Vassilissa
Di Luca Svetina
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Anteprima del libro
Vassilissa - Luca Svetina
dall'autore.
Presentazione
Il libro
Quando gli abitanti del suo villaggio natale in Bosnia cominciano a morire per una misteriosa malattia, il professor Vladimir Stacenko non può evitare di far ritorno a casa, abbandonando la vita tranquilla e regolare che gli garantisce la sua cattedra di antropologia presso l'università di Zagabria.
Tra le persone infettate c’è anche sua sorella, rimasta ad accudire l’anziana madre e ad occuparsi della fattoria e dei terreni della famiglia. La sua mente sconvolta è dominata dalla presenza di una donna misteriosa, che sembra uscita dalle pagine dell’antica fiaba russa, che ossessionava Stacenko da bambino.
Il professore si ritrova così a confrontarsi con orrori generati da antiche leggende e superstizioni della sua terra, combattuto tra le certezze della logica e della ragione e gli insegnamenti trasmessi attraverso miti e credenze, antichi quanto l'uomo.
Quella che sembrava essere solo una strana epidemia, potrebbe rivelarsi il risultato dell’attacco di un gruppo di creature simili all’uomo, che infestano i ruderi di una fortezza abbandonata.
Il suo impegno per salvare la sorella e allontanare la minaccia dalla sua terra, lo condurrà ad affrontare una lotta dall’esito incerto in compagnia di un vecchio amico e a compiere delle scelte drammatiche, che cambieranno per sempre la sua vita.
L’autore
Luca Svetina è nato a Trieste, città da sempre crocevia di traffici e migrazioni, come testimonia il crogiolo di razze e religioni che compone la sua variegata popolazione. I nonni materni erano immigrati meridionali, attratti dalle prospettive di lavoro offerte dalla Ferriera di Servola, un complesso industriale specializzato nella produzione di ghisa, mentre quelli paterni erano contadini istriani venuti a cercare occupazione presso i cantieri navali, nel commercio e nella ristorazione.
Al seguito del padre, impiegato prima come geometra e in seguito come direttore di cantieri presso varie società di costruzioni, la famiglia di Luca ha percorso l’Italia, dalla Puglia, al Friuli, al Piemonte. Trasferitosi a Trieste per frequentare l’università e ritrovare le proprie radici storiche e culturali, si è laureato in fisica con una specializzazione in astrofisica. Sempre alla ricerca di nuove esperienze, ha svolto diversi lavori prima di essere assunto da una grande società informatica di Trieste, dove attualmente si occupa di sistemi e servizi per la pubblica amministrazione.
Gli esordi della sua attività di autore risalgono al 2016, quando inizia a costruire la trama di una storia dove un conflitto segreto vede contrapposti gli immortali dell'Ordine, altrimenti noti come gli Antichi e gli incantatori della Congrega.
Un nutrito gruppo di personaggi, appartenenti ad entrambe le fazioni, intreccia le proprie vicende con quelle degli esseri umani, vittime e strumenti di entrambi gli schieramenti. Ma poco alla volta le cose iniziano a cambiare, quando alcuni membri dell'Ordine e della Congrega, traditi dai propri confratelli, decidono di schierarsi dalla parte degli uomini.
Dello stesso autore
L’ultimo Talismano
Prefazione
Poche righe per fornire al lettore gli spunti da cui sono partito per costruire le ambientazioni che troverete in questo libro. Voglio puntualizzare che si tratta soprattutto di un romanzo di avventura, sebbene non manchino molti elementi provenienti da un’attenta ricerca storica; la libera interpretazione dei fatti nasce quindi sia dalla presenza di zone d’ombra all’interno delle vicende storiche prese in esame, in alcuni casi veri e propri gialli ancora da indagare, sia dalla necessità di far interagire i personaggi all’interno di un contesto che non presentasse incongruenze o forzature.
Mappe, articoli, descrizioni e foto, tutti reperibili su internet, mi hanno permesso di visualizzare i luoghi in cui ho ambientato le varie parti della storia e che per motivi pratici e logistici non ho potuto visitare di persona. Se qualcuno fosse interessato a questo materiale, potrà contattarmi e sarò lieto di condividerlo.
Gli eventi presenti nel libro sono antecedenti a quelli raccontati nel romanzo L’ultimo Talismano
e ne costituiscono un ideale preludio. Il proposito è quello di raggruppare, all’interno della collana Radici di sangue
, una serie di storie che facciano da antefatto e spieghino alcuni riferimenti che, per non rendere la storia troppo confusa e frammentaria, era stati in precedenza semplicemente accennati.
PARTE PRIMA
Vassilissa la Bella è più di una fiaba russa,
è un mito che porta con sé
il buio e la luce, la morte e la vita,
le ossa dei defunti e la carne dei viventi.
Nelle molte versioni della tradizione popolare
spesso il finale rimane nebuloso, incompleto,
come se la protagonista, dopo aver sconfitto
la crudele matrigna e le sorellastre, si dissolvesse
nella rarefatta materia che plasma i nostri sogni.
CAPITOLO I
Erano le prime giornate di settembre, quando il caldo afoso dell’estate iniziava a far posto alle piogge battenti, che allagavano la terra riarsa nei campi di stoppie e lasciavano presagire l’arrivo imminente di un altro rigido inverno. Il panorama conservava il proprio aspetto selvaggio, appena oltre i confini delle poche aree coltivate, in quello che oggi è il territorio settentrionale della Bosnia Erzegovina; allora la zona faceva ancora parte della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, governata con mano salda ma giusta, come affermava la propaganda interna, da Josip Broz Tito, soldato, rivoluzionario e dittatore illuminato.
Solo un anno era trascorso dalla Primavera croata, il movimento riformista nato nel 1971 e ispirato dal crescente liberalismo degli anni Sessanta, divenuto in breve portatore di istanze nazionaliste sfociate in fortissime tensioni fra croati e serbi. Quando le manifestazioni di massa, che contestavano la posizione del popolo croato nella Jugoslavia, avevano iniziato a minacciare il monopolio politico del partito, era scattata una ferma e immediata repressione da parte di Tito, che aveva impiegato l'esercito e la polizia per distruggere quella minaccia al sistema comunista e alla stessa integrità dello stato jugoslavo.
L'uomo dalla corporatura massiccia scese dal vecchio autocarro, con cui aveva percorso gli ultimi chilometri del suo viaggio lungo l’unica strada polverosa e dall’asfalto crepato, che raggiungeva quei luoghi solitari e dimenticati dai piani economici e politici del governo. Non si era mai interessato alla politica e preferiva non assumere alcuna posizione rispetto ai metodi autoritari e spesso brutali, con cui l’esercito della federazione socialista impediva che il paese si disintegrasse, in seguito alle tensioni etniche e religiose.
Era uno studioso e i suoi unici interessi vertevano sulle ricerche che portava avanti presso l’università di Zagabria, dove insegnava; la frequentazione degli ambienti intellettuali non l’aveva convinto a schierarsi e preferiva non bazzicare le sedi del partito, poco interessato a favorire con appoggi clientelari la propria carriera accademica e a rimanere invischiato in tutti i giochi di potere che, in quell’ambiente, conducevano rapidamente verso il rettorato, ma altrettanto rapidamente verso l’esilio o peggio, ai campi di prigionia per i dissidenti politici.
Ringraziò l'autista per il passaggio, ricevendo come risposta solo un cenno attraverso il finestrino della rozza mano da contadino, così simile alla sua, mentre il mezzo ripartiva in una nuvola di fumo nerastro e puzzolente di gasolio. Rimase a fissare il furgone sgangherato che si allontanava sobbalzando lungo la strada dissestata, fino a quando non scomparve dietro una curva; poi abbandonò la via principale, per imboccare il sentiero che attraversava un campo recintato con pali sghembi e filo spinato arrugginito, in fondo al quale sorgeva la casa colonica a due piani dipinta di un giallo smorto, appena visibile in lontananza, tra le brume che essudavano dal terreno fradicio.
Mentre a passi lenti si avvicinava all’edificio, scansando le pozzanghere più grandi e cercando di non calpestare il viscido fango argilloso con le scarpe da città che ancora indossava, aveva cominciato a notare i segni del tempo e dell’abbandono; la casa assomigliava ancora all’immagine gelosamente custodita nei ricordi, ma i dettagli catalogati nella sua memoria con nitida precisione, quei particolari amati e odiati, rimasti immutati dalla sua partenza e creduti inalterabili, erano stati modificati dagli anni, come rughe su un volto scavato dalla storia.
L'intonaco si era scrostato in più punti ed era stato polverizzato dalle intemperie, scoprendo la pietra grezza degli spessi muri esterni; lunghe crepe si arrampicavano come viticci morti dalla copertura della veranda, sino a raggiungere il tetto di tegole. Il tubo della grondaia era stato malamente rabberciato in più punti e terminava tra gli steli disseccati di un giardino trascurato; quella visione gli ricordò i cespugli fioriti, che in primavera si riempivano di un’esplosione di corolle profumate e di cui la mancanza di cure e attenzioni aveva cancellato ogni traccia.
Nessuno venne ad accoglierlo ma questo era prevedibile: aveva volutamente evitato di contattare la propria famiglia, con il preciso scopo di rendere quell’arrivo inatteso; inoltre i pali della linea telefonica si arrestavano a qualche chilometro di distanza e nessuno sembrava intenzionato a collegare le fattorie sparpagliate, disseminate nella valle, con il resto del mondo.
Per comunicare con i parenti lontani, gli abitanti del luogo dovevano raggiungere il villaggio di Vranjska, distante una decina di chilometri dall’anonimo agglomerato di fattorie, ed utilizzare il telefono dell’ufficio postale, oppure l’apparecchio a gettoni dell’unico bar. Dovette bussare alla porta con insistenza prima che qualcuno venisse ad aprirgli, tanto che temette di aver atteso troppo e di trovare la fattoria abbandonata.
- Maika! - esclamò con voce rotta dall’emozione, quando vide l'anziana donna comparsa sulla soglia, che lo osservava strizzando gli occhi, come se la sua debole vista faticasse a riconoscerlo.
- Vlad, moj sin, sei venuto dunque! - Abbracciando sua madre, sentì il corpo fragile e smagrito di lei che tremava per l’emozione sotto gli abiti pesanti; la ricordava come una robusta contadina dalle braccia forti che lo strappava di peso fuori dal letto, quando non voleva andare a scuola, per poi andare ad occuparsi degli animali e dell’orto. Ora, dopo quasi dieci anni di assenza, la ritrovava come una vecchia consumata da un male oscuro: eppure, al di là del decadimento fisico, dietro le rughe di una precoce canizie, era sempre sua madre.
Il flebile suono della voce infiacchita lo sorprese e lo rattristò più di ogni altra cosa, ma si sforzò di nascondere l'ansia che provava e le sorrise con calore. Non se la sentiva di nascondere il motivo che l’aveva spinto a quell’improvviso ritorno a casa, così dimenticò tutte le frasi gentili e di rito che aveva preparato durante il viaggio e lasciò uscire la domanda che attendeva smaniosa sulle sue labbra.
- Come sta Jelena? - la profonda sofferenza che vide dipingersi negli occhi della donna rafforzò il proposito che l’aveva riportato nei luoghi della sua infanzia, così cari eppure così estranei. Il tempo che vi aveva trascorso sembrava appartenere alla storia di un altro, nota ma non vissuta. Tutto sembrava cambiato, oppure era solo lui che si era trasformato in qualcuno che assomigliava solo superficialmente alla persona che aveva vissuto in quella casa, che era cresciuta tra quelle mura.
- Siromašne djece! Tua sorella ci sta lasciando e non c'è niente che possiamo fare per impedirlo. Dopo che avremo sepolto lei, toccherà a qualcun altro, sino a quando non saranno morti anche quei pochi, che ancora non hanno trovato il coraggio di lasciare le fattorie. Un destino migliore di essere trasformati in schiavi per il suo piacere.
Vladimir guardò la madre con tenerezza, ma dentro di sé sentiva il peso di una rabbiosa disapprovazione; era stato anche per sfuggire all’arretratezza e alla rassegnazione, che impoverivano lo spirito di quelle persone, che si era impegnato così tanto per fuggire verso la civiltà e il progresso, verso la seduzione del successo.
- Sei sempre convinta che la colpa di tutto ciò che vi succede sia del demone che vive tra i ruderi della Tvrdjava Vampira? Solo un contadino ignorante potrebbe credere a simili sciocchezze!
Le parole offensive gli erano uscite di getto e si morse la lingua l’istante dopo averle pronunciate, ma era troppo tardi per pentirsi di ciò che aveva detto. Le tradizioni, le leggende, erano parte della cultura popolare di quei luoghi e in quanto antropologo ed esperto di mitologia e religioni, avrebbe dovuto comprenderlo meglio di chiunque altro. Non sempre era facile applicare alle situazioni personali, specie se complicate da drammi familiari, gli stessi criteri adottati nelle ricerche portate avanti tra culture estranee, tra popolazioni appartenenti a remote etnie.
Eppure, anche lui era cresciuto all’ombra di quelle credenze e la sua fantasia infantile si era nutrita dei racconti, che sgorgavano dal fertile terreno dei miti. Rinnegare completamente le proprie radici avrebbe significato tradire la propria cultura, mentre invece in quella circostanza avrebbe dovuto imparare a servirsene.
Si era espresso con durezza eccessiva anche per convincere la donna che non prestava alcuna fede a quelle vecchie storie per bambini, affinché non sospettasse di nulla. Non voleva che venisse a conoscenza delle sue vere intenzioni: se fosse stata sotto il controllo di qualcuno senza averne consapevolezza, avrebbe potuto rivelare il suo piano decretandone il fallimento. Nel migliore dei casi, avrebbe fatto di tutto per trattenerlo, per impedirgli di affrontare la morte certa cui le sue paure destinavano chiunque sfidasse gli abitatori della Tvrdjava Vampira.
Da sempre era a conoscenza del fatto che ogni leggenda custodisse un nucleo di terribile realtà e nei suoi studi aveva trovato una conferma oggettiva di quell’intuizione. Trattare sua madre con sufficienza e disprezzo era doloroso, ma lo giustificava ripetendosi che stava compiendo tutti i passi necessari a proteggerla: la cosa più importante era garantire la sicurezza della propria famiglia. Prima che fosse troppo tardi, gli venne da pensare,