La disUnione Sovietica - da Superpotenza a periferia della globalizzazione
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Anteprima del libro
La disUnione Sovietica - da Superpotenza a periferia della globalizzazione - Giuseppe D'Amato
LA DISUNIONE SOVIETICA
© copyright 2012
by Greco&Greco editori
Via Verona, 10 - 20135 - Milano
www.grecoegrecoeditori.it
ISBN 978-88-7980-605-3
La disUnione Sovietica
da Superpotenza a periferia della globalizzazione
Giuseppe D’Amato
A mamma e papà
Prologo
Sono da poco passate le dodici del 19 agosto 1991. In lontananza si ode il rombo di una colonna corazzata in avvicinamento. Dalla piazza del Maneggio, di fronte alle mura del Cremlino, ci spostiamo nel vicino "Intourist". Dall’ultimo piano dell’albergo in via Gorkij osserviamo con tristezza come centinaia di attivisti democratici cercano inutilmente di fermare i militari golpisti.
Dopo aver messo degli autobus di traverso i più coraggiosi si buttano disperatamente sotto ai carri armati ed alle autoblindo.
Vogliono seguire l’esempio dei giovani cinesi in piazza Tienanmen nel 1989, ma sono presto immobilizzati.
In quelle prime ore del putsch sembra che la "perestrojka (la ricostruzione) sia finita con un atto di violenza repressiva come la
primavera" di Praga nel 1968 ed ancor prima la rivolta ungherese nel 1956. La caduta del Muro di Berlino appare essere stata un’eccezione pacifica, grazie alla posizione di Michail Gorbaciov recepita dal mezzo milione di soldati sovietici di stanza in Germania, di non intervenire ed, assolutamente, di non ripetere le gloriose gesta dei loro padri a Stalingrado, ossia di non fare a pezzi i tedeschi.
Mosca si riempie così di tank e di militari armati fino ai denti.
Gorbaciov, leader sovietico, è prigioniero in Crimea degli otto golpisti del GKCP (Comitato statale per la situazione d’emergenza), tra loro il vice-presidente, il premier, due ministri ed il capo dei servizi segreti. L’obiettivo dell’azione di forza è prima di tutto di evitare la firma, in programma il giorno successivo, del nuovo trattato dell’Unione che avrebbe rivoluzionato l’Urss, e poi di sostituire Gorbaciov con un colpo di palazzo, come avvenne con l’avvicendamento tra Chrusciov e Breznev nell’ottobre 1964.
I cospiratori non hanno, però, fatto i conti con l’energico presidente russo, Boris Eltsin, che sfugge all’arresto da parte di un’unità speciale e si barrica alla Casa bianca, il Parlamento repubblicano, difeso da migliaia di suoi indomiti sostenitori. Un prossimo bagno di sangue è dato da parecchi osservatori per probabile, mentre una televisione statunitense manda subito in onda false immagini di un carro armato avvolto dalle fiamme.
L’Occidente, incredulo ed atterrito, è preso in contropiede dal golpe dei vetero-comunisti. Da tempo l’Urss si dibatteva in una pesante crisi economica e politica, ma nessuno, in realtà, si attendeva una svolta così drammatica.
Ma, con le sorprese, siamo solo all’inizio. Col passare delle ore appare con chiarezza che il golpe è caotico e mal organizzato, mentre milioni di sovietici, solitamente apatici, scendono in strada dappertutto per protesta. Gli otto restano ben presto isolati e la loro azione di forza fallisce clamorosamente.
In quegli elettrici giorni post putsch nessuno pensa seriamente al crollo dell’Unione Sovietica. È solo evidente che l’Urss avrebbe finalmente pagato per lo scellerato Patto del diavolo
con i nazisti dell’agosto 1939. Senza quell’accordo con Hitler, presumibilmente, la superpotenza comunista sarebbe ancora in vita. I Paesi baltici, l’Ucraina occidentale, insieme alla Georgia, guidavano allora attivamente il movimento contro il «Centro», per l’indipendenza e contro le riforme gorbacioviane. Nel Caucaso, come da secoli, gli armeni e gli azeri si scontravano. Ma tutti questi territori sono periferici rispetto alla gigantesca Unione Sovietica.
All’inizio dell’autunno 1991 partiamo insieme all’amico-collega Almerico di Meglio de Il Mattino di Napoli per raccogliere, in quel momento storico, materiali per un reportage su tutte le repubbliche sovietiche, ad eccezione di quelle baltiche, ormai realmente uscite dall’Urss. Nell’arco di oltre due mesi e mezzo incontriamo politici, economisti, storici, gente comune. Torniamo a Mosca l’8 dicembre giusto in tempo per apprendere dalla radio dell’accordo di Belovezh, che scioglie l’Unione Sovietica.
L’attuale storiografia afferma spesso che i popoli dell’Urss non vedevano l’ora di fuggire dall’impero
. Noi, quasi ovunque, abbiamo ricavato un quadro un po’ diverso, nonostante fossero manifesti ben determinati sentimenti nazionalistici in circoli delle élite locali (soprattutto in Caucaso e in Ucraina, ma non in Asia) e fosse chiaro il risveglio religioso fra la popolazione. La grande mancanza di prodotti alimentari, la dollarizzazione dell’economia ed il diffuso degrado morale sono più fenomeni russi che delle altre repubbliche.
Tutte le dirigenze repubblicane, invero, seguono lo scontro per il potere in corso a Mosca per poi decidere i propri successivi passi.
Di quelle settimane a zigzagare per l’Urss, quasi senza logica per superare gli immensi problemi logistici del tempo – su tutti la cronica mancanza di carburante –, conserviamo un ricordo indelebile. Quante avventure! Come dicono i russi « extreme alla sovietica»: gli aerei spesso non volano; gli alberghi sono così sporchi che, ad esempio, ad Ashkhabad siamo costretti a dormire per terra, poiché il letto è pieno di cimici, o a Kishiniov e ad Erevan il freddo è insopportabile per la mancanza di riscaldamento. Da Erevan a Tbilisi viaggiamo a bordo di un treno pieno di fori di proiettili. E così via.
Ovunque nelle repubbliche la gente parla senza paura, esprimendo le idee più scomode per i poteri locali e dimostrando apertamente le proprie emozioni. Ecco in un Paese oppresso per sette decenni dal totalitarismo il grande merito della perestrojka gorbacioviana: la libertà di parola! Allo stesso tempo non va nascosto che, in quelle settimane dell’autunno 1991, le autorità repubblicane, soprattutto in Asia, incominciano ad etichettare la loro opposizione come « islamica» e danno incarico ai propri intellettuali di riscrivere la storia «a modo proprio», spiegando la propria decisione con le precedenti falsificazioni dei colleghi sovietici.
A posteriori specialisti e politici si sono a più riprese interrogati sulla possibilità di salvare l’Urss dal suo scioglimento. Le risposte sono state le più diverse. Con l’accordo di Belovezh il russo Eltsin, l’ucraino Kravciuk ed il bielorusso Shushkievic tolgono di mezzo Gorbaciov ed i suoi ormai irrealizzabili progetti unionisti. Con la definitiva scomparsa dell’Urss, il 25 dicembre 1991, Mosca si ritrova automaticamente maggiori mezzi finanziari per risollevare il Paese. A più riprese le élite democratiche russe avevano espresso la volontà di liberarsi del peso delle carissime «colonie». È la Russia, in sintesi, a volersi disfare dell’«impero» e non il contrario, come qualcuno ha tentato di far credere.
Esperti e storici danno spesso un giudizio negativo della presidenza di Boris Eltsin. Certamente Corvo bianco
ha commesso non pochi errori, in particolare nel secondo mandato dopo il 1996, quando era gravemente ammalato. Vengono, però, dimenticati i suoi incommensurabili meriti. Per prima cosa, Eltsin ha evitato lo scoppio di una guerra civile – come avvenne dopo la rivoluzione d’Ottobre –. Poi, grazie alla sua influenza e ad i capitali occidentali, ha permesso la messa in sicurezza del pericoloso arsenale nucleare sovietico, disseminato in giro per l’Urss.
Capire cosa è successo all’indomani del crollo della superpotenza comunista nello spazio post sovietico ed approfondire alcuni aspetti di quelle nuove realtà è fondamentale per meglio comprendere l’evoluzione di un’area cruciale per l’Occidente. È sufficiente ricordare le guerre del gas tra russi ed ucraini, con mezza Europa lasciata al gelo in inverno, per risvegliare mai assopiti incubi nel Vecchio Continente.
Per le traslitterazioni dal cirillico si è preferito scegliere quelle utilizzate comunemente dalla stampa.
Introduzione
Aleksandr è diventato grande. Si è sposato a Mosca con una compagna del liceo e gira il mondo grazie al suo lavoro. Nato poco prima dell’inizio della perestrojka gorbacioviana ricorda poco o niente dei tempi del comunismo e della superpotenza sovietica. Per rispetto ascolta con attenzione i racconti nostalgici dei nonni, ex militari in forza all’Armata Rossa, ma quelle pagine gloriose proprio non gli appartengono. Aleksandr è tutto computer, Internet, cellulari e carte di credito. Gli sembra francamente allucinante che il suo Paese abbia costretto la propria gente a vivere così a lungo in ristrettezze pur di mantenere in piedi l’impero e di primeggiare per il primato planetario con gli ancora comunemente detestati americani. E «cosa ci guadagno io personalmente – si domanda d’impeto – se abbiamo sviluppato l’ultimo più tecnologico missile, ma nei negozi c’è il defizit
?» Oppure, prosegue il giovane, «perché devo lavorare per gli altri che non fanno nulla?» L’individualismo ed il consumismo hanno di certo preso il posto della concezione di vita in comunità, per secoli caratteristica primaria degli slavi orientali, e della tipica solidarietà fra fratelli
. E queste sono le autentiche novità ad Est.
Se Almerico e chi scrive volessimo ripercorrere insieme dopo anni lo stesso identico percorso ci troveremmo davanti a difficoltà differenti e a realtà, in alcuni casi diverse in altri assai simili. Per prima cosa non saremmo costretti a zigzagare all’impazzata per raggiungere méte anche vicine a causa della penuria di carburante.
In Urss tutto era mosco-centrico
: persino il biglietto dell’aereo in Kamchatka – sul Pacifico due fusi antecedenti a quello del Giappone verso lo stretto di Bering – riportava l’orario della capitale e non quello locale costringendo i viaggiatori ad incredibili calcoli con il rischio di perdere il volo. Passare da Mosca, quindi, era spesso la soluzione più logica. Comodi velivoli solcano oggi i cieli dello spazio ex sovietico, l’unico problema è semmai il costo salato del viaggio. Lo stesso dicasi per i soggiorni negli alberghi supermoderni e superattrezzati. L’ottenimento dei visti rappresenta ora un ostacolo non da poco: il Turkmenistan, ad esempio, è stato per più di un decennio chiuso a ficcanaso stranieri, lo stesso vale in pratica per alcune zone turbolente dell’Uzbekistan. Il rischio di saltare i pasti è poi remoto. Bar, ristoranti e centri commerciali per tutti i gusti allietano la vita persino nelle cittadine più provinciali e sperdute. Dalla Coca-Cola alla pizza, dal kebab agli spaghetti più improponibili si trova ovunque tutto, e sempre lo stesso, come i vestiti di Dolce&Gabbana – a volte falsi – e le immancabili automobili Mercedes, rappresentanti dell’agognato status symbol da esibire. Questo eccesso di possibilità di consumo è una reazione comprensibile alle ristrettezze sovietiche.
L’aspetto nuovo da considerare è semmai la fine del secolare isolamento di queste terre. La rivoluzione tecnologica ha ristretto il mondo e se prima era quasi impossibile sapere cosa succedesse in una qualche repubblica adesso si è letteralmente sommersi dalle immagini via web e dalle notizie scritte, spesso di dubbia fonte.
Non esiste censura che tenga: su YouTube
si è assistito agli scontri interetnici di Osh nel 2010 guardando i filmati, girati con i telefonini e messi in rete dagli internauti locali, quando le troupe televisive ufficiali non erano ancora riuscite a mettere piede in città.
I giovani utilizzano i social network attivamente e grazie ad Internet sanno quello che avviene veramente in giro per il mondo.
Sono loro la forza che cambierà definitivamente quelle società dall’interno. Gli osservatori sono stati sorpresi dalla maestria dei ragazzi, alcuni poco più che adolescenti, che per protestare si radunarono grazie a Twitter
ed in migliaia a Chisinau, il 7 aprile 2009, diedero l’assalto al palazzo del Parlamento moldavo, mettendolo a ferro e fuoco due giorni dopo le elezioni generali.
L’Esecutivo nazionale impiegò una settimana per capire cosa fosse successo, poiché nessun partito o movimento politico aveva organizzato quell’azione, ripetevano polizia e servizi segreti. Alla fine le scuole superiori e le università furono controllate a tappeto per arrestare i responsabili di tale cieca violenza. E volarono non pochi scapaccioni dei genitori ed azioni disciplinari degli insegnanti per riportare la ragione.
L’incredibile evoluzione tecnologica non cancella l’altra tradizionale realtà, ossia quella in cui le televisioni di Stato e i giornali popolari continuano ad essere nelle mani dei poteri centrali. È apparso, però, un mezzo virtuale, assai più diffuso di quanto si pensi in Occidente, che mette seriamente in forse il controllo delle società.
L’unità linguistica dello spazio, prima dell’impero zarista poi di quello sovietico, si sta frantumando. Ma non è per merito dell’inglese, parlato stentatamente dalle giovani generazioni. Semmai è per demerito dell’opulenta ed indolente Mosca che ha investito poco nella propria cultura verso il vicino estero
. A costo di spendere non pochi rubli si sarebbe dovuto rendere più visibili anche agli ex fratelli
il canale sovietico, oggi Ort, oppure le televisioni nazionali, che, ad esempio, l’Ucraina del pro-occidentale Jushenko aveva praticamente messo al bando e persino il bielorusso Lukashenko ha censurato nei periodi prossimi o successivi alle elezioni. Libri in russo se ne trovano in giro per l’ex Urss, ma essi mancano nelle scuole, dove ancora si insegna la lingua di Pushkin.
L’incredibile è che gli ex fratelli
sono attratti dal russo, che rimane il mezzo di comunicazione più comune nello spazio ex sovietico, ma si scontrano con ostacoli impensabili per impararlo.
A ciò si aggiunga la scarsa simpatia che i russi generano con i loro complessi di superiorità sugli ex fratelli
. La diffusa ventata di xenofobia e razzismo contro i caucasici e gli asiatici nell’ex Madrepatria, con uccisioni persino di bambini, non aiuta a salvare quegli elementi di integrazione civile tra popoli così diversi che erano, a ragione, un vanto dell’Unione Sovietica.
Con il boom del prezzo delle materie prime a livello internazionale la Russia del dopo Duemila è di fatto uscita dalla terribile crisi economica post sovietica di fine secolo ed ha iniziato ad attirare lavoratori dalle repubbliche vicine. Mai si era registrato nella storia recente di quelle terre un fenomeno migratorio di tali proporzioni.
Malgrado i costi astronomici milioni di persone si sono messe in movimento in cerca di lavoro e migliori condizioni di vita. La successiva depressione finanziaria del 2008-2009 ha colpito di riflesso le economie delle ex repubbliche che vivevano delle rimesse degli emigranti. La deposizione del presidente kirghizo Bakiev nella primavera 2010 è anche conseguenza di questa situazione.
Dopo il crollo della qualità della vita negli anni Novanta in tutta la Comunità degli Stati Indipendenti la gente ha ricominciato a vivere un po’ meglio. Tutti gli indicatori macroeconomici indicano una consolidata positività, anche se nelle classifiche internazionali l’area ex sovietica non occupa affatto le prime posizioni. È stata in genere quasi sempre la locomotiva russa a trainare le altre economie. Secondo uno studio della Corte dei conti di Mosca la quota della Russia nel Pil dei Paesi della Csi nel 2009 è stata pari al 78-79% del totale, nel volume degli scambi tra questi Stati del 41-43%, nell’export verso i Paesi della Comunità del 55-57%¹ .
Il Cremlino rimane, quindi, il punto di riferimento nel suo cortile di casa
che invero appare diviso in tre macro-aree: quella europea che mira ad una maggiore integrazione con l’Unione europea se non all’adesione; quella caucasica alla ricerca del giusto equilibrio tra Est ed Ovest; quella asiatica compressa tra l’emergente Cina e i sussulti della turbolenta fascia islamica che va dall’Iran al Pakistan passando per l’Afghanistan² .
La grande novità è che il Polo russo, soprattutto ad occidente, ha trovato un concorrente temibile nell’Europa unita, che ha letteralmente rivoluzionato la geopolitica continentale. Negli anni Novanta in Caucaso ed in Asia centrale è andata in onda una versione aggiornata del Grande Gioco
di ottocentesca memoria con gli Stati Uniti che hanno tentato di infilarsi nello spazio ex sovietico per controllare i ricchi giacimenti di materie prime. Con lo scoccare del nuovo secolo è comparsa sulla scena la Cina, che ha influenzato la direzione dei gasdotti ed oleodotti in costruzione.
Le rivoluzioni colorate
di ispirazione bushiana hanno regalato sonore delusioni a chi ha sperato in un’accelerazione dei cambiamenti socio-economici già in corso. Diretta loro conseguenza sono state spesso le innumerevoli guerre del gas e del petrolio: la posizione geografica è diventata quasi più rilevante dello stesso possesso dei giacimenti.
La ricca Europa, rimasta al freddo a battere i denti, ha scoperto di essere prigioniera di questioni, erroneamente considerate altrui.
Peccato che ingenuamente e per scarsa conoscenza del suo vicino Est
abbia mancato un match ball
storico, non facendo aderire d’urgenza l’Ucraina all’Ue. Bruxelles, preferendo le altrettanto complicate ma meno strategiche Bulgaria e Romania, si sarebbe garantita d’un colpo le rotte delle materie prime ed avrebbe conseguentemente aperto una fase innovativa per l’intero spazio ex sovietico. E pensare che il Cremlino aveva dichiarato ufficialmente di non opporsi ad una tale scelta di campo. Se vuoi innovare a Mosca devi farlo prima a Kiev, è un comune detto che ricorda, ad esempio, che le radici dell’ammodernamento guidato da Pietro il grande furono piantate qualche decennio prima nella città culla della Rus’.
Tornando ai giorni nostri, se Boris Eltsin ha avuto il grande merito di aver bloccato sul nascere il crollo della Russia ed aver evitato che l’ex superpotenza sovietica si trasformasse in una spaventosa Jugoslavia atomica
Vladimir Putin si è pragmaticamente limitato ad accettare la situazione ereditata non tentando di riconquistare ciò che era stato perso. La dissoluzione dell’Urss è stata «la peggior tragedia geopolitica del XX secolo», ha evidenziato il presidente-premier russo, facendo inorgoglire i nostalgici, ma ha anche ammesso che la «Csi è stato il miglior modo per giungere ad una separazione consensuale e civile».
Mosca ha così preso atto nei fatti di non avere più la forza propulsiva, le capacità imprenditoriali - politiche e i capitali per mantenere l’impero se mira a garantire una buona qualità di vita per i propri cittadini e se intende continuare nella sua evoluzione democratica. L’unica seria proposta, messa in campo negli anni dal Cremlino, resta la creazione di una vera area di libero scambio con Bielorussia, Kazakhstan e forse Ucraina. L’Unione doganale potrebbe essere l’embrione di una futura Ue ex sovietica
.
Gli ex fratelli
non sono rimasti con le mani in mano ed hanno iniziato a guardarsi attorno non solo nella Csi, ma anche nel mondo, seguendo politiche multi-vettoriali. I loro mercati sono aperti ai migliori offerenti. La tutela russa, è ormai evidente, a loro non serve più.
La Russia post sovietica
1 Corte dei Conti Internet www.ach.gov.ru/ru/news/archive/09112010-1/
Vedi anche EuropaRussia, Vremja rejtingovRossii:
>www.europarussia.com/posts/1968 November 9th, 2010.
2 L’area baltica non è mai realmente appartenuta al cortile
interno della Russia. Vedi anche The history of the Baltic countries, Avita, 2002.
Russia: la superpotenza retrocessa
Mosca. Autunno-Inverno 1991. «Dài, compra questa bella cintura». Un uomo ben vestito di mezz’età