Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Afghanistan Missione Incompiuta 2001-2015: Viaggio attraverso la guerra in Afghanistan
Afghanistan Missione Incompiuta 2001-2015: Viaggio attraverso la guerra in Afghanistan
Afghanistan Missione Incompiuta 2001-2015: Viaggio attraverso la guerra in Afghanistan
E-book889 pagine12 ore

Afghanistan Missione Incompiuta 2001-2015: Viaggio attraverso la guerra in Afghanistan

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Nell’agosto del 2021 Kabul è caduta, i talebani sono tornati al potere dopo 20 anni dall’invasione USA. Che cosa è successo davvero in uno dei Paesi più belli e dannati del mondo? Che cosa ci siamo lasciati dietro in Afghanistan? Nico Piro narra nella forma di saggio e di racconto autobiografico. Tra ipocrisie, bugie, omissioni e militari mandatia combattere un conflitto senza poterlo chiamare guerra. La produzione di oppio ai massimi storici, una ricostruzione mai decollata, la “nuova” classe dirigente diventata tra le più corrotte al mondo, i talebani sempre più forti, le trattative di pace allo stallo, il governo “democratico” sull’orlo del collasso, un flusso inarrestabile di rifugiati in fuga da un conflitto che dura ormai dalla fine degli anni ‘70. Sullo sfondo un Paese ricco di tesori archeologici e di un’affascinante storia millenaria, la cui immagine è stata troppo spesso ridotta a bombe e pascoli di capre. La storia di un conflitto durato più della Seconda guerra mondiale che dal 2001 al 2015 è costato 1.000 miliardi di dollari agli Usa, 5 miliardi di euro all’Italia, 26.270 vittime civili, 2.357 soldati americani uccisi, 1.130 caduti della coalizione, 57 morti italiani.
LinguaItaliano
Data di uscita23 set 2021
ISBN9791280551030
Afghanistan Missione Incompiuta 2001-2015: Viaggio attraverso la guerra in Afghanistan

Correlato a Afghanistan Missione Incompiuta 2001-2015

Titoli di questa serie (3)

Visualizza altri

Ebook correlati

Storia per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Afghanistan Missione Incompiuta 2001-2015

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Afghanistan Missione Incompiuta 2001-2015 - Nico Piro

    Parte prima

    MARZIANI

    "Attenzione, per favore, popolo dell’Afghanistan.

    Le forze degli Stati Uniti stanno passando sopra il vostro Paese.

    Non siamo venuti qui per farvi del male. Siamo venuti qui solo per catturare Osama Bin Laden, Al Qaeda e coloro i quali aiutano Osama Bin Laden.

    Per favore, non prendete parte in alcuna azione militare e state lontano da strade e ponti.

    Non siamo venuti per colonizzare il vostro Paese o saccheggiarlo. Restate al sicuro, restate a casa"

    Trasmissione radio dall’aereo Command Solo

    Psy-Op U.S. Army, Ottobre 2001

    Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo

    Detto talebano

    Volo alla cieca

    La coda del drago scorre la ggiù tra le montagne: la corazza sulla schiena ha il colore della ruggine, al centro c’è la spina dorsale giallo vivo, come un lampo di forza.

    Colori stampati sui rilievi afghani dall’ossido di ferro trasudato dalle rocce per milioni di anni e dallo zolfo lasciato lì chissà da quale era geologica.

    Più al Nord le mastodontiche montagne sembrano di sabbia, una sabbia immobile persino di fronte al vento più impetuoso, una sabbia che è già diventata vetro, cotta da un sole implacabile. Qui al Sud, invece, quando il deserto, fatto di una polvere spessa e tagliante, lascia il posto alle rughe della Terra, le montagne sembrano enormi fossili: creature antiche fermatesi per un attimo e rimaste immobili per sempre; proprio come il branco di draghi che sembra correre sotto di noi, spingendosi l’uno contro l’altro per raggiungere il varco verso la pianura lunare.

    I colori geologici delle montagne sembrano gli unici capaci di resistere ai raggi di questo sole: formano dei chiaroscuri di rocce che paiono eterni. Tutt’intorno il sole cancella le differenze tra il cielo e la terra, impasta il paesaggio di un pallido giallo fatto di luce abbagliante, umidità e calore soffocante, ma nulla può davanti ai rilievi che conservano intatta la loro ruggine, il loro zolfo, i loro antichi minerali.

    La coda del drago si allontana serpeggiando – o forse è il nostro sguardo a correre velocissimo dandole un’impressione di movimento – e si lascia dietro, come un incisione, un sentiero che sembra un taglio sinuoso nel mezzo del nulla. Quel sentiero è l’unico appiglio a cui lo sguardo può reggersi per orientarsi e ricostruire una visione fatta di alto e di basso, di sinistra e di destra, mentre il sole impietoso resta nascosto nella sua stessa melma gassosa, cancellando ogni differenza tra cielo e terra.

    In basso sobbalza un uomo su una moto: produzione cinese come tutte quelle che circolano in Afghanistan. La teiera di latta dorata, legata sul portapacchi, lancia segnali di luce.

    Il mio sguardo, di nuovo, si perde. Non riesce a vedere né una fine né un inizio nel deserto che ha, intanto, occupato il panorama rendendolo ancora più pallido e straniante.

    Dove possa andare quell’uomo è un mistero, non meno di quanto lo sia il luogo da dove arriva. La sua traiettoria sembra interessare solo a un altro uomo sulla faccia della terra. È seduto alla mia sinistra, in precario equilibrio su uno sgabello di legno a cui è legato con una piccola catena, quasi un antifurto. L’uomo si affaccia sul vuoto, aggrappato a una mitragliatrice calibro 50. Fa qualche gesto al pilota che lo ricambia senza girarsi: se quel motociclista è uno scout, un’avanguardia talebana, accortosi dell’elicottero in alto, l’unica cosa che può fare è dirottare il convoglio ribelle che forse lo segue e si prepara a passare.

    Le montagne sono troppo lontane, noi voliamo relativamente alti, impossibile che quell’uomo da terra possa coordinare fuoco per colpirci.

    Anche il mirino metallico della mitragliatrice, che l’aveva seguito per qualche minuto, perde interesse per il possibile obiettivo e si lascia andare.

    Sono sul fondo di un elicottero dell’esercito spagnolo, Cougar, in volo da Farah city a Herat. Dall’alto guardiamo una terra che non ci appartiene, dove pochi occidentali riescono ad avventurarsi e se lo fanno devono essere in tanti, pesantemente armati e pronti a tutto.

    Come sacchi di patate sul pianale di un camion che va al mercato, siamo seduti in un angolo buio della carlinga, cercando riparo dal sole e dai proiettili che potrebbero entrare dal portellone in qualunque momento. Da quel varco, per ora, entra solo l’aria rovente del cielo, mentre il ritmo ipnotico del rotore e i tappi nelle orecchie, che ovattano ogni riflesso, rendono ancora più distante quel paesaggio, quel Paese, quel tempo.

    Mi preme addosso il corpo del gigante Mario, il mio paziente operatore. È l’estate del 2009 e stiamo tornando da Farah City, dove in un angolo dell’aeroporto provinciale, al fianco del prt dell’esercito americano, sta venendo su una nuova base italiana, prima pagina di quello che sarà il capitolo più sanguinoso della nostra missione in Afghanistan, scritto al confine con le roccaforti talebane del Sud. Per ora una distesa di tende, qualche bagno chimico nei container e un forno per le pizze. Ma il vero forno è l’aria con la temperatura che raggiunge i cinquanta gradi.

    L’Rc-West, il comando occidentale della missione isaf a guida nato, occupa un territorio grande come il Portogallo che corre lungo l’asse Nord-Sud nell’Ovest afghano. Copre la provincia di Ghowr, affascinante e inchiodata tra le montagne, tanto remota che lì la presenza occidentale è puramente simbolica; quella di Badghis nell’estremo Nord, al confine col Turkmenistan, dove le truppe internazionali sono arrivate solo nel 2008 e sono state scambiate dalla popolazione locale per colonne sovietiche, ancora in giro dall’89; quella di Herat, strategica per la sua storia, la sua popolazione e i contatti con l’Iran; quella di Farah dove nel deserto si respira già l’area rovente del Sud afghano. Subito dopo c’è l’Rc-South, territorio di britannici e americani, un inferno in terra che le truppe occidentali mai riusciranno a controllare per davvero, ma che erutta i suoi vapori di morte proprio verso Farah e le sue valli.

    Solo dall’elicottero si può capire quanto difficile sia vivere e combattere in Afghanistan.

    Un Paese senza infrastrutture, dove c’è una sola strada degna di questo nome, dove lo scenario può cambiare drasticamente in pochi chilometri. Non è solo una questione di paesaggi ma di terreno: montagne che superano i tremila metri, deserti dal caldo insopportabile, sabbia più abrasiva della carta vetrata e pietraie che formano labirinti. È il terreno – come lo si chiama in gergo – il nemico, inanimato, di questa missione, difficile da affrontare persino con le tecnologie occidentali, luogo dove sanno muoversi solo i locali, spesso sconosciuto anche alle mappe elettroniche e ai gps.

    Il volo di oggi attraversa due province, Farah ed Herat, confinanti ma appartenenti a due mondi diversi, la transizione tra i paesaggi in un paio di ore di volo è velocissima, stupefacente: una balcone spalancato sulla ricchezza del panorama afghano. L’orizzonte, d’un tratto, diventa sferico. Dal giallino pallido del deserto soffocato dall’afa, si gonfia una striscia di verde brillante.

    In un passaggio scendiamo di quota e le canne del granturco scosse dalla forza dei rotori sembrano quasi salutarci come una folla in festa, quella che tanti militari, almeno all’inizio della missione, si aspettavano di trovare ad accoglierli.

    Sotto di noi c’è solo del mais non una popolazione festante ma è comunque una consolazione: l’economia dell’Occidente afghano non si regge sul papavero, come accade invece al Sud ma nel distretto che stiamo sorvolando ogni lembo di terra si riempie di una quantità di oppio da record per l’Ovest.

    Questa striscia di verde che disseta il paesaggio, per esistere ha bisogno di acqua, ma da qui non riesco a vederla. Da qualche parte si dovrebbe scorgere il grande fiume, il Farah Rud, le cui acque scendono gelide dai colossi di roccia nel centro del Paese e arrivano fino al confine con l’Iran. Questo deserto di carta vetrata e pietre, viene spesso annegato dall’acqua. D’estate il terreno mostra delle tracce che viste dall’alto sembrano canali di terracotta. D’inverno, quando nel resto del Paese comincia a nevicare, all’improvviso, qui arrivano piogge torrenziali. Come una biglia di marmo l’acqua scorre lungo le pareti lisce di quei canali e prende velocità, monta fino a travolgere e allagare ogni cosa.

    Ma è un fuoco fatuo, le flash flood della provincia di Farah cambiano il paesaggio per poche settimane, trasformando la sabbia in fango ma non la terra che resta arida.

    In questa parte dell’Afghanistan, il paesaggio diventa verde solo lungo le sponde dei grandi fiumi,

    Se in Iraq la green zone era la cittadella nel cuore di Baghdad dove gli occidentali potevano persino spostarsi in Harley Davidson mentre fuori infuriava l’inferno, a Kabul una zona sigillata non è stata mai creata, semplicemente perché la forma della città non lo consentiva.

    L’unica green zone di cui si parla in Afghanistan è letteralmente verde, corre lungo il fiume Helmand: una rete di piantagioni, frutteti, case di contadini e canali di irrigazione nella quale le truppe occidentali finiscono impigliate quasi ogni giorno nel tentativo di dare la caccia ai ribelli.

    I russi fecero tagliare interi frutteti nel tentativo, vano, di affrontare i mujaheddin in campo aperto.

    Bambini giocano in cortile, attirati dal rumore dei rotori guardano in alto ma quando il loro sguardo incontra il sole abbagliante, non si danno noia di continuare a cercarci in aria.

    L’elicottero sorvola un quadrato perfetto, è la prima forma geometrica nel paesaggio che vedo da almeno un’ora: le mura dei tradizionali cortili afghani servono a dare libertà alle donne della famiglia e a far giocare i bambini.

    Difendono la famiglia dai malintenzionati e le donne dagli sguardi indiscreti. Le case rurali afghane sono costruite intorno al cortile: un’ala per fare entrare gli ospiti, un’altra dove le donne restano nascoste (segregate) a prendersi cura della famiglia.

    La casa di mattoni di fango secco ha lo stesso colore della terra che la circonda: non è stata costruita, è come emersa da quella polvere tagliente. Un’architettura che si ripete da secoli, usando il fango e la paglia per isolare le stanze dal caldo e, in altre province, dalla neve. Case da riparare ogni estate, con fango fresco spalmato a mano che il sole indurirà come pietra.

    Mura che non servono a nulla contro gli occhi curiosi degli elicotteri. I bambini corrono e giocano scalzi su quella sabbia che graffia persino la pelle degli anfibi militari. Gli afghani, soprattutto i più poveri, in campagna, indossano solo delle ciabatte di plastica, a volte di un indefinito giallastro, a volte colorate in maniera vivace, persino fucsia.

    Ciabatte incrociate in punta e con il tallone libero, che arrivano chissà da quale fabbrica pakistana dove vengono prodotte a migliaia, a getto continuo.

    Con quelle ciabatte gli afghani ci fanno di tutto, ci combattono persino e si arrampicano su crinali di roccia che farebbero paura a un alpinista. Metafora di uno scontro impari, tra guerriglia ed eserciti moderni, dove paradossalmente è favorito chi ha di meno e quindi si sposta più leggero e veloce anche se più scomodo.

    L’aria è rovente ma sotto i giubbotti antiproiettile si è accumulato tanto di quel sudore che a contatto col vento sembra quasi raffreddarsi, dando sollievo come un’aria condizionata amatoriale.

    Di scorta abbiamo un Tiger, elicottero d’attacco spagnolo, che per la verità non mi sembra messo meglio del Cougar sul quale viaggiamo noi sacchi di patate.

    Dovevano essere nelle stesse condizioni gli elicotteri spagnoli che nell’agosto del 2005 erano precipitati, più a Nord di qui, nella provincia di Badghis, uccidendo 17 soldati di Madrid, il giorno peggiore per la missione iberica in Afghanistan.

    Le prime dichiarazioni del governo spagnolo erano state vaghe, seguivo la notizia dalla redazione a Roma e sospettai – come tanti – di un attacco talebano, non escluso dal governo di Madrid. Ufficialmente i due elicotteri avevano avuto problemi meccanici forse si erano toccati in volo precipitando. Adesso non faccio più fatica a crederci.

    L’ultimo sobbalzo del rotore spinge lo stomaco in gola, fa scendere l’elmetto sul naso e sbatte le nostre schiene sul pianale. Guadagniamo quota bruscamente. Stiamo superando le montagne che fiancheggiano la piana di Herat, i loro profili tondi sono familiari, li sfiori ogni volta che atterri all’aeroporto. A quel punto vedere quegli alti cumuli di sabbia vetrificata metteva di buon umore: data l’ora saremmo ancora riusciti a mangiare qualcosa alla mensa prima della sua chiusura. Avevo assistito alla sua inaugurazione nel natale del 2006 ma mai avrei immaginato – e come me nessun altro quel giorno – che sarebbe servita a sfamare una base intanto cresciuta più del doppio, quasi a diventare una piccolo paese.

    Mettiamo piede sulla pista piegati dai nostri zaini, spinti dagli scarichi roventi dei rotori e disorientati dalla furia assordante delle pale. Uscendo il pilota mi allunga un pezzo di carta, un foglietto a quadretti con i bordi sghembi, di quelli strappati da un quaderno con gli anelli. Gli sorrido, afferro il foglietto e faticosamente lo infilo nel tascone sulla coscia con la turbolenza che lo schiaffeggia. Io sottoscritto…. Una liberatoria per il governo spagnolo da ogni responsabilità in caso di incidente. Il pilota me l’aveva fatta scrivere sulla pista di Farah prima di partire. Una scena surreale. Scusi comandante ma se precipitiamo e moriamo tutti, il suo governo come fa a sapere di questa lettera e soprattutto dove la trova in mezzo ai rottami in fiamme?

    Il pilota non mi aveva risposto; la conferma di quanto ipocrite fossero quelle procedure. A me stavano tutto sommato bene: quel silenzio mi confermava che quel pezzo di carta non sarebbe servito a nulla; in caso di incidente almeno la mia famiglia avrebbe potuto far causa al governo di Madrid.

    Mentre arrancavamo sul cemento della pista di Herat, spinti dalla turbolenza delle pale, era un’altra ipocrisia a spegnere quel mio accenno di risata.

    Non avevamo potuto documentare quello era stato il più bel volo in elicottero della mia vita; il più bello non per l’abilità del pilota ma di sicuro per la visione del paesaggio.

    Saliti a bordo, l’equipaggio ci aveva vietato qualsiasi ripresa.

    Non c’era un’operazione in corso, era solo di un volo di routine, non sorvolavamo obiettivi sensibili e l’attrezzatura di bordo era standard. Insomma, non c’era alcuna giustificazione, né operativa né logica, a quel divieto.

    Era semplicemente il segno di un problema molto più grande, il sintomo della sindrome afghana che, come l’Italia, aveva colpito anche la Spagna. I socialisti e Zapatero si erano duramente schierati contro il patto delle Azzorre, quando il premier popolare Aznar aveva fatto il ciambellano per Blair e Bush e la loro decisione di invadere l’Iraq. L’attentato dell’11 marzo alla stazione d’Atocha e la sua matrice islamista – in rappresaglia proprio al ruolo del governo spagnolo – aveva persino aiutato Zapatero a ribaltare i sondaggi e vincere le elezioni, diventando il nuovo capo del governo. Ma il centro-sinistra iberico non era mai riuscito a ridiscutere la missione afghana, né mai l’aveva voluto fare per svariati motivi: dall’assenza di un piano internazionale per uscire da quel conflitto all’evitare di passare per un partner inaffidabile sulla scena diplomatica mondiale. La soluzione era stata quella di nascondere la polvere sotto al tappeto: continuare a definirla missione umanitaria; onorare i caduti, parlando quindi dei morti ma non di cosa facessero i vivi; rendere difficile la vita ai giornalisti; puntare sull’immagine di Carme Chacón, neo-ministro alla difesa, che passa in rassegna le truppe spagnole a Herat col suo bellissimo pancione di mamma in attesa. Una scena che rendeva quasi umano quello stesso luogo dove ora noi camminavamo rimpiangendo di non aver portato a casa un solo fotogramma di quel volo straordinario.

    Quel tacito embargo piombato sulla missione isaf era efficace e utile per quei governi che avevano il problema di fronteggiare la propria opinione pubblica nazionale e sondaggi sempre più sconfortanti sul gradimento del conflitto afghano, nel momento in cui la situazione nel Paese precipitava e la definizione di missione di pace suonava sempre più improbabile.

    Ma, in una conflitto internazionale, quell’embargo silenzioso era fragile. Dall’altra parte del mondo – gli Stati Uniti che avevano voluto quell’operazione e che la stavano finanziando massicciamente con uomini e mezzi – sia la politica che i media definivano molto più onestamente quella afghana come una guerra, seppur nella sua variante post-11 settembre di guerra al terrorismo; qualcosa quindi di cui essere orgogliosi, piuttosto che da nascondere.

    E per vedere da vicino la guerra afghana, quella degli americani era la porta giusta a cui bussare.

    L’America

    Èlunga la fila per mangiare da Burger King; ritmicamente una corpulenta donna di colore si sporge dalla finestra del prefabbricato e distribuisce cartoni di patatine e di panini unti. Non ci sono vassoi e bisogna portarseli in mano fino ai tavoli che stanno all’aperto, pesanti come quelli dell’area pic-nic di un parco, il legno ormai scurito dalla pioggia e dalla neve. Di fianco c’è una concessionaria dell’Harley-Davidson, un negozio della Oakley e un enorme supermercato. Dall’altro lato, intorno al parcheggio, ci sono la sartoria, il barbiere e il centro estetico.

    Mentre si fa la fila per gli hamburger non si riesce a vedere il panorama, stretto tra quegli edifici prefabbricati, ma è la ghiaia che slitta e rende il passo incerto a riportare la mente alla realtà.

    Questo posto è più grande della mia città in Tennessee biascica il sergente con il suo accento del Sud. Come dargli torto mentre nel suv che sta guidando, Alicia Keys suona a tutto volume.

    Anche la radio e la televisione – sotto le insegne dell’afn, il network delle forze armate – arrivano qui direttamente dall’America, quasi come tutto il resto, con l’eccezione della ghiaia che è dappertutto salvo che sull’asfaltata Disney Drive⁴ con i suoi filari di alberi e i marciapiede.

    Lo sguardo si sposta verso l’orizzonte, finalmente libero, a incoronarlo quasi a 360 gradi sono le vette imbiancate dell’ Hindo Kush. Assomiglia a un’illusione di Hollywood ma è realtà: siamo in un pezzo d’America piombato nel bel mezzo dell’altopiano asiatico, Afghanistan centro-orientale.

    La base di Bagram è la più grande e importante base militare statunitense fuori dai confini nazionali ed è un emblema delle alterne fortune di chi combatte in Afghanistan.

    Costruita dai sovietici, Mosca ne fece il suo scalo aereo principale per sostenere prima i governi filo-comunisti e poi per alimentare la sua macchina bellica durante gli anni dell’invasione. Con la caduta di Najibullah è diventata una base aerea talebana, da qui decollavano i (pochi) piloti del Mullah Omar addestrati in Pakistan quando non essi stessi consiglieri militari pakistani. Dopo l’attacco del 2001, gli Stati Uniti l’hanno occupata, ripulita dagli scheletri di caccia Mig e mezzi blindati sovietici per trasformarla nell’hub della missione Enduring Freedom, all’epoca dedicata sostanzialmente ad acciuffare Bin Laden e altri terroristi.

    Se gli americani avevano ben presente quanto strategica fosse questa base a poche ore di volo dall’Iran, dal Pakistan e dalla Cina non avrebbero mai immaginato che sarebbe diventata per loro quello che è stato per i sovietici: il quartier generale di una guerra senza fine (e senza fini) combattuta tutt’intorno, nel resto del Paese. L’arrivo a Bagram, se voli direttamente dagli Stati Uniti o dalle basi americane in Germania, tutto sommato non ti impressiona molto, salvo per quella corona di imponenti montagne che sono l’unico segno d’Asia rinvenibile in un luogo dove tutto è statunitense.

    Il viaggio in auto da Kabul è invece un vero salto nel tempo. Dalla capitale di strade se ne possono prendere due, entrambe come una forcella si riuniscono sulla piana di Shomali. Lasciata la periferia di Kabul, già nei primi mesi del 2008, il percorso era diventato a rischio, percorribile solo in piena luce del giorno.

    Una teoria di nastri di fumo nero salgono dritti verso il cielo come code di aquiloni ma fanno paura, la strada scollina e ci mostra altrettante ciminiere: sono fabbriche di mattoni che la città divora per le sue nuove case, nei forni bruciano vecchi pneumatici; sono loro a dare al fumo quel colore che fa pensare a un esplosione. Gomme usate come quelle di cui è stracarico l’enorme camion pakistano, che arranca e ci lascia passare. La strada è deserta, la punteggiano sporadiche tende dei nomadi Kuchi e grappoli di case.

    All’orizzonte, tra le montagne che si aprono sulla pianura, si alza una colonna di fumo che ribolle su se stessa salendo verso l’alto. Questo è un fumo diverso: probabilmente armi e munizioni sequestrate, un cache fatto saltare e distrutto dai militari.

    La svolta arriva a quello che sembra un bivio qualunque ma si apre su un grande piazzale dove fanno la fila i camion e che ha già un aspetto industriale. La base è tanto grande che da qui nemmeno si intravede. Il nostro vecchio, sgangherato, pulmino che ci aveva protetto lungo la strada facendoci passare inosservati ora ci rendeva sospetti agli occhi delle sentinelle. Parcheggiamo a debita distanza e facciamo una telefonata all’ufficio del pio, la pubblica informazione. Dopo un po’ d’attesa, il trasbordo dei bagagli sul suv color bianco, senza insegne, e in una decina di minuti siamo sulla Disney Drive.

    Le casetta di legno, con il tetto spiovente, sono allineate, una di fianco all’altra, come a formare una griglia. Quella dove dormono i giornalisti embed, al seguito delle truppe, arriva dopo l’ufficio del pio. Tre scalini come davanti a un capanno sul lago in Wisconsin o giù in Georgia.

    La porta si apre su un buio corridoio, al muro è affissa la citazione degli Eagles: Benvenuti all’Hotel California, può lasciarci all’ora che preferisci, ma non puoi andartene mai. Interrogarsi su chi abbia scelto una frase del genere, trasformando un capolavoro musicale in un triste presagio, è davvero tempo perso.

    Nel pomeriggio ci arriva la notizia: all’indomani si parte per la base Salerno, nella provincia di Khost: una zona ad alto rischio. Un lembo di terra che si incunea in territorio pakistano, a ridosso del cosiddetto becco di pappagallo, regno del potente e feroce clan Haqqani, un’organizzazione criminale diventata una delle componenti più forti a livello militare della guerriglia, capace di mettere a segno degli attacchi clamorosi. Guidata da Jalaluddin Haqqani: il comandante barbuto e senza paura con forti convinzioni islamiste divenuto molto vicino ai servizi pakistani e sauditi durante gli ultimi anni della resistenza anti-sovietica. (...) all’epoca, prima che si trasformasse nel peggior nemico dell’America in Afghanistan gli agenti cia a Peshawar lo consideravano come un collaudato comandante che poteva organizzare spedizioni di molti uomini sotto la sua guida anche a seguito di richieste con tempi brevissimi. Haqqani aveva il pieno supporto della cia⁵.

    All’alba, carichiamo di nuovo i bagagli sul suv del nostro addetto pio, ma la Disney Drive è chiusa al traffico a quest’ora perché i Marines la usano per marciare dietro alla bandiera della loro unità. Bisogna prendere delle strade secondarie per arrivare al rotary wing terminal. L’impatto dei contractor sulla missione afghana è enorme, lo si capisce dal deposito dei container, movimentati da personale della Kellogg Brown and Root. Si perde a vista d’occhio.

    Il logo kbr, sussidiaria della Halliburton (cara all’ex-vicepresidente americano Dick Cheney), è dappertutto. L’azienda fornisce personale per svolgere mansioni che un tempo erano dei soldati e oggi sono state privatizzate: dalla logistica alle mense. Tra Iraq e Afghanistan, è un affare da miliardi di dollari.

    Il terminal per i trasferimenti in elicottero è un enorme capannone ma all’alba è già pieno di militari, altrettanto grande il drappo americano che incombe dall’alto su chi è appena tornato dalla licenza in America e deve rientrare alla sua base o sulle unità al completo, appena dispiegate e in attesa di essere portate al fronte. La citazione degli Eagles comincia a suonare sempre più sinistra: per tre giorni facciamo la spola tra la nostra baracca, il terminal ala fissa e quello ala rotante, senza riuscire a trovare un solo posto sul manifest d’imbarco. L’Afghanistan è un Paese senza infrastrutture e dove ci sono strade, ponti, gallerie che rappresentano quasi sempre un pericolo mortale, luogo ideale per piazzare bombe e organizzare imboscate. Viaggiare via terra è un scommessa ad alto rischio, se non è la guerriglia sono il fango, la sabbia o le montagne a trasformare persino in giorni la durata di un percorso di poche decine di chilometri. In questa missione gli aerei ma, soprattuto, gli elicotteri non sono mai abbastanza.

    Lungo la Disney Drive sfilano tutti luoghi chiave di questa base, compreso il campo delle forze speciali, recintato e sorvegliato come un mondo a parte dove nessuno, né i contractor civili né le forze convenzionali, può mettere piede: motivi di segretezza. L’unica cosa certa su quanto accade dall’altra parte della recinzione – raccontano i rumors della base – è che gli alloggi sono decisamente più confortevoli che nel resto di Bagram.

    Prima del campo di pallavolo e dell’enorme palestra, sul lato opposto, una stradina porta verso la mensa. All’ingresso c’è un civile con un disco d’alluminio in mano, il conta-persone fa click a ogni passaggio: qui si servono migliaia e migliaia di pasti al giorno.

    All’interno, persino le luci al neon riescono a essere abbaglianti per quante ce ne sono. I banchi del cibo sono lunghissimi e profondi. La mensa è gestita dai contractor della Halliburton, civili soprattutto asiatici e dell’Est-europeo; quest’ultimi sono l’emblema di un paradosso: si ritrovano a lavorare per gli americani nella base che un tempo fu il simbolo prima del potere, poi del declino, del loro impero. A passare gli hamburger è un afghano a cui è stata imposta una ridicola crestina di garza bianca sulla barba, oltre che sui capelli. Viene dal villaggio vicino, i cui abitanti per lo più lavorano nella base e negli anni hanno cominciato a lamentare gli effetti del fumo nero e acre che si solleva dalla discarica dove finiscono tutti i rifiuti e lo spreco di questa enorme città militare.

    Chissà cosa pensa quell’uomo mentre naviga da un banco all’altro in quel mare di cibo. Solo a poche centinaia di metri di distanza, al di là del perimetro difeso con le armi, quell’abbondanza è un sogno.

    I banchi self-service sono stracolmi di ogni genere d’insalata, il freezer trabocca di gelati, la piastra tiene calda la carne. Dai frigo lungo le pareti è possibile prendere ogni genere di bibita, il Gatorade come la Coca-Cola scorrono a fiumi. L’unica tregua a quella luce da ospedale, in saloni senza finestre, arriva dagli enormi televisori al plasma dove va in onda lo sport americano intervallato solo dagli spot delle forze armate.

    Il senso di distanza dall’Afghanistan è totale: il Paese e la sua guerra sembrano lontani migliaia di chilometri e centinaia di anni.

    Lontani i forni scavati nel terreno dove si cucina il pane nan, lontane le case di fango, lontana la vita sospesa tra il ghiaccio dell’inverno e il sole soffocante dell’estate, senza medici, senza energia elettrica, senza fognature e spesso alle prese con un’eterna carestia. E non è solo un fatto d’empatia o di ingiustizia ma un grave errore strategico.

    Se non fosse per l’assenza di finestre, se non fosse che fuori al posto dell’asfalto ci sono l’onnipresente ghiaia, il fango, la polvere, questa sala potrebbe essere in una qualunque base militare nel cuore d’America.

    Viene da chiedersi come sia possibile per questi soldati barricati dietro il filo spinato capire e proteggere il popolo afghano. Le distanze sembrano incolmabili e Bagram è un luogo perfetto per osservare tutti i limiti dell’approccio americano.

    A quel punto del conflitto, la guerra in Afghanistan era ancora nel limbo. Se Petraeus aveva cambiato la strategia americana in Iraq, riuscendo faticosamente a ripristinare un minimo di sicurezza in quello che gli errori e l’arroganza dell’amministrazione Bush avevano trasformato in un mattatoio a cielo aperto, l’Afghanistan rimaneva un conflitto dimenticato. Se ne ricominciava a parlare in vista della campagna elettorale per le presidenziali del 2008 e perché il numero di caduti e il livello delle violenze stavano crescendo tanto da dare l’idea di un Paese che scivolava inarrestabile verso il baratro, ma a Washington ancora mancava una strategia per vincere questo conflitto, così come mancavano gli uomini e i mezzi per farlo.

    Oltre agli inservienti, ai facchini e agli interpreti, gli unici afghani nella base sono quelli in gabbia. Il carcere di Bagram si intravede, è inaccessibile ma già tristemente noto come la Guantanamo d’Afghanistan⁶, uno dei punti più oscuri della presenza americana nel Paese e fonte di forti contrasti con Karzai.

    Per favore non lasciate qui la vostra arma personale. Bagram ha le sue regole, una di queste riguarda le armi, che devono essere sempre portate con sé, cariche e pronte all’uso, tanto da richiedere l’affissione di quell’invito a non dimenticarle nella sala internet della base. Oltre ai fucili d’assalto M-16 e M-4, c’è solo un’altra cosa che è onnipresente a Bagram, sono le bande catarifrangenti, obbligatorio portarle dopo il tramonto, quando scatta il black-out della base. L’alternativa è ritrovarsi a pagare una multa alla polizia militare, la stessa che non lesina quelle per eccesso di velocità.

    A Bagram le armi personali non sono mai servite per difendersi, non perché la base non sia mai finita sotto attacco ma solo perché in quei casi non sarebbero state di nessuna utilità.

    Durante la visita – come di prassi a sorpresa ovvero tenuta segreta fino quasi alla sua conclusione – del vicepresidente Dick Cheney a Bagram nel febbraio del 2007, i talebani spediscono un kamikaze a farsi esplodere all’ingresso della base. Gli obiettivi sensibili – vicepresidente degli Stati Uniti incluso – erano a chilometri di distanza dal gate principale, ma i talebani hanno dimostrato di avere degli infiltrati nella base e delle ottime fonti di notizie riservate. Esattamente come nell’agosto del 2012, quando un razzo colpisce e danneggia il C-17 sul quale, poco dopo, si sarebbe dovuto imbarcare il capo di stato maggiore delle forze armate americane, il generale Martin Dempsey in visita alla base. L’isaf prova a ridimensionare la portata dell’attacco, definendolo un colpo fortunato.

    A parte i sistematici assalti kamikaze alle sue porte e i continui lanci di razzi – compreso quello che ucciderà quattro soldati nel giugno del 2013 – Bagram non ha mai subito attacchi destinati a finire nei libri di storia. È capitato invece a Camp Bastion, una sorta di Bagram (relativamente in piccolo) nella provincia meridionale di Kandahar; base per le truppe americane e per quelle britanniche.

    Dopo aver minacciato – scatenando l’ilarità generale – di colpire il principe Harry, assegnato alla base come pilota di elicotteri d’attacco Apache, in una notte del settembre 2012, e dopo mesi di appostamenti⁷, un commando di quindici talebani – con indosso uniformi americane – riesce a entrare sulla pista d’atterraggio, nella porzione di base assegnata al Third Marine Aircraft Wing, il supporto aereo per i Marines americani nella provincia afghana che aveva dato i natali ai talebani.

    La battaglia va avanti per ore, vengono colpiti hangar, depositi di carburante aeronautico e soprattuto aerei. Un cargo C-130 e sei jet a decollo verticale Harrier vengono distrutti, due seriamente danneggiati. Il peggior colpo all’aviazione americana dai tempi del Vietnam. Oltre agli almeno 200 milioni di dollari di danni, si contano due Marines morti e decine di feriti.

    Un anno dopo, alla fine di un’inchiesta interna sull’attacco a Camp Bastion, due generali dei Marines verranno licenziati per non aver saputo organizzare meglio le difese della base. Una decisione clamorosa quanto l’attacco che verrà ricordato come un monumento a una guerra dove quindici ragazzi armati alla meglio, con indosso uniformi rubate dai camion e rivendute nei mercati pakistani, riescono a mettere in ginocchio una base popolata da 30 mila persone e stipata con ogni genere di arma e mezzo da combattimento moderno.

    Un fronte senza linea

    tv crew, may I take pictures?. Il foglio strappato dal taccuino, svolazza tra le mie dita, il mitragliere riesce a leggerlo e mi fa un cenno di assenso con la testa, coperta dal casco da elicotterista, la visiera scura rende invisibili gli occhi e quasi gli copre la faccia.

    L’Afghanistan che scorre sotto di noi è il Paese più bello del mondo, dal suo catalogo di paesaggi affascinanti, questa volta, tira fuori le montagne. L’imponente catena dell’Hindo Kush ha la forma di un uccello che dispiega le ali al centro del Paese. Ora ne stiamo attraversando la coda diretti a Est, verso il confine pakistano.

    Il Black Hawk della 101ma aviotrasportata è stracarico, sembra un pulmino afghano alle sei di sera, di quelli che partono dalla piazza del Serena Hotel, nel centro di Kabul, e arrivano in periferia, trasportando pendolari, manovali a giornata e studenti. Il caporale al mio fianco ha uno zaino sotto le gambe e una borsa tra la sua testa e quella del vicino. L’equipaggio ha tirato giù le panche di tela e ha messo questo versatile elicottero in modalità trasporto truppe. Di solito la si usa per fulminee avio-incursioni, oggi siamo talmente stipati qui dentro che per scendere bisognerà fare la fila.

    Gli elicotteri in Afghanistan sono sempre troppo pochi, ripetono i militari, come un mantra, ogni volo disponibile è un’occasione da non farsi sfuggire, fino all’ultimo centimetro di spazio.

    Almeno siamo riusciti a lasciare l’irreale baf⁸.

    Gianfranco, l’operatore del tg3, è bloccato nel mezzo della panca lontano dal portellone, non riesce nemmeno a passarmi la sua telecamera. Tiro fuori la mia dalla buffetteria del giubbotto antiproiettile e riprendo questo sinuoso volo con l’elicottero, il pilota è attento a tenersi distante da crinali sospetti e a cambiare il più possibile traiettoria. A questa quota, con le montagne che superano i tremila metri e l’aria tanto rarefatta, i rotori vanno in crisi ed è impossibile volare abbastanza in alto da tenersi a distanza di sicurezza dal possibile fuoco nemico. Per questo si ricorre al volo tattico: traiettorie non lineari, repentini cambi di quota e il tentativo di lasciare al suolo una minima scia acustica evitando che il rumore allerti in anticipo le sentinelle talebane.

    Dopo quasi un’ora le montagne cominciano a scivolare verso una pianura alluvionale dove l’aria di marzo è già calda e il verde dei campi coltivati riflette l’accecante luce del sole.

    Il rumore dell’elicottero ti stordisce e copre ogni altro suono ma quando atterriamo alla fob Naray sembra quasi di sentirle le grida dei soldati che fanno uscire un commilitone, tra zaini rotolanti e corpi in movimento dentro questa scatola volante che meno sta a terra e meglio è per la sopravvivenza di tutti i suoi occupanti. Ogni volta che l’elicottero tocca il suolo, bisogna spostarsi in fretta, fare posto, fare largo, non perdersi i bagagli: l’adrenalina occupa lo stomaco risvegliandoti dallo stordimento dovuto all’aria calda.

    Mentre le tappe continuano, i dolori diminuiscono al diminuire della pressione di tubi delle panche, gomiti, ginocchia, zaini gonfi e appuntiti, fucili d’assalto. Le montagne sono ormai alle spalle, la pianura si consolida all’orizzonte. Il paesaggio ci dice chiaramente che non siamo diretti a Khost, che è invece un groviglio di rocce aguzze e montagne inaccessibili.

    Il volo per jab⁹ era l’unico disponibile e ci ritroviamo nella grande base all’aeroporto di Jalalabad, poco distante dal passo Kyber, la principale porta via terra tra Afghanistan e Pakistan. Da questa base si scatena la superiorità aerea americana ma la guerra si combatte laggiù tra le montagne, che risucchiano uomini e mezzi come fossero un gorgo marino. Per noi Jalalabad è solo una tappa di transito e non c’è che da esserne felici.

    L’orologio segna una rassicurante ora Zulu, l’ora di cena sul meridiano zero, mentre l’ora Local rintocca le tre di notte. La bandiera della Task Force Bayonet aspetta il vento, piegata su se stessa. I nostri passi sulla ghiaia sono pesanti, i talloni si piantano, le caviglie scivolano fino al parcheggio dove i sassi aguzzi, sparsi per difendere piedi e ruote dal fango, sono ancora più grossi e insidiosi. Il sergente grida come se fosse mezzogiorno, la sua voce sovrasta persino i potenti motori diesel accesi a vuoto da incalcolabili minuti. I suoi uomini lo guardano con devozione e fiducia, le uniche cose a cui aggrapparsi prima di una partenza del genere.

    Nel buio di una notte senza luna, le loro figure sono solo delle vaghe ombre rosse; rosse come le lampade attaccate agli elmetti, le uniche ammesse all’aperto in una base a rischio bombardamenti. Illuminano poco ma almeno non offrono punti di riferimento a chi può aver piazzato un mortaio, in alto, sulle montagne di fronte. I mezzi blindati sono freddi come bare, grondano tutta l’umidità della notte. La pianura è così dolce che a tratti ricorda l’India, ma le aspre montagne sono molto vicine e così la temperatura di notte precipita. Ci siamo appena mossi quando il mitragliere del veicolo RG-31 si accovaccia nella sua buca e rientra nel mezzo, dove prima vedevo solo le sue gambe: Signore, se ci attaccano mi passi quelle cassette per favore. Dietro di me, ci sono abbastanza munizioni per sparare ore con il selettore della mitragliatrice calibro 50 in modalità raffica. Decine di cassette.

    Di passaggi in elicottero nemmeno a parlarne, la via di terra è l’unica possibilità di lasciare il brulicante aeroporto di Jalalabad. Il continuo, incessante, ciclo di decolli e atterraggi è tutto dedicato alle operazioni militari – alla guerra che si combatte lì in fondo, tra le montagne – al massimo all’evacuazione medica. Simpatici gli equipaggi del Medevac¹⁰, avevamo passato un pomeriggio con loro. Hanno alloggi a bordo pista, baracche di legno col portico come capanni di pesca nel Sud degli Stati Uniti. Passano il loro tempo ad aspettare una chiamata guardando, al posto del fiume che scorre, i loro elicotteri. Il nemico fa molto bene il suo lavoro mi aveva detto uno dei piloti, digrignando i denti dietro i baffi possenti. Un buon viatico per il nostro viaggio.

    La nostra destinazione è la famigerata provincia di Kunar, il cambio di programma ci era stato comunicato all’arrivo a Jalalabad. Siamo nel cuore dell’Rc-East, il quadrante orientale della missione isaf, lungo la parte più insidiosa del confine pakistano. Qui si concentrano le truppe americane, un posizionamento scelto quando ancora la loro missione doveva servire a catturare Osama Bin Laden e non a fermare una guerriglia diffusa e ben organizzata.

    Il convoglio logistico al quale siamo stati aggregati è composto da almeno sei jingle-truck – enormi Kamaz russi ma nella coloratissima versione pakistana – camion civili che trasportano rifornimenti per conto dell’isaf. Gli americani li chiamano jingle perché le catene di metallo para-ruota e le decorazioni in ferro sopra i festoni di legno suonano come un grande carillon, senza bisogno che nessuno dia loro la carica.

    La scorta è composta da mezzi blindati anti-esplosione, Cougar a sei ruote della famiglia mrap¹¹ che ormai sono standard per gli americani in Iraq – necessari a non morire sventrati da una bomba – ma che in Afghanistan sono ancora merce rara. Su questa rotta, il convoglio è stato già attaccato 16 volte in 10 mesi.

    Quando l’alba scioglie il buio delle notte e lo fa colare a terra, la piana del fiume Kunar comincia a brillare, dorata. Una luce che non abbaglia ma esalta i colori dolci di questa terra: da un lato le montagne maestose, dall’altro il fiume alimentato dai ghiacciai che rende fertili le sue sponde, ricoperte di campi verdi. I bambini lungo il percorso che sorridono e salutano. Sembra una cartolina uscita da un libro di Nancy Dupree sul turismo in Afghanistan. A riportarti alla realtà ci pensano il vetro anti-esplosione che colora tutto di verdastro e il ringhio del motore diesel. Il viaggio dura più di tre ore.

    Il contractor, tratti asiatici forse nepalesi, pantaloni e camicia color sabbia, scende di corsa dalla torretta, spiana il fucile d’assalto e grida a Gianfranco che deve smettere di filmare. Ci siamo fermati alla periferia di Asadabad, capitale della provincia di Kunar.

    I militari del nostro convoglio logistico sembrano formiche giganti, per la velocità e il coordinamento nello scaricare le merci. Sono scesi dai mezzi e stanno facendo il più veloce possibile: i camion non possono entrare nella base, troppo piccola. Non ci sono alternative a consegnare i rifornimenti nel mezzo dello snodo viario principale della provincia di Kunar, la zona dove si combatte di più dell’intero Afghanistan. Circondato da un perimetro di militari, il convoglio è seduto, camion e mezzi non possono muoversi prima che si finisca tutto, sono quindi esposti ad attacchi che, in questo punto, possono arrivare sotto forma di autobomba da almeno tre direzioni, tre strade convergenti.

    La tensione è alle stelle, gli uomini lavorano in coro, mossi più dai nervi che dai muscoli. Quando sono pronti a ripartire, l’apparizione a bassa quota di un elicottero d’attacco Apache, fa capire che la parte più difficile del loro viaggio deve ancora cominciare.

    Le pance dei camion sono piene per lo più di munizioni, parti di ricambio, mrte¹² – razioni da campo – e altre provviste essenziali. Le mense con i frigo pieni di Gatorade, bibite e gelati, i banchi dove abbonda cibo caldo di ogni genere già ad Asadabad sono un ricordo ma di lì a pochi chilometri, per migliaia di militari, non sono altro che un miraggio.

    Sotto il peso degli zaini e degli elmetti ci lasciamo alle spalle il convoglio, e ci inerpichiamo sulla salita che porta agli alloggi, tra pick-up color sabbia che sgommano: inequivocabilmente, mezzi delle forze speciali.

    Siamo pronti a passare settimane in questa base – il prt di Asadabad – dove alla fine trascorreremo solo una notte. I Provincial Reconstruction Team sono gli strumenti della missione isaf per la ricostruzione nel Paese, unità militari che si occupano di ponti, strade, scuole e aiuti alimentari invece che di ammazzare talebani. Una scelta senza precedenti per una missione militare che ha scatenato le polemiche di molte ong e organizzazioni della cooperazione civile perché piega gli aiuti allo sviluppo e quelli umanitari alle esigenze militari. Ma in tante zone dell’Afghanistan remote, inaccessibili o ad alto rischio, è spesso l’unica opzione realizzabile. Se la strategia isaf dei prt premia eserciti come quello italiano, più abituati al rapporto con la popolazione locale, per i militari americani è una rivoluzione.

    Nel 2008 le forze armate di Washington, quelle che forniscono il maggior numero di effettivi per il conflitto afghano, sono ancora solo combat-oriented, salvo alcune eccezioni, sono ancora lontane dal capire come contro la guerriglia non basti solo sparare ma occorra una strategia più globale. Per questo la ricostruzione americana – che in province poverissime come quella di Kunar è piuttosto costruzione da zero – non sempre risponde alle esigenze della popolazione ma ruota intorno al bisogno di strappare manovalanza alla guerriglia e alla necessità di controllo del territorio.

    Quando i romani conquistavano nuove province, costruivano le strade. Anche noi abbiamo fatto così. La mascella del comandate è possente come il suo cognome da guerriero vichingo, William Ostlund. Il tenente colonnello indossa sempre le ginocchiere per essere pronto ad accucciarsi, prendere la mira e sparare su qualsiasi terreno. Comanda i distaccamenti di tutta la valle nella quale stiamo entrando, ormai al calar della notte, ma sembra un soldato come gli altri, un ufficiale pratico, pronto a combattere prima che a far pesare il suo grado. Le sue truppe sono organizzate nelle Task Force Rock emanazione della Task Force Bayonet.

    Il comandante e gli uomini della sua colonna tattica, tre mezzi Humvee e i loro equipaggi, in pratica un comando mobile, appartengono alla 173esima brigata aviotrasportata, normalmente di stanza a Vicenza e in Germania. Una bella dose d’odio ci siamo presi in Italia amareggiato un sottufficiale commenta così le manifestazioni contro l’allargamento della base vicentina.

    Alla fine di un’interminabile e infruttuosa riunione al governatorato provinciale, tra comandanti delle forse di sicurezza locali, militari occidentali, capi dei distretti, anziani e ogni genere di autorità, Ostlund ci aveva avvicinato proponendoci di seguirlo nella vicina valle del fiume Pech. Non ci avevamo pensato due volte. I marinai del prt, con i quali avremmo dovuto passare settimane, ci avevano guardato andare via esterrefatti.

    La strada sulla quale stiamo viaggiando è stata costruita dal prt e consegnata da poche settimane, più per motivi militari che come servizio alla popolazione di un’area dove mancano tutte le infrastrutture essenziali.

    La sterrata di fondovalle che correva lungo il fiume Pech era diventata famosa con il nome di ied alley, il corridoio delle bombe. Sotto la terra smossa dalle ruote dei veicoli era facilissimo nascondere ordigni, cavi e inneschi, altrettanto facile era trovare una pattuglia da colpire.

    Lungo il fiume, gli americani hanno costruito diversi cop¹³, postazioni di combattimento, e il fondovalle è un passaggio obbligato per raggiungerli e per spostarsi alla fob¹⁴ di Camp Blessing.

    La base madre nell’area del Pech, poco distante dal villaggio di Nangalam, è intitolata al sergente Jay A. Blessing morto nel 2003, ucciso su questa sterrata da una ied; uno dei primi a cadere in questo modo in Afghanistan.

    Trasformare il fondovalle in una vera strada asfaltata era una necessità non più rinviabile. Tra l’altro la speranza era quella di creare una ink line, un collegamento non solo fisico ma anche ideale tra queste aree remote e quelle più sviluppate per creare occasioni di commercio, favorendo un nuovo clima tra la popolazione di sostegno alla ricostruzione americana.

    L’aria condizionata nell’Humvee è assordante. Negli Stati Uniti c’è gente pronta a spendere decine di migliaia di dollari per mettersi al volante della versione civile di questo fuoristrada, denominato Hummer, che al suo gemello militare deve le dimensioni fuori-misura e una certa immagine da duri.

    A chi ci viaggia su strade come questa, l’Humvee non evoca però alcun fascino, solo una profonda incertezza. Questo gigante a quattro ruote è stato progettato negli anni ’80 quando ancora si pensava a conflitti per la conquista di territorio non alle guerre di guerriglia. In Iraq le bombe nascoste lungo il ciglio della strada ne hanno fatto a pezzi decine e decine rivelandone tutta l’enorme fragilità. Rilanciate dai video di propaganda della guerriglia, le immagini delle ied che fracassano gli Humvee, uccidono o mutilano i suoi equipaggi porteranno – qualche anno dopo, assieme all’aumento dei prezzi del petrolio – anche al tracollo commerciale della sua versione civile.

    Sono armi terribili e devastanti ma il freddo gergo militare ha scelto per loro l’algido acronimo di ied che sta per Improvised Explosive Device, ordigni esplosivi improvvisati. Una definizione che si applica a quella sconfinata ed eterogenea famiglia di bombe – in continua evoluzione – che la guerriglia ha cominciato massicciamente a usare in Iraq ed ha successivamente esportato e perfezionato in Afghanistan.

    I deserti e le montagne afghane offrivano qualche vantaggio: dopo trent’anni di guerra, quasi in ogni grotta, in ogni avvallamento o cunetta si può trovare un cache, un deposito, piccolo o grande che sia, di armi ed esplosivi: colpi da mortaio, di obice, razzi; materiali in parte pagati dal contribuente americano per sostenere la guerra dei mujaheddin contro i sovietici, in parte provenienti dai depositi abbandonati dall’Armata Rossa al suo ritiro o dal disfacimento dell’esercito regolare filo-comunista. Senza considerare le mine, comprese quelle di fabbricazione italiana. Questo è il Paese dove ne sono state disseminate di più al mondo.

    Con tutti questi esplosivi a disposizione, la macabra fantasia degli esperti arabi e ceceni arrivati dall’Iraq in Afghanistan ha partorito trappole di morte, sempre nuove. Come nel video girato proprio nella provincia di Kunar, su questa strada, dove i talebani mostrano la drammatica trasformazione di una pentola a pressione in un’arma letale e poi il suo interramento.

    Una volta a Herat, un paracadutista guastatore mi ha mostrato il più sorprendente piatto di pressione mai visto, fatto con il tappo di un fustino del detersivo. Gli artificieri della guerriglia riescono a usare qualsiasi oggetto per creare la superficie sulla quale il passaggio di una ruota o il peso di un passo innesca l’esplosione. Ordigni decisamente a basso costo. Se poi c’è da essere precisi e colpire al momento giusto, per fare più morti e più feriti, l’innesco diventa un telefonino che, da lontano, una vedetta fa squillare, attivando così i contatti dell’esplosivo.

    Per una guerriglia che sa di essere militarmente inferiore ai moderni eserciti occidentali e per questo evita lo scontro diretto, in campo aperto, le ied sono diventate l’arma per eccellenza: economiche, facili da produrre e collocare, ma soprattutto letali. Oltre la metà delle perdite occidentali in Afghanistan sono dovute proprio all’esplosione di ied. Centinaia di soldati pesantemente armati, dotati dei migliori equipaggiamenti e altamente addestrati, nella maggior parte dei casi, sono stati uccisi mentre erano seduti nei propri mezzi, senza avere nemmeno la possibilità di reagire.

    Il numero di attacchi con ordigni piazzati lungo le strade è stato di circa 350 nel 2004, ma durante gli anni peggiori del conflitto queste cifre si moltiplicheranno. Nel 2009 si arriverà a ben oltre ottomila¹⁵, sembrava un record storico eppure l’anno dopo le ied esplose, andate a vuoto o ritrovate per tempo arriveranno a quota 14.661¹⁶. Nel luglio del 2011, il picco della stagione dei combattimenti, si arriverà a quasi ottocento attacchi in totale, il massimo mai registrato in un singolo mese¹⁷. Le ied – radio-controllate o meno – non sono una maledizione solo per i militari ma anche per i civili. Negli anni del conflitto saranno la causa principale di vittime innocenti¹⁸.

    Se si considerano i dati netti ovvero solo le ied effettivamente esplose, i numeri non sono non meno impressionante: 7.528 attacchi dal 4 gennaio del 2004 al 31 dicembre del 2009¹⁹.

    Adesso ci hanno dato dei nuovi kit blindati aveva biascicato il mitragliere, un soldato di origini latino-americane, prima di partire. Mi aveva istruito su come passargli le cassette di munizioni in caso d’attacco e io gli avevo risposto con una battuta sulle ied, come dire: mi preoccupo più delle bombe che delle imboscate. Spesso però arrivano insieme: la bomba esplode, meglio se bloccando il primo mezzo, la colonna si ferma e poi parte l’attacco con armi leggere ed rpg. In quel momento la regola d’oro per il convoglio è una sola: uscire dalla kill box, sottrarsi al fuoco nemico il prima possibile.

    Complessivamente gli Stati Uniti spenderanno oltre 18 miliardi di dollari solo per nuovi dispositivi elettronici capaci di individuare le bombe nascoste, cifra che non include gli investimenti per ammodernare gli Humvee e comprare i nuovi mezzi Mrap.

    I kit blindati a cui faceva riferimento il soldato, solitamente, consistono in porte dell’Humvee rinforzate con placche d’acciaio balistico, molto spesse. Sono utili quando il mezzo viene investito da un’onda d’urto carica di schegge ma servono a poco quando l’esplosione si infila sotto il pianale, manda il veicolo per aria, apre un varco nello scafo blindato e lo riempie di fiamme a migliaia di gradi.

    Nella guerra di guerriglia il nemico non vuole sconfiggerti, perché sa bene di non poterlo fare, ma solo infliggere il più alto numero possibile di perdite, limitare la tua libertà di movimento, consumare il tuo tempo e i tuoi mezzi, precipitare la tua opinione pubblica nel dubbio e nello sconforto. La guerra di guerriglia in Iraq come in Afghanistan ha trovato impreparati gli eserciti più equipaggiati del mondo come quello britannico che ha mandato a morire tanti soldati nel deserto dell’Helmand a bordo di cingolati Vikings o delle inadeguate Land Rover Snatch, usate per la guerriglia urbana a Belfast.

    Il parallelismo con i conflitti del passato combattuti in Afghanistan, lascia senza parole. Gli afghani non hanno mai avuto i mezzi, militari e organizzativi, per combattere contro gli eserciti formalmente organizzati, che hanno invaso il loro Paese. Per questo si sono specializzati nelle tattiche di guerriglia, di volta in volta scegliendo un’arma d’elezione. Durante il primo conflitto anglo-afghano, nella prima metà dell’ottocento, si sono affidati al jezail, un fucile artigianale, dalla canna lunghissima e con il tipico calcio ricurvo come l’impugnatura di una pistola; capace di colpire a grande distanza e quindi ideale per le imboscate condotte dai crinali rocciosi contro le truppe che marciavano più in basso²⁰. Contro i sovietici, nel momento in cui il doloroso conflitto sembrava volgere in favore dell’Armata Rossa, almeno in termini di contenimento degli attacchi ribelli, i mujaheddin riescono ad annullare la superiorità aerea russa e quindi a imprimere una svolta alla guerra, grazie allo stinger. Fornito dalla cia, il primo missile spallegiabile a ricerca di calore viene sparato dall’ ingegner Ghaffar – ribelle con un passato di studi a Mosca – il 26 settembre del 1986 all’aeroporto di Jalalabad, vengono distrutti tre Mi-24 obbligando i sovietici a tenere aerei ed elicotteri sempre più lontani dal suolo, rendendoli così molto meno pericolosi²¹.

    Le ied completano questo trittico, contro gli americani e l’isaf gli ordigni improvvisati sono l’equivalente contemporaneo del jezail e dello stinger.

    Se è possibile trovare una differenza tra quelle del passato e la guerra contro gli occidentali, questa sta nei soldi dell’oppio che consentiranno di tenere il passo della tecnologia straniera. Alla crescita delle blindature degli anni successivi corrisponderà, infatti, una proporzionale crescita del numero e della potenza degli ordigni.

    Bombe che si riempiono di chiodi e pezzi di metallo per essere più letali; mine a carica cava che proiettano fuoco in una direzione ben precisa; ordigni alimentati dal nitrato d’ammonio – un banale fertilizzante di cui il governo afghano proverà persino a bloccarne l’importazione dal Pakistan – per avere più potenza e creare ordigni invisibili ai metal-detector. Gli Stati Uniti ricorreranno non solo ai palloni aerostatici ma persino agli aerei spia d’alta quota, quelli dei tempi della guerra fredda, per tentare di fermare la semina delle bombe²². Intanto più si inspessiscono le protezioni d’acciaio, più aumenta la distanza tra gli americani (gli stranieri) e la popolazione che dovrebbero difendere.

    Sono questi pensieri poco confortanti che mi fanno compagnia tra gli scossoni del veicolo, mentre nelle cuffie gli equipaggi si danno istruzioni. Il sergente maggiore ricorda al conducente del mezzo di testa: Attenzione alla prossima curva: è una curva cieca. Qui ci hanno attaccato il mese scorso, prima con una ied poi sparandoci. Roger thatRicevuto risponde il driver.

    Aguzze montagne assediano da entrambi i lati la valle del fiume Pech, che, nei millenni, si è fatto largo con la forza dell’acqua, stretta tra questi oppressivi giganti di roccia. Il sole avrebbe ancora voglia di brillare sulla valle ma quando scavalca la linea delle alte creste, la sua luce viene come assorbita. Per un po’ il cielo resta illuminato di un celeste cupo che rende lucido il nero delle montagne, della loro pietra che diventa onice.

    Clack! È secco lo scatto dei visori notturni, i militari li innestano come baionette sulla slitta nella parte frontale dell’elmetto, poi se li calano sugli occhi. Ormai anche il cielo ha smesso di brillare d’azzurro e fuori il buio è totale.

    Chi vive in Occidente, perde l’idea di cosa sia davvero l’oscurità, al massimo la associa con una stanza dove si fatica a trovare l’interruttore della luce. Ma l’abbondanza di luci, dalle case, dalle strade, dalle insegne, stinge persino il buio del cielo notturno, quello che ora invece incombe su di noi.

    Nell’impervia valle del Pech, la popolazione è scarsa, le case sono poche e concentrate in villaggi ben delimitati; la corrente elettrica un miraggio.

    A parte le basi militari alimentate da enormi generatori – comunque tenute al buio di notte per evitare attacchi – le rare abitazioni che hanno la luce elettrica sono servite dai micro-hydro, dei piccoli impianti dove la forza dell’acqua genera corrente o da altrettanto piccoli gruppi elettrogeni a gasolio.

    È per questo che, durante l’ora e mezza di viaggio verso Camp Blessing – quando la strada non era asfaltata ce ne volevano ben quattro – sembra di navigare nell’inchiostro di seppia, i segni di luce sono rarissimi: di finestre illuminate da una lampadina tremolante ne avrò contate non più di quattro.

    Quando il buio è totale, l’occhio comincia a differenziare i toni di nero e di blu. Nelle sue sfumature l’oscurità descrive il paesaggio: il cielo, le rocce, le pieghe nella montagna, il fiume.

    Un fiamma fioca lascia una bava di luce sul vetro blindato. A fatica si compone l’immagine: il volto di un anziano è illuminato a intermittenza da un piccolo fornello, la fiamma oscilla al vento ed è più in alto del nostro veicolo. L’uomo è un camionista che arriva dal Pakistan e l’oscurità l’ha fermato: viaggiare di notte per lui sarebbe un suicidio.

    Sull’alto pianale del suo jingle truck, ormai vuoto dopo aver scaricato container di rifornimenti forse proprio a Blessing, l’autista si è accovacciato a farsi un tè caldo; l’aria è diventata all’improvviso pungente, dopo il tramonto del caldo sole di marzo.

    Mentre apriamo le porte degli Humvee, un boato feroce rimbalza sul petto e sovrasta il rumore dei motori. Più in basso una lama di luce squarcia la tela buia della notte. Un enorme cannone Howitzer da 155 millimetri fa risuonare l’intera valle, è il cupo grido di guerra degli americani.

    Nei giorni successivi capiremo che l’artiglieria pesante è chiamata a sparare più volte al giorno, tra attacchi alle fob e imboscate alle pattuglie. L’artiglieria campale è roba da guerra tradizionale, scontro tra eserciti organizzati che avanzano sul territorio, ma in queste valli torna molto utile: quando le basi e le pattuglie sono sotto attacco, ci può volere anche un’ora prima di vedere sopra le teste dei soldati un elicottero o un jet per tirarli fuori dai guai; questo enorme cannone invece è pronto a sparare in qualche minuto ed ha un raggio di molti chilometri.

    Siamo arrivati alla base e ne stiamo calpestando il terreno scosceso, guidati dai piccoli cerchi rossi delle torce, le uniche ammesse al di qua del filo spinato. Camp Blessing è aggrappata al fianco della montagna per dominare la valle, scende su diversi gradoni fino all’eliporto e al recinto dell’artiglieria.

    Più in alto, di fronte a noi, una porta ondeggia e lascia trafilare della luce bianca, è il comando con i vetri delle finestre oscurati. Sullo stesso livello le docce e i bagni con il pavimento di cemento, la spoglia mensa resa ancora più squallida dai neon. Nella notte si intravede il grappolo di vecchie case trasformate nel cuore della base, ci toccano un paio di brande di tela in una stanza umida ma con le pareti spesse, quindi ben protetta dai colpi di mortaio in arrivo. Possiamo sistemarci, mentre arrivano due soldati in transito e si sistemano di fronte a noi. Arrivano da una missione in qualche cop isolato e stanno tornando alla loro base. Appartengono a un’unità cinofila, i loro sembrano cani anti-bomba. Tutti e quattro sono stati lontani dall’acqua troppo a lungo, lo stesso vale purtroppo anche per noi: giubbotti antiproiettile fradici di sudore; pantaloni intrisi di polvere; l’odore di cordite e quello del metallo delle armi; i pesanti anfibi finalmente slacciati, a terra; la plastica della telecamera e dei computer limata dalla sabbia; i sacchi a pelo impastati da un’umidità che sa di muffa; il pelo dei cani che si agitano intorno a un paio di scatolette dal contenuto indecifrabile. Esco fuori al buio, dalla vetta della montagna scende una brezza gentile che mi riempie le narici, sa di fresca primavera, di muschio giovane sulle rocce, cresciuto dopo la neve dell’inverno.

    Ma è solo un’illusione, una pericolosa distrazione. Torno dentro e mi rituffo nella puzza della guerra, l’unica normalità rimasta a questa valle, è bene ricordarselo perché qui ogni distrazione può essere l’ultima.

    fig%204%20Vi-%20provinciaKunar%202.jpg

    Mappa della provincia di Kunar

    Fonte: www.humanitarianresponse.info/sites/www.humanitarianresponse.info/files/Kunar.pdf

    Korengali

    Il transito dei miliziani da basi oltre confine (santuari protetti da governi locali) v erso il campo di battaglia è un problema di quasi ogni guerra di guerriglia. In Afghanistan, complice il terreno e una labile frontiera, è diventato un’ossessione, prima per i sovietici poi per gli americani.

    Durante il conflitto degli anni 80’ i mujaheddin facevano base a Peshawar, protetti e riforniti dal governo pakistano e dagli americani. Dai loro campi d’addestramento partivano per muovere attacchi in Afghanistan e poi ci ritornavano, al riparo dalle rappresaglie sovietiche le cui truppe non potevano sconfinare per evitare che il conflitto si estendesse ulteriormente.

    La variegata guerriglia anti-americana ha seguito la stessa lezione rifugiandosi, con gli uomini di Al Qaeda, nelle aree tribali pakistane, zone solo formalmente controllate dal governo di Islamabad. In realtà a guardarlo dall’elicottero il confine tra i due Paesi è come una linea disegnata sulla spiaggia, nel punto in cui battono le onde. Passa tra le montagne senza un solo punto di riferimento a cui aggrappare lo sguardo: un fiume, una cima, un vallone. A poco servono quei numeri composti con delle pietre dipinte di bianco che,

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1