hirsh Ashkenazi, il sovversivo Nissan figlio del rigorista Reb Noske, il fascinoso ginecologo assimilato Georg Karnowski, suo padre David, uomo d’affari che disprezza il pietismo chassidico polacco per sposare il civilizzato ebraismo borghese tedesco, la pasionaria socialista Elsa Landau, l’enigmatico Yoshe Kalb, gli tzaddikim delle corti rabbiniche, santi o ciarlatani, o entrambe le cose. E con la stessa urgente autenticità dalla sua scrittura senza compromessi prendono corpo gli strati sociali, gli ambienti, i climi, la storia che avanza. E nel fluire degli eventi emergono le singolarità umane, i sentimenti, le forze e soprattutto le debolezze, le glorie e le infamie, le deflagranti contraddizioni: fedeltà alle tradizioni e a una fede incrollabile, ma contestualmente l’impellenza delle infedeltà e delle tentazioni incalzanti che premono per incontrare un mondo in travolgente trasformazione, di cui l’ostjude in quel momento è l’interprete più radicale, protagonista e vittima. Leggere Israel Joshua Singer è un privilegio che dovrebbe essere onorato da chi si vuole misurare con l’umanità ebraica eradicata dal nostro orizzonte, che con la sua estinzione ha visto perdersi per sempre ricchezze intellettuali, sociali e spirituali di irrecuperabile valore appartenenti all’intera civilizzazione occidentale e non solo. Sappiamo che la storia non si fa con i se… Ma possiamo capire dai potenti romanzi di Israel Joshua Singer che se il mondo non avesse permesso la crudele distruzione di quella stupefacente umanità, non solo avrebbe impedito il perpetrarsi di un immane crimine ma sarebbe oggi incomparabilmente più ricco, più giusto e poeticamente più vivo.

    MONI OVADIA

    Nota biobliografica

    Israel Joshua Singer è nato a Biłgoraj, il 30 novembre 1893.

    Figlio di Pinchas Mendl Singer, un rabbino chassidico anche autore di commentari rabbinici, e di Basheva Zylberman, a sua volta figlia di un rabbino di tradizione opposta (mitnaged), ricevette un’educazione ricca dei valori tradizionali ebraici propri di entrambe le correnti.

    All’età di quattordici anni, Israel si trasferì con tutta la famiglia in un paesino della provincia di Varsavia, dove – a dispetto di quanto ci si potesse aspettare – non si dedicò agli studi religiosi ma iniziò a lavorare come correttore di bozze e studiò pittura con un artista locale. L’amore per la scrittura arrivò poco dopo. A questo proposito, e a onor del vero, va detto che tutti i fratelli Singer finirono per tradire la tradizione religiosa familiare in favore della scrittura: il minore, Isaac Bashevis Singer, che ha ricevuto il Nobel per la letteratura nel 1978, e la maggiore Esther Kreitman.

    Nel 1918 Israel partì per Kiev e poi per Mosca. Già nel 1916 aveva iniziato a dedicarsi alla scrittura e a lavorare come giornalista, prima collaborando con la «European Yiddish Press» e con il «Di Nye Tsayat» (letteralmente Il tempo nuovo), poi con il «Literarishe Bletter». Tuttavia, l’accoglienza da parte degli scrittori yiddish sovietici non fu all’altezza delle aspettative, e certe loro posizioni politiche lasciarono Singer poco entusiasta, finché verso la fine del 1921 decise di tornare a Varsavia, dove si unì a un piccolo gruppo di scrittori chiamato Khaliastra (letteralmente La banda), che si opponeva al realismo sociale e alle descrizioni romantiche della vita degli ebrei polacchi. La loro rivista, «Khaliastra» appunto, conteneva illustrazioni di Marc Chagall e poesie, racconti e saggi di vari autori tra cui Perets Markish, Melech Ravitch, Uri Tsevi Grinberg, Yoysef Opatoshu, Oyzer Varshavski, Dovid Hofshteyn, e Singer stesso. Pian piano il gruppo si disperse in vari angoli d’Europa e d’oltreoceano, perdendo di slancio, fino a sciogliersi.

    Con la pubblicazione del breve racconto Perl (letteralmente Perle) nel 1921, Singer attirò l’attenzione di Abraham Cahan, il potente editor del quotidiano yiddish pubblicato in America, «Forverts». Iniziò allora a collaborare come corrispondente, scrivendo articoli e resoconti dei suoi viaggi in Galizia, Polonia e Unione Sovietica. Incontrò Cahan di persona a Berlino nel 1931 e si recò spesso negli Stati Uniti negli anni successivi, prima di stabilirvisi definitivamente nel 1934. A New York fu molto prolifico: scrisse racconti e molti articoli, pubblicati spesso sotto lo pseudonimo di G. Kuper.

    Il suo primo romanzo, pubblicato nel 1927, fu Shtol un Ayzn (letteralmente Acciaio e ferro, uscito in inglese con il titolo Blood Harvest, 1935; e successivamente come Steel and Iron, 1969). Il testo ricevette molte recensioni negative, generando controversie su quanto spazio fosse opportuno lasciare ai temi politici in letteratura. Deluso dalle critiche, Singer decise di abbandonare la narrativa per dedicarsi a tempo pieno al giornalismo. Ma il richiamo della letteratura era evidentemente troppo forte, e quattro anni dopo vide la luce il suo secondo lavoro, Yoshe Kalb. Adattato per il teatro, Yoshe Kalb fu rappresentato a New York a partire dal 1932 e diventò il lavoro più apprezzato da critica e pubblico nella storia del teatro yiddish.

    Negli Stati Uniti pubblicò altri tre romanzi: I fratelli Ashkenazi (Di brider Ashkenazi, 1936; uscito in inglese con il titolo The Brothers Ashkenazi, 1936 e 1980); Il compagno Nachman (Khaver Nakhmen, 1938; uscito in inglese con il titolo East of Eden, 1939); La famiglia Karnowski (Di mishpokhe Karnovski, 1943; uscito in inglese con il titolo The Family Carnovsky, 1969). Del 1937 è la raccolta di racconti Friling.

    Singer morì di infarto a New York nel 1944.

    Negli anni successivi alla sua morte seguirono adattamenti teatrali di minor successo rispetto a quello di Yoshe Kalb: per I fratelli Ashkenazi nel 1938, per Il compagno Nachman nel 1939, e per La famiglia Karnowski nel 1943. A questo si aggiunge la pubblicazione postuma di altri due lavori: il memoir Fun a velt vos iz nishto mer nel 1946 (letteralmente Da un mondo che non c’è più uscito in inglese con il titolo Of a World that Is No More, 1970), e Dertseylungen nel 1949.

    Edizioni italiane

    I fratelli Ashkenazi, prefazione di Claudio Magris, traduzione di Bruno Fonzi, Longanesi, Milano 1970; Bollati Boringhieri, Torino 2011.

    Yoshe Kalb e le tentazioni, introduzione di Isaac Bashevis Singer, traduzione di Bruno Fonzi, Longanesi, Milano 1973; Editori Riuniti, 1984; Carte Scoperte Editore, Milano 2005; a cura di Elisabetta Zevi, Adelphi, Milano 2014.

    La famiglia Karnowski, traduzione di Anna Linda Callow, Adelphi, Milano 2013.

    L’ultimo capitolo inedito de La famiglia Mushkat, introduzione e traduzione di Erri De Luca, contiene il racconto La stazione di Bakhmatch di Israel Joshua Singer, Feltrinelli, Milano 2013.

    Yoshe Kalb, traduzione di Clara Serretta e David Sacerdoti, Newton Compton, Roma 2015.

    I fratelli Ashkenazi, traduzione di Bianca Francese e David Sacerdoti, Newton Compton, Roma 2015.

    La famiglia Karnowski, traduzione di Martina Rinaldi e David Sacerdoti, Newton Compton, Roma 2015.

    Da un mondo che non c’è più

    Una festa in paese: Nicola II viene incoronato zar

    Quanto è subdolo e impressionante il cervello umano! Che capacità di immagazzinare e accumulare ricordi di scarsa importanza, proprio mentre elimina quelli importanti che ha scelto di dimenticare!

    Da più di quarant’anni – da quando ne avevo due, per la precisione – un’immagine vivida, la prima a rimanere impressa nella mia memoria, mi fa compagnia. Vedo un edificio alto, ben illuminato e pieno di persone. C’è della musica, io sono seduto sulle spalle di un uomo imponente con la barba, una delle mie calze sta scivolando via e la gente intorno mi zittisce, infastidita dai miei mugolii.

    Quando anni dopo ho chiesto a mia madre di quel giorno, mi ha detto che l’edificio era la sinagoga nella città di Biłgoraj, nella provincia di Lublino, dove sono nato; la musica era offerta dalla banda di Gimpel il violinista e la festa era per onorare l’incoronazione di Nicola II, zar di Polonia e Signore di tutte le Russie.

    Le spalle su cui ero seduto appartenevano a Shmul, l’aiutante in sinagoga di mio nonno, il rabbino di Biłgoraj. Mi aveva portato per ascoltare con lui la preghiera per il re e la nazione che recitava in onore del nuovo monarca davanti alla comunità e agli ufficiali locali russi. Coloro che avevano cercato di farmi star zitto erano i miei zii materni, Joseph e Itche, che avevano paura che il mio pianto interrompesse la cerimonia.

    Dato che ormai aveva iniziato a parlare, mia madre mi raccontò la storia di come a due anni per poco non rischiai di far finire il nonno in esilio in Siberia, per un piccolo crimine che commisi contro questo Signore di tutte le Russie.

    Andò così.

    Il nachalnik di Biłgoraj, capoluogo della nostra provincia, aveva dato a mio nonno un libro da riempire con le firme di tutti gli ebrei della città perché affermassero la loro fedeltà al neo sovrano. Non capisco perché l’Unto di Dio dovesse sentire il bisogno di una promessa di fedeltà dagli ebrei di Biłgoraj, ma la polizia aveva insistito e ovviamente gli ebrei avevano eseguito subito l’ordine.

    Quel giorno – l’incoronazione sarebbe stata l’indomani– quel libro era sulla scrivania del nonno. Mia madre si era addormentata mentre lo sfogliava. Poi si era risvegliata di colpo e, con orrore, si era trovata davanti il figlio di due anni che cercava di strapparne alcune pagine. Aveva preso il tomo con estrema cautela e, insieme al resto della famiglia, aveva fatto un sospiro di sollievo, convinta che un angelo custode l’avesse svegliata in tempo per evitare quest’oltraggio verso l’imperatore, un crimine per cui mio nonno sarebbe stato probabilmente spedito in Siberia.

    Non mi ricordo per niente di questo incidente, solamente il momento davanti alla sinagoga.

    Ho un’altra immagine che rimane cristallizzata nella mia memoria. Su uno spiazzo imbiancato dalla neve ci sono degli uomini e delle donne vestite di nero. Mia madre, mia sorella più grande e io siamo seduti su un carro. Mia sorella mi tiene la mano, stringe forte. Delle persone camminano accanto alla carrozza. Poi, siamo dentro casa; ci sono delle candele accese, zio Itche alza un calice di vino mentre fa la benedizione.

    Questo, mi ha detto mia madre, era il giorno in cui mio padre, allora ventisettenne, diventò il rabbino di Leoncin, una piccola comunità nella provincia di Varsavia. Le persone, mi spiegò, erano gli abitanti della cittadina, accorse ad accogliere il nuovo rabbino e la sua famiglia. Era un venerdì, poco prima di Pesach, la Pasqua ebraica. Il motivo per cui mi ricordo la benedizione fatta da mio zio e non quella di mio padre, che quel giorno era al centro dell’attenzione, è un mistero che non riesco a spiegarmi.

    Oltre a queste due immagini, delle altre – alcune più nitide, altre meno – affiorano dagli anni della mia infanzia.

    La città di Leoncin dove mio padre era diventato rabbino potrebbe essere più accuratamente definita un villaggio. Le case erano minuscole, i tetti non erano di paglia come nei villaggi dei gentili, ma inclinati e coperti di tegole. Spesso ci si posavano gli uccelli. Solo una casa in città aveva due piani e dei balconi. Le strade, pur non essendo lastricate, non erano fangose: dato che Leoncin era vicino alla Vistola, il terreno era quasi tutto di spessa sabbia bianca.

    Dei cartelli dipinti erano appesi sopra i negozi del villaggio. Il negozio di tessuti aveva due immagini di due rotoli di stoffa sovrapposti; sopra quello di alimentari c’erano dei coni di zucchero fasciati di blu; sopra il ferramenta c’erano immagini di pentole, padelle e candele, mentre sulle porte erano appese catene, ferri di cavallo e falcetti. Nella vetrina del negozio di tabacchi c’erano dei gatti con stivali laccati che fumavano da un bocchino. Chiesi a mia madre con insistenza di spiegarmi la connessione tra un gatto con gli stivali e il fumo, in quanto anche allora la mia passione per il realismo non mi faceva accettare una tale incongruenza.

    Poi c’erano le botteghe dei sarti, dei ciabattini e dei fornai. Il cartello sopra l’ultimo mostrava delle pagnotte a forma di corno che sembravano più legno che pane.

    Dei grossi stivali con gli speroni erano appesi sopra il negozio del calzolaio. Il sarto non aveva un cartello, ma su quello del conciatore c’era un pezzo di qualcosa, probabilmente cuoio. Un altro cartello mostrava un omino che cuciva una scarpa gigantesca con una macchina, indicando che il conciatore aggiustava anche le ghette.

    L’unica fabbrica della città produceva kvass, una bevanda colorata che schizzava dalle bottiglie appena venivano aperte. Le macchine nella fabbrica non smettevano mai di girare e macinare. Un liquame bianco e molle come panna acida colava dappertutto, in mezzo alle schegge di vetro verde, blu, rosso e marrone. Noi ragazzi prendevamo i cocci e ci guardavamo attraverso per vedere il mondo colorato in modo splendido. Con i fili di ferro usati per chiudere i tappi di sughero facevamo delle montature per monocoli.

    Non lontano dalla fabbrica c’era un magazzino per gli attrezzi agricoli. I contadini svevi che vivevano nei possedimenti lì vicino arrivavano ogni tanto in città per comprare dei macchinari. A Leoncin c’erano due negozi gestiti da gentili: uno vendeva carne di maiale, l’altro birra e distillati. La sinagoga e i bagni rituali erano vicino a un pascolo pieno di mucche e cavalli e accanto a uno stagno, pieno di fango più che d’acqua, dove nuotavano le anatre e si abbeveravano gli animali. In questa palude piena di iris d’acqua, le rane alzavano i loro gracidii al cielo.

    Il palazzo di Christowski, il notabile locale, e l’alta e imponente chiesa rossa, con le due fiere torri e le croci che toccavano imperiose il cielo, rimanevano in qualche modo distaccati.

    La città era completamente nuova, come appena costruita, abitata da ebrei della zona provenienti da fattorie vicine.

    Molti anni prima del nostro arrivo la polizia russa aveva cacciato gli ebrei da delle terre in cui avevano vissuto per generazioni. Da allora, secondo la legge, agli ebrei era sempre stato permesso di vivere solo all’interno degli insediamenti urbani. I rifugiati espropriati avevano comprato un lotto di terra bianca sabbiosa dal notabile Leon Christowski e avevano costruito una città.

    Il notabile, che ricopriva anche il ruolo di magistrato locale, era stato più che contento di vendere quella terra non coltivabile per un buon prezzo e aveva usato la sua influenza per farlo riconoscere ufficialmente come villaggio.

    Gli ebrei avevano costruito case, aperto dei negozi e delle botteghe e si erano sistemati secondo i tipici usi e costumi polacco-ebraici. I mercanti ebrei di legname avevano contribuito con della legna per costruire la sinagoga e il bagno rituale. Il signorotto aveva donato un piccolo terreno per costruire gli edifici sacri, e, per ringraziarlo, gli ebrei avevano dato alla città il suo nome. Ci vivevano circa quaranta famiglie, più o meno duecento persone.

    Come mio padre fosse emigrato da Biłgoraj, sul confine austriaco, fino alla remota Leoncin, a circa quattrocento verste di distanza, è una storia lunga e complessa che mia madre non ha mai raccontato senza parecchia amarezza.

    La storia era più o meno questa.

    Mio nonno materno, il rabbino di Biłgoraj, Jacob Mordecai, adorava mia madre, Basheva, perché era un’abile studiosa che aveva imparato da sola a leggere i libri sacri e addirittura la Ghemarà. Conosceva le Scritture quasi a memoria. Così le aveva cercato un marito istruito che un giorno sarebbe diventato il rabbino di una città piuttosto grande. Gli intermediari di matrimoni sapevano che nella città vicina, Tomaszów, che faceva parte anch’essa della provincia di Lublino, un certo Reb Shmul aveva un figlio, Pinchas Mendl, un uomo erudito e timorato di Dio. Così avevano organizzato un incontro tra i due. Mia madre aveva diciassette anni quando si sposarono, mio padre ventuno. Il matrimonio si tenne appena mio padre fu esonerato dalla leva.

    Mio nonno materno aveva disposto le cose in modo che il genero si trattenesse presso di lui per cinque anni, durante i quali era inteso che si sarebbe preparato per diventare rabbino. Questo includeva anche studiare un po’ di russo e passare un esame, dato che la legge prescriveva che le città di ebrei in Polonia avessero un solo rabbino, che doveva occuparsi sia delle funzioni spirituali che di quelle ufficiali. Mio padre ci mise ben poco a superare i primi scogli. Era figlio di un rabbino e genero di un altro, un vero prodotto di generazioni di studiosi. Era un gioco da ragazzi per lui imparare le leggi rabbiniche e i testi sacri. Ma rifiutò con testardaggine di imparare il russo e la grammatica indispensabili per passare

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