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Imparare a sparare: Vita di Vladimir Ze'ev Jabotinsky
Imparare a sparare: Vita di Vladimir Ze'ev Jabotinsky
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Imparare a sparare: Vita di Vladimir Ze'ev Jabotinsky

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Una delle personalità ebraiche più note e famose del secolo passato, vero fondatore dello Stato di Israele e strenuo sostenitore di una visione laica dell'identità religiosa, Vladimir Ze'ev Jabotinsky è legato all'Italia (dove studiò negli anni giovanili). Una biografia per capire Israele e il Novecento.
LinguaItaliano
Data di uscita18 dic 2017
ISBN9788827536476
Imparare a sparare: Vita di Vladimir Ze'ev Jabotinsky

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    Anteprima del libro

    Imparare a sparare - Vincenzo Pinto

    Jabotinsky

    Capitolo I

    Un esperimento di cosmopolis? L’Odessa ebraica di fine secolo

    Nel dedicare al conte Giuseppe Primoli il proprio romanzo Cosmopolis (1892), lo scrittore francese Paul Bourget fornì questa vivida descrizione della società cosmopolita di fine Ottocento:

    L’esistenza del Cosmopolita può celare tutto sotto il lusso consueto del suo capriccio: dallo snobismo in cerca di relazioni più alte, fino alla ruberia in cerca di furti più facili, passando per le brillanti frivolezze dello sport, i cupi intrighi della politica, – o la tristezza di un destino fallito. Una siffatta varietà di cause rende talvolta attraentissimo e quasi inconseguibile il compito del romanziere che prende a modello questa mobile società, tanto simile a se stessa nei riti esteriori della sua eleganza, tanto veramente, tanto intimamente complessa e composita nei suoi elementi fondamentali. Lo scrittore si trova perciò ridotto a prendere una serie di casi particolari, come ho fatto io, e tenta di districare da quelli una legge che li domina. Questa legge, nel libro presente, è la permanenza della razza. Per quanto questo risultato possa apparire contraddittorio, più si frequenta i Cosmopoliti, più si verifica che il carattere maggiormente irriduttibile [sic] in essi è questa forza speciale dell’ereditarietà che sonnecchia sotto la monotonia uniforme dei rapporti superficiali, pronta a svegliarsi appena la passione agiti l’imo fondo del temperamento¹.

    Odessa, il luogo natio di Vladimir Ze’ev Jabotinsky, era una città particolare, forse unica nel suo genere. Creata a fine Settecento per volere della zarina Caterina II, il porto sul Mar Nero divenne ben presto qualcosa di più che un mero «esperimento illuministico». Ragioni politiche, militari, urbanistiche ed estetiche la resero un laboratorio privilegiato per valutare la convivenza tra le diverse etnie dell’Europa levantina. La tolleranza religiosa promessa dal governo russo a tutti gli immigranti non aveva soltanto motivazioni economiche (favorire il commercio della Russia con l’area mediterranea): la maggioranza dei coloni era composta da ex soggetti turchi che, preservando le proprie identità culturali, si auspicava avrebbero difeso la frontiera contro le eventuali rivendicazioni ottomane. Odessa fu edificata e immaginata grazie al fondamentale supporto di figure europee a un tempo atipiche ed emblematiche di un’intera epoca: dopo due architetti (il soldato di ventura di origini catalane de Ribas e l’ingegnere olandese de Voland) fu la volta del duca francese émigré Emmanuel de Richelieu, personaggio che ispirò il Don Juan di Byron, nominato nel 1805 dallo zar Alessandro I governatore generale delle tre province della Nuova Russia (corrispondenti all’attuale Moldova e al Mezzogiorno ucraino).

    Il principale compito di Richelieu quale governatore delle province della Nuova Russia fu spiegato dettagliatamente nel mandato dell’imperatore: «cercare di incrementare la popolazione estendendo gli incentivi e i privilegi agli stranieri»². Il flusso di immigranti si divideva in due correnti principali: quella degli «interni», provenienti da altre zone dell’impero russo, e degli stranieri; quella delle persone attratte da altri territori dell’Europa mediterranea e del Levante. Entrambi i gruppi contribuirono a fornire a questa regione quella straordinaria mistura di nazionalità, di lingue e di religioni che avrebbero marcato indelebilmente la storia di Odessa.  Il progetto politico di Richelieu, proseguito dai suoi successori (Langeron e Vorontsov), andava ben oltre la semplice costruzione di una nuova città mercantile che attraesse i membri di diverse etnie alla ricerca del facile arricchimento e della tolleranza religiosa. La nuova città di frontiera proponeva l’esperimento di un vero e proprio melting pot statunitense che armonizzasse le differenze sotto la bandiera del dispotismo illuminato e liberale russo. La ginestra sul Mar Nero divenne ben presto un fecondo centro culturale: teatri, biblioteche, lo stesso Liceo Richelieu donarono lustro e rinomanza alla città del libero commercio.

    Nel corso dell’Ottocento la città di Odessa conobbe una fioritura senza eguali. La popolazione, inizialmente composta esclusivamente da soldati e da mercanti greci, si differenziò e si decuplicò nel corso di pochi decenni. Greci, italiani, ebrei, armeni, russi e slavi convivevano a stretto contatto, occupando ognuno un proprio spazio fisico, economico e culturale all’interno della cosmopolis sul Mar Nero. Malgrado o, forse, grazie ai fermenti culturali della città, le diverse comunità etniche resistettero all’«assimilazione». Centro di irradiazione di diverse tendenze spirituali e politiche, la mistura culturale non favorì un fronte unitario e politico effettivo che trascendesse gli interessi particolaristici in direzione di una identità condivisa, della «odessità». Un testimone ottocentesco osservò infatti:

    Il carattere eterogeneo della popolazione può forse influire sulla mancanza più che comune di spirito pubblico³.

    Dopo gli slavi, gli ebrei divennero ben presto la seconda componente principale della popolazione odessita, scalzando i greci e gli italiani. Gli anni Cinquanta dell’Ottocento rappresentarono indiscutibilmente il decennio d’oro ebraico: la partecipazione alla vita sociale, politica e culturale della città fu senza eguali. «Odessa divenne rapidamente il centro delle istituzioni ebraiche progressiste di maggior successo della Zona [di Residenza]»⁴. Nel 1863 un console francese azzardò il giudizio che gli ebrei odessiti si fossero liberati dalla «morale del ghetto» in cui erano confinati negli altri territori dell’impero russo⁵. Il progetto culturale dell’haskalah (illuminismo ebraico) fu portato avanti attraverso la costituzione di moderne scuole ebraiche, aperte a insegnamenti secolari, che indicavano un orientamento educativo ricettivo delle necessità pratiche del mondo del lavoro⁶. Ma è importante non dimenticare che il dilemma tra assimilazione e acculturazione proprio dell’ebraismo orientale riguardava per lo più una ristretta minoranza dell’élite commerciale e intellettuale odessita. Sia la critica assimilata sia quella illuministica alla «morale del ghetto» era accomunata dalla convinzione che la Russia di Alessandro II (1855-1881) stesse avanzando inesorabilmente verso il liberalismo dei diritti e della tolleranza etnica, sociale e religiosa⁷.

    La situazione si deteriorò soltanto nel corso dei decenni successivi, segnatamente a partire dal pogrom del 1871, che indusse la comunità ebraica locale a un generale ripensamento del proprio progetto culturale e politico. L’intellighenzia ebraica odessita cominciò a riflettere sul valore dell’etica del progresso, dell’illuminismo e della modernizzazione precedentemente sostenuti quale viatico alla salvaguardia dell’identità culturale e dell’integrità fisica. Alcuni non si limitarono a rigettare l’acculturazione, ma – recependo il messaggio di Bazarov, protagonista del romanzo Padri e figli di Ivan Turgenev – si rivolsero al materialismo e al nichilismo (il caso più emblematico è sicuramente quello di Moshe Leib Lilienblum)⁸. Altri ritennero che il processo di russificazione e quello di modernizzazione dovessero essere accelerati⁹. Quanto più rapido, però, procedeva il processo di russificazione, tanto minore diventava la fiducia da parte dei suoi alfieri che la strada verso la modernizzazione avrebbe avuto successo. La distanza tra la comunità ebraica e le altre andava progressivamente aumentando, malgrado la crescente partecipazione alle istituzioni cittadine. Ne è una dimostrazione non tanto la chiusura della sede locale dell’ORPE (Società per la promozione dell’illuminismo tra gli ebrei) avvenuta nel 1872, quanto la sua riapertura sei anni dopo sulla base di un programma culturale decisamente più modesto (un ruolo di primo piano era rivestito dalle attività filantropiche)¹⁰.

    Il ciclo economico sfavorevole, che contribuì al relativo declino commerciale di Odessa e all’ascesa di altre città russe, e il montare dei disordini popolari contro gli ebrei (i pogrom) susseguenti all’assassinio dello zar Alessandro II nel 1881, determinarono una svolta decisiva nell’esistenza della comunità ebraica locale¹¹. L’implicazione politica delle cosiddette leggi di maggio promulgate dal ministro Ignatev nel 1882, che proibivano gli insediamenti ebraici nei villaggi e nelle zone rurali, era piuttosto chiara: gli ebrei andavano considerati cittadini di seconda classe. Molti decisero di lasciare la Russia per l’Occidente oppure – come nel caso dei professionisti e degli intellettuali – si trasferirono in altre città ritenute meno oppressive (vedi San Pietroburgo). La maggioranza, composta di proletari, piccoli e grandi borghesi, continuò a vivere nella secolare indifferenza verso il mondo esterno. Fu proprio questo clima di riflusso e di sfiducia nelle idee e nelle ideologie, di qualunque risma esse fossero, che diede i natali al nazionalismo ebraico territorialista dei Chovevé Zion (Amanti di Sion), l’antesignano del sionismo, segnatamente nelle persone di Peretz Smolenskyn, l’alacre moralista anti-illuministico emigrato a Vienna¹², del citato Lilienblum, del medico russificato Leon Pinsker, autore del famoso opuscolo edito a Berlino Autoemanzipation! (Autoemancipazione, 1882)¹³, e di Achad Ha’am (pseudonimo di Asher Ginzberg)¹⁴.

    L’esperimento della cosmopolis illuminista era dunque fallito? Oppure si era paradossalmente realizzato proprio nella consapevolezza della separazione etnica? Le parole di Bourget, abile indagatore delle contraddizioni psicologiche della condizione umana del lungo fine secolo, sembrano negare l’idea medesima di assimilazione quale frutto della scelta obbligata a favore dell’identità maggioritaria e locale¹⁵. Tertium non datur: «la legge della permanenza della razza» sembrava assurgere a unica e irriducibile alternativa tra l’essere e il nulla. «Separati ma eguali», per riprendere la famosa espressione del testo costituzionale statunitense, potrebbe essere il motto che meglio si addice a designare la realtà odessita multi-etnica di fine Ottocento. Lo stesso Jabotinsky ci fornisce una testimonianza – va detto posteriore (successiva alla conversione al credo sionista) – alquanto significativa nelle sue Memorie del mio dattilografo:

    La connotazione ebraica dei miei concittadini era un insulto: Una città ladrona. Ma questo va inteso filosoficamente. Nessuno probabilmente intendeva dire che noi fossimo tutti ladri nel senso di borsaioli (sebbene questa professione fiorisse tra di noi). La parola ladro in yiddish (ganev) ha un significato assai più profondo. Essa caratterizzava una persona che ti avrebbe ingannato prima che tu potessi ingannarlo – in breve, pratico, scaltro, un imbroglione, un manipolatore, un intrigante, un uomo ingenuo, un buffone, un esageratore, uno speculatore – ma lo diceva in breve. Molti lettori penseranno che tutti questi non siano complimenti, ma io penso che lo siano, e in questo senso io sostengo la connotazione ebraica della mia città natale.

    Anche se era una città della Russia e alla mia epoca era molto russificata nella lingua, Odessa non era veramente russa. Non era neanche ebraica, anche se gli ebrei erano probabilmente la comunità etnica più popolosa, specialmente ove si consideri che metà dei cosiddetti russi erano ucraini, un popolo così differente dai russi come gli americani dai britannici, o gli inglesi dagli irlandesi. [...] A Odessa chiunque si sentiva odessita e chiunque fosse letterato leggeva gli stessi giornali e rifletteva sugli stessi problemi russi. E così il greco, il polacco, l’ebreo e il russo svilupparono tutti quella stessa uniforme e unica psicologia cui mi sono riferito sopra in breve¹⁶.

    Era questa assimilazione? Sì e no, risponde l’autore. Jabotinsky continua descrivendo lo spettro multi-etnico della sua classe di ginnasio (ben undici nazionalità!), e rimarca la totale assenza di coscienza nazionale tra gli ebrei – e non solo. Tra i suoi compagni mancava qualsiasi riferimento all’ebraismo che non fosse ritualistico o formalistico; mancava – per dirla in termini nietzschiani – di una vitale accettazione. Ma – fatto importante – non si poteva parlare di assimilazione nel senso occidentale e corrente del termine:

    Ma, allo stesso tempo, noi tutti vivevamo in gruppi nazionali rigidamente separati, specialmente noi ebrei. Senza propaganda e ideologia, noi dieci ebrei eravamo soliti sederci in una fila di banchi nella classe, uno a fianco dell’altro. [...]  Eravamo piuttosto amichevoli con i nostri compagni di classe cristiani, anche intimi con alcuni, ma vivevamo in disparte e consideravamo una cosa naturale che non potesse essere altrimenti, e non lo consideravamo affatto strano. Come si spiega questa condizione? Era assimilazione o nazionalismo istintivo? Non lo so. Forse entrambi. Credo che la stessa situazione fosse più o meno comune alle altre nazionalità¹⁷.

    Infine, alcune considerazioni su Odessa:

    Odessa è una grande città; Kiev pure; Nikolayev, Kherson, Taganrog – tutte città importanti; l’intera Ucraina – un territorio importante, un paese benedetto, quaranta milioni di persone all’inizio di questo secolo, che forniva grano a probabilmente un altro centinaio di milioni, se non più, in Russia e all’estero. Chi costruì tutto questo? Chi fu il vero creatore di queste città, porti, ferrovie, strade, silos e navi, teatri e ospedali e università enormemente stupendi? Il mercante. Non solo il mercante ebreo, altri dieci popoli parteciparono [...] Senza il mercante – nessun porto e nessuna nave, e nessuna città (il villaggio sarebbe bastato), nemmeno i carrettieri. [...]¹⁸

    Questo è l’humus culturale in cui Jabotinsky – l’uomo politico sionista revisionista alla fine degli anni Trenta – sostenne di essere nato e di essersi formato: un coacervo di nazionalità ancora immuni dalla «coscienza» nazionalistica, rigidamente confinate nelle proprie «visioni del mondo», grette, particolaristiche, prive di un senso civico di appartenenza che poteva esser loro conferito unicamente da una nuova politìa statuale. L’Odessa di fine secolo – come peraltro avrebbe ribadito nell’autobiografia in ebraico Seppur Yamai (Storia della mia vita, 1936) – era una città di frontiera e di transizione, provinciale per i pregiudizi che sapeva coltivare, ma cosmopolita nella sua avidità di conoscenza¹⁹. Va peraltro osservato che, in termini analoghi, descrivono la propria infanzia odessita sia Isaak Babel’, sia Leon Trotzkij (al secolo Lev Bronstein), i quali – come noto – avrebbero intrapreso un percorso politico ben diverso. La memoria di entrambi ripropone l’immagine di una città multi-etnica, ma «divisa»²⁰.

    Vladimir Ze’ev nacque nell’ottobre 1880 come secondogenito da Evgenij, un mercante ebreo secolarizzato di seconda generazione (ricopriva un ruolo importante nella Compagnia russa di navigazione e commercio), e da Eva Sack, di famiglia ebraica benestante, più tradizionalista e infarcita di cultura tedesca. Nel 1886, a seguito di un’agonia durata due anni, Evgenij morì di tumore a Berlino. Privo di un’educazione ebraica e di una vicinanza con il mondo yiddish, Jabotinsky fu «acculturato» come un tipico ebreo russo della borghesia odessita²¹. Pur adottando il russo come madrelingua, pur abbandonando le pratiche tradizionali della religione ebraica e sostituendo i testi sacri con i classici della cultura russa e tedesca, il giovane Vladimir non poteva diventare russo semplicemente perché non era russo per nazionalità. L’accostamento spesso compiuto dallo stesso autore, in maniera euristicamente fuorviante, con le comunità ebraiche occidentali, non è corretto: «i russi e gli ebrei sembravano abitare due sfere semantiche distinte, indipendentemente da quanto esse interagissero». Se, per esempio, in Germania si poteva parlare di tedesco «di confessione mosaica», non era corretto l’appellativo di russo «di confessione mosaica». Un ebreo della Russia restava un «ebreo russo»²².

    Totalmente estraneo all’ebraismo – aspetto sottolineato nel citato passo autobiografico – e, allo stesso tempo, semanticamente alieno al «russianesimo», il giovane Vladimir crebbe negli anni Novanta del secolo XIX, un periodo in cui, benché fossero ormai alle spalle gli anni eroici e dorati dell’acculturazione, l’ebraismo odessita stava attraversando una fase di assestamento «argentea» caratterizzata da un flusso migratorio stazionario (e tutt’altro che maggioritario!), da una ripresa economica, e – nel caso specifico – dal desiderio da parte della borghesia di aggirare i numeri clausi introdotti dal governo russo inviando i propri figli nelle università dell’Europa centro-orientale²³. L’Odessa degli anni Ottanta e Novanta era ancora una città di frontiera, un pronto franco, simile a una moderna metropoli individualistica descritta da Durkheim, nota in tutta la Zona di Residenza²⁴ ebraica per le innumerevoli possibilità, anzitutto lavorative, che sapeva offrire agli «uomini nuovi». Il «mercato» culturale era piuttosto variegato e in continuo fermento: le correnti della rinascita ebraica e di quella yiddish si scontravano con quelle più tradizionaliste; le correnti rivoluzionarie e nichiliste affrontavano le sfide lanciate dalla russificazione, dal sionismo e dal ribellismo anarco-socialista. Quale spazio, dunque, poteva ritagliarsi l’assimilazione? Per utilizzare il linguaggio del primo Wittgenstein, quello del Tractatus logico-philosophicus (1922), potremmo sostenere che semplicemente essa non esisteva: non era possibile abbandonare la propria religione per accedere a una nazionalità differente.

    Il giovane Vladimir respirò dunque, da spirito «decadente» quale era, la plumbea brezza della Odessa di fine secolo: le voci nazionalistiche del sionismo erano ancora dei semplici mormorii; il processo di russificazione proseguiva quasi per inerzia; la maggioranza della comunità ebraica restava immune dalle influenze modernizzanti esterne e continuava quella vita di tutti i giorni vividamente ritratta da Babel’ alcuni decenni dopo²⁵. Traduttore precoce di Verlaine, Poe e Pétofi, Jabotinsky creò un gruppo di coetanei una rivista scolastica intitolata Segreto. Nel 1897, a poco più di diciassette anni, Jabotinsky pubblicò sul quotidiano «Iuzhnoe Obozrenie» (Rivista meridionale) l’articolo intitolato Una nota pedagogica, in cui il giovane ginnasiale del Richelieu accusava di slealtà il sistema scolastico russo, poiché introduceva un’inutile competizione e soffocava la creatività, la maturità e l’individualità tra gli studenti²⁶. Pochi mesi dopo, nell’aprile del 1898, partì alla volta della Svizzera. L’editore del locale giornale liberale «Odesskii Listok» (Foglio odessita), Alexander Feodorov, aveva infatti acconsentito a pubblicare le sue corrispondenze²⁷.

    Il giovane Vladimir, ragazzo ambizioso e dotato di un certo talento artistico, aveva dunque deciso di lasciare il ginnasio – senza aver concluso la quarta classe – in cerca di fama e di fortuna nell’Europa continentale. Poco prima della partenza ricevette una lettera dal critico letterario Vladimir Korolenko in risposta a una breve storia che gli aveva inviato. L’interesse di questa epistola sta nel fatto che essa ci consente non solo di ricostruire ciò che realmente Jabotinsky aspirava a diventare nella sua adolescenza, ma anche di valutare la portata – letteraria – dei suoi schizzi autobiografici successivi e delle biografie dei suoi fedeli seguaci. Non conosciamo esattamente il contenuto della storia, che non è stata conservata, ma è presumibile che essa sia stata una prima stesura di Edmée, il feuilleton pubblicato nel 1912, che – come vedremo – rappresenta una sorta di manifesto politico del sionismo decadente jabotinskiano. Diamo voce a Korolenko:

    [...] La storia ha evocato dentro di me una reazione complessa: essa dimostra chiari segni di talento letterario – o più precisamente – artistico, ma è anche chiaro che voi avete utilizzato male tale talento, e l’obiettivo per cui lottate richiede una trattazione del tutto differente. Avete scelto la forma della fiaba, priva di qualsiasi specificità concreta ed etnografica, che fa leggere la vostra storia come una traduzione dal greco o da un’altra lingua. Oltretutto, l’intreccio basilare della storia è inconcepibile. L’eroina dodicenne della vostra storia mostra già chiari segni di erotomania nella sua forma peggiore (con una tendenza al sadismo), ma l’autore ritiene sia necessario caratterizzare i suoi sogni come timidi ma puri.... In generale, la storia trasmette l’impressione totalmente contraria a ciò che voi pretendete nel proscritto – non edificazione, come sostenete, ma un retrogusto pornografico decisamente insano. Non sono affatto un avvocato dell’arido didatticismo artistico, ma il vostro tono è falso e probabilmente insano.

    Sto scrivendo così candidamente proprio perché ravviso in voi un chiaro talento – ma difficilmente potrete farne qualcosa se non correggerete i vostri modi. [...] Il sano realismo richiede una sottile armonia di colori, ombre, e luce, come nella vita; in voi c’è apparentemente una raffinatezza esotica certamente artificiale²⁸.

    La partenza per Basilea, dove viveva il figlio di un amico di famiglia, marcò la prima seria svolta esistenziale di Jabotinsky. «Disgustato» dall’atmosfera che pervadeva la scuola superiore, il giovane Vladimir abbandonò la città natia per l’Europa occidentale. L’Odessa di fine Ottocento non era unicamente la città dell’haskalah; non era unicamente la città dell’ebraismo riformato o di quello tradizionalista, né delle frange socialiste, anarchiche, nichiliste e sioniste serpeggianti nei circoli intellettuali. Come testimoniavano sia il racconto inviato a Korolenko, sia il poema Gorod mira (Città della pace), pubblicato sul giornale russo-ebraico pietroburghese «Voshkod» (Alba) nel novembre 1898, infarcito di imprecisi riferimenti al testo biblico, Jabotinsky appariva come un tipico ragazzo della borghesia ebraica odessita ignaro non solo della lingua atavica, ma anche della cultura e della società ebraica più in generale. Dimostrandosi in parte simile a Theodor Herzl, il giovane Vladimir, privo del padre, era cresciuto sotto l’influsso del gusto estetico materno, profondamente debitore verso la cultura tedesca ottocentesca²⁹.

    Capitolo II

    La Roma di fine secolo: la sedimentazione di un percorso «immoralistico» nietzschiano (1898-1901)

    Il soggiorno bernese fu breve e, a quanto risulta dalle notizie autobiografiche, piuttosto scarno di avvenimenti di rilievo³⁰. Immatricolatosi alla facoltà di legge, il giovane Vladimir seguì le lezioni universitarie in maniera occasionale e irregolare: nella sua autobiografia Seppur Yammai ha affermato di ricordare soltanto le lezioni del professor Reichsberg, che lo avrebbe introdotto allo studio del pensiero di Karl Marx³¹. Un evento è riportato con sospetta dovizia di particolari: una conferenza tenuta presso la locale colonia russa intorno al sionismo. Mentre l’ebreo bielorusso Nachman Syrkin, sostenitore della sintesi tra sionismo e socialismo, rivolse scarsa attenzione alla conferenza³², il giovane retore ammise di essere sionista per il semplice motivo che gli ebrei erano un popolo terribile, giustamente odiato dai loro vicini e destinato a una «notte di San Bartolomeo» se si fosse ostinato a restare in esilio. Tradotto nell’«odiato» tedesco da parte del moderatore, il discorso sarebbe suonato in termini del tutto differenti: l’autore non era socialista, ma era antisemita e consigliava a tutti gli ebrei di rifugiarsi in Palestina³³.

    Jabotinsky giunse a Roma nell’autunno 1898 e si immatricolò alla locale facoltà di legge. Nel primo anno accademico si iscrisse ai corsi di diritto romano, procedura penale e politica economica. Il secondo anno fu la volta di diritto romano, procedura penale, politica economica e statistica, ottenendo regolari attestati di frequenza. Dalle testimonianze riportate nei suoi cenni autobiografici successivi, il giovane Vladimir frequentò altri corsi, conferenze e letture di varia natura³⁴. Il soggiorno romano durò all’incirca tre anni. Nell’economia dell’intera parabola politica, ideologica ed estetica di Jabotinsky (i tre campi non possono essere disgiunti), l’esperienza italiana è stata di vitale importanza: sarebbe stata la Roma di fine secolo a infondere nel giovane e spaesato studente ebreo russo la fede nella nazione e negli ideali emancipatori a essa sottesi. Sarebbe sempre stata la Roma di fine secolo ad averlo posto di fronte al socialismo marxista, al suo fascino teorico e al suo barbaro inveramento nel bolscevismo sovietico. Sarebbe stata l’Italia a rafforzare le radici di un sionismo ingenuo e scientificamente poco sostenibile. Infine, l’Italia sarebbe l’unica patria spirituale pronta a riconoscere un ebreo russo apolide degli anni Trenta:

    Se ho una patria spirituale, questa è l’Italia più che la Russia. A Roma non esisteva una colonia russa: dal mio primo giorno fui assorbito nel milieu della gioventù italiana e condussi quella vita fino al giorno in cui partii. Tutte le mie concezioni sui problemi della nazione, dello stato e della società si formarono lì sotto l’influenza italiana; lì imparai ad amare l’architettura, la scultura e la pittura, e anche la musica latina; che all’epoca era ridicolizzata dai wagneriani così come oggi è ridicolizzata dai discepoli di Stravinskij e di Debussy. All’università i miei insegnanti erano Antonio Labriola ed Enrico Ferri, e la fede nella giustizia del sistema socialista che io appresi da loro, la ritenni una verità evidente di per sé finché non fu distrutta dalla Rivoluzione bolscevica in Russia. Il mito di Garibaldi, le opere di Mazzini, la poesia di Giacomo Leopardi e Giuseppe Giusti aggiunsero profondità al mio sionismo superficiale, trasformandolo da un sentimento istintivo in una visione del mondo³⁵.

    L’autobiografia di Jabotinsky si arricchisce di altri particolari sulla «morale» del soggiorno italiano:

    [Io] enfatizzai soltanto un’idea: l’idea dell’individualismo [...] l’idea che, se io fossi un filosofo, metterei alla base del mio sistema: all’inizio Dio creò l’individuo, ogni individuo è un re, eguale al suo amico, e anche il suo amico è un re; per un individuo è meglio peccare contro la collettività piuttosto che per una società peccare contro l’individuo, e non viceversa; la conclusione futura dei giorni, l’era messianica, sarà un paradiso per l’individuo, un luccicante stato di anarchia. [...] Si potrebbe sostenere che ci sia una contraddizione tra questa concezione e i miei pronunciamenti nazionalistici; uno dei miei amici, che lesse questo manoscritto, disse di aver sentito da me un altro tema – All’inizio Dio creò la nazione. Ma non c’è contraddizione alcuna tra queste due concezioni. Io sviluppai il secondo tema in opposizione a coloro che sostengono che all’inizio fu creata l’umanità. Io credo in buona fede che nel dibattito tra queste due opinioni, la nazione debba essere prioritaria; e, similmente, che l’individuo venga prima della nazione. E anche colui che sottomette la sua intera vita alla nazione, non è in contraddizione ai miei occhi – egli lo fa volontariamente, non per forza³⁶.

    Sippur Yamai risale alla fine degli anni Trenta, cioè oltre tre decenni dopo la conclusione del soggiorno-idillio romano. I percorsi interpretativi percorribili di fronte a siffatte attestazioni posteriori, soggette, cioè, alla deformazione – conscia o inconscia che sia – della memoria individuale, sono grosso modo due: possiamo dare completamente parola all’autore volgendoci verso l’estremo goethiano della Wahrheit (verità), come hanno fatto i biografi o gli agiografi ufficiali; oppure possiamo prendere alla lettera l’affermazione che lo stesso Jabotinsky fece in una prima breve vignetta autobiografica del 1933 volgendoci verso l’estremo goethiano della Dichtung (poesia), come ha fatto Stanislawski³⁷. Entrambi questi percorsi interpretativi, peraltro elusi dallo stesso protagonista³⁸, sono limitanti: il primo è retrospettivamente schiacciato sul passato; il secondo è storicisticamente schiacciato sul futuro. Crediamo quindi che sia preferibile un’interazione tra i due piani: quello dello «storico» Jabotinsky e quello dello Jabotinsky «storico», che renda giustizia a tutte le dimensioni temporali, presente incluso.

    La memoria di Jabotinsky ci trasmette un messaggio piuttosto chiaro: negli anni trascorsi a Roma egli avrebbe psicologicamente compreso e introiettato l’idea stessa di «spirito del popolo» precedentemente estranea alla sua psicologia di adolescente curioso, brillante e ancora immaturo. Attraverso l’orgogliosa e laica religione civica dell’Italia di fine secolo, il giovane Vladimiro avrebbe individuato la «quadratura del cerchio» tra individuale e collettivo nelle vesti di un nazionalismo liberale e progressista. Attraverso la critica socialista al materialismo storico operata da Antonio Labriola³⁹, Maffeo Pantaleoni e Benedetto Croce, nonché il «rivoluzionarismo intransigente» del giurista positivista Ferri, egli avrebbe sviluppato un’idiosincrasia verso il determinismo del marxismo secondo-internazionalista, il primato politico e metodologico della lotta di classe, recuperando il metodo dialettico hegeliano nella sua concezione idealistica della storia. Nella figura di Garibaldi, osannato in un feuilleton del 1912, Jabotinsky avrebbe scoperto l’equilibrio possibile tra ardente nazionalismo e concreto cosmopolitismo⁴⁰. Infine, l’unico indizio presente nella sua memoria circa un radicale cambiamento spirituale andava in direzione non del fascismo, ma del futurismo di Marinetti⁴¹.

    È importante chiedersi perché il giovane Vladimir decise di recarsi a Roma, pur sapendo che l’«Odesskii Listok» aveva già un corrispondente in loco e che la comunità ebraica russa era pressoché inesistente. Gli studiosi si limitano a osservare che la capitale d’Italia era priva di una colonia russa (come abbiamo visto, le mète preferite per gli studenti ebrei restavano le città dell’area tedesca e Parigi) e che Jabotinsky inaugurò una nuova moda nel percorso educativo askhenazita. Nell’autobiografia si parla unicamente della volontà di riprendere gli studi interrotti⁴². Alcuni indizi che spiegano la scelta del giovane giornalista si trovano nella sua terra d’origine: il Mezzogiorno russo, segnatamente Odessa. Abbiamo già accennato alla relativamente cospicua colonia italiana installatasi nel porto sul Mar Nero già all’inizio dell’Ottocento. Si trattava, va aggiunto, di una comunità di commercianti e di mercanti, ma anche di bohémien e di artisti sradicati. Aggiungiamo ulteriori attestazioni: la lingua italiana era regolarmente studiata nel Liceo Richelieu; l’italiano – quanto meno per tutti i primi decenni ottocenteschi – era la lingua commerciale dei porti mediterranei (era regolarmente usata per redigere atti notarili, documenti commerciali di vario genere e passaporti); in terzo e ultimo luogo, la presenza culturale italiana era attestata da un teatro dell’opera, dall’architettura, da una chiesa cristiana di rito cattolico e dal famoso Café Fanconi⁴³.

    All’interno di questo variegato quadro risultano comprensibili la scelta per Roma e l’importanza rivestita dalla solida presenza culturale italiana odessita nella formazione di Jabotinsky. Non va dimenticato, tra l’altro, che nel porto sul Mar Nero era giunto il giovane mozzo Giuseppe Garibaldi insieme al padre negli anni Venti dell’Ottocento. La carrellata di personaggi operata da Jabotinsky nel suo passaggio autobiografico indica non solo la volontà di «colmare» un vuoto della memoria, rimuovendo quasi del tutto il proprio bagaglio russo (operazione, questa, compiuta dolorosamente dopo il 1914, vale a dire con lo scoppio della Grande Guerra e con la Rivoluzione bolscevica, dato che non avrebbe più rimesso piede in Russia e nella sua amata Odessa), ma anche il tentativo di legare il suo «liberalismo» a un’idea di nazione ritenuta desueta dalle frange progressiste socialiste, che salvasse il suo sionismo politico dalle critiche di oscurantismo e di reazionarismo rivolte dagli avversari interni ed esterni. Lo «storico» Jabotinsky fece dunque di Roma la fucina del proprio nazionalismo integrale ebraico, dove la sensibilità estetica decadente e simbolista si oggettivò in una comunanza di destino, salvando la propria individualità dall’Unrettbarkeit (irrecuperabilità) del «culto dell’ego» di fine secolo⁴⁴.

    Lo Jabotinsky «storico», invece, pone tra parentesi i suoi studi e si incentra sulla sua ricca – e coeva – attività giornalistica e letteraria (le storie ambientate a Roma, pubblicate negli anni successivi sull’«Odesskie Novosti». Discutendo del retaggio culturale del giovane Vladimir, è opportuno fare un passo indietro e ritornare nella Russia di fine Ottocento. Possiamo parlare, da una parte, di un unico mondo letterario russo ed europeo di fine secolo, e, dall’altra, di letteratura ebraica in russo (abbiamo testé indicato come non sia semanticamente corretto parlare di letteratura russa degli ebrei). Da un punto di vista artistico, la Russia di Alessandro III e di Nicola II visse la cosiddetta «età d’argento»⁴⁵. La generazione dei maggiori (Pushkin, Turgenev, Dostoevskij e Tolstoj) era ormai tramontata o aveva ormai esaurito la propria verve creativa. Al loro posto emergeva una variegata schiera di letterati: i realisti Chechov e Gorkij; e i simbolisti Merezhnovskij, Gippius, Blok e Bal’mont⁴⁶. Accanto a loro, un posto di primo piano era occupato dai francesi Verlaine e Rimbaud, dal belga Maeterlinck, dal tedesco Hauptmann, dal norvegese Ibsen, dall’italiano D’Annunzio e dall’americano Poe. Non dimentichiamoci di rimarcare la rilevante – e trasversale – presenza di Nietzsche all’inizio del secolo XX, caratterizzato da una generalizzata tendenza a costruire la propria individualità unicamente attraverso le proprie energie psichiche⁴⁷. Il variegato magma dell’estetismo di fine secolo era accomunato da certune linee guida:

    [...] tutti questi autori erano innovatori amanti del rischio, che respingevano il miope utilitarismo e il realismo sociale della generazione precedente, celebrando l’erotismo e la sensualità in maniera senza precedenti. Benché fossero già divisi da serie divergenze circa la teoria estetica e la politica, l’avanguardia culturale russa respingeva la visione del mondo monolitica della vecchia intellighenzia russa, che aveva intimato l’individuo a dedicare la sua [di lui] o la sua [di lei] vita al servizio del popolo. Il valore dell’individuo, la supremazia delle considerazioni estetiche e spirituali su quelle materialistiche e utilitaristiche, e l’esaltazione della creatività culturale sul progresso economico costituirono i dogmi principali della nuova generazione⁴⁸.

    Il giovane esteta Vladimir alla ricerca nietzschiana di se stesso mescolava, dunque, un estetismo radicale, antinazionale e quasi nichilistico con un grumo di sentimenti politici moralistici, generalmente simpatetici verso l’idea di una trasformazione rivoluzionaria della vita, della società e, soprattutto, della cultura russa. I numerosi feuilletons apparsi a scadenza settimanale sulle pagine dell’«Odesskii Listok» e, successivamente, su quelle del giornale rivale «Odesskie Novosti» (Notizie odessite), gli avrebbero permesso di assumere la direzione della critica culturale di quest’ultimo foglio una volta rientrato a Odessa nel 1901. La produzione del periodo italiano è piuttosto cospicua, variegata e non priva di elementi originari: l’autore si interessò di politica, di cultura e di società, arricchendo i resoconti con l’impronta inconfondibile della sua soggettività, apprezzata dai lettori – per lo più medi borghesi ebrei russi. Possiamo dunque ricostruire l’evoluzione del pensiero jabotinskiano attraverso due canali privilegiati: i summenzionati feuilletons politici e alcune opere letterarie riemerse dagli archivi ex sovietici soltanto dopo la caduta del muro nel 1989.

    L’Italia di fine Ottocento non era solo quell’idillio arcadico e poetico ritratto nei passaggi autobiografici o nei racconti studenteschi, ospitale verso i giovani stranieri, animata da una voglia di vita senza eguali, misticamente attaccata al Risorgimento di Mazzini, di Garibaldi e di Giusti. Né era confinabile nelle aule universitarie, dove economisti, filosofi e giuristi di primo piano discutevano in abstracto di materialismo storico e di «questione sociale». Nel 1898 un’acuta congiuntura economica, causata dalla lievitazione del prezzo del grano, e l’esplosione dei conflitti politici e sociali furono alla base della cosiddetta «crisi di fine secolo»: la violenta repressione del generale Bava Beccaris a Milano contro i manifestanti affamati, la svolta reazionaria tentata dal primo ministro Pelloux, l’ostruzionismo parlamentare delle opposizioni, l’assassinio di re Umberto, la parentesi Saracco, e la chiusura della crisi con il gabinetto Zanardelli-Giolitti⁴⁹. In questa girandola di avvenimenti, che ebbe un epilogo proprio nel 1901, il giovane ebreo odessita riuscì a confrontarsi con le profonde contraddizioni innescate dal processo di modernizzazione. L’Italia di fine secolo, ironicamente sintetizzabile nel Quid agendum di Sidney Sonnino, può essere considerata la palestra politica formativa di un giovane ebreo decadente avvinghiato dalla dialettica tra arte e vita.

    Il 13 marzo 1899 apparve sull’«Odesskii Listok» una lunga corrispondenza da Roma, nella quale Jabotinsky tracciò un profilo di Felice Cavallotti, l’uomo politico radicale scomparso l’anno precedente in seguito a un duello con il direttore della «Gazzetta di Venezia». Il «bardo della democrazia» era lodato sia per la fibra morale, che lo portava a sedere in parlamento giurando fedeltà al re, sia perché rappresentava in un certo senso la nemesi di Francesco Crispi, repubblicano in gioventù e imperialista nella maturità. Cavallotti era descritto come il miglior politico italiano della sua generazione, in quanto autore di opere letterarie avanguardistiche e strenuo oppositore della politica coloniale italiana. Proprio in quei giorni, infatti, mentre il governo Pelloux aveva proposto uno stanziamento straordinario di 45 milioni per il rinnovo delle artiglierie, l’istituzione di un’imposta sull’entrata e l’abolizione del dazio sul consumo comunale sulle farine, ebbe luogo l’estemporanea avventura navale nella baia cinese di San Mun, che fallì in seguito al mancato sostegno britannico. Il giudizio del giovane Vladimir era alquanto caustico:

    Il governo ha scoperto alcuni nuovi interessi italiani in Cina. Come vi pare quest’idea? Dopodiché, uno può discutere degli interessi cinesi in Italia. Questo dimostra come stia progredendo l’idea di riavvicinamento delle nazioni! Se la Russia, l’Inghilterra e la Francia devono difendere i propri interessi nei paesi confinanti con le loro colonie, cosa deve fare l’Italia in questo caso? L’Italia ha d’autres chiens à foutter: la gente non muore di fame, questo è vero, ma è ancora affamata; questo è il caso dell’incredibile numero di criminali, l’incredibile livello di emigrazione, e l’incredibile insoddisfazione che, prima o poi, potrebbe condurre alla ribellione. Il governo ha promesso da tempo parecchi provvedimenti⁵⁰ economici; ma invece di questa ha approvato nuove leggi politicamente repressive sulla stampa, l’associazione, sui criminali recidivi – tutto questo incrementerà soltanto il malcontento⁵¹ nel paese e sta espandendo la marina per non perdere prestigio all’estero. Ma bisogna essere ignorant comme un maître d’école per non vedere che il prestigio dell’Italia all’estero ha già sofferto tremendamente. [...] Il giornale Tribuna accusa la Russia per il fallimento dell’avventura italiana in Cina. Se questo è vero, si spera soltanto in ulteriori successi russi in Cina e in ulteriori sconfitte per l’Italia. Questo non risolverebbe il problema, naturalmente, ma aggiungerebbe almeno un altro attacco contro le tristi esperienze dell’Italia, significative, ma non ancora significative a sufficienza⁵².

    In una corrispondenza del febbraio 1901 apparsa sull’«Odesskie Novosti», l’autore elogiò il programma del nuovo primo ministro Giuseppe Zanardelli. Il giovane moralista Jabotinsky si era dunque attestato su posizioni politiche fieramente antinazionalistiche?⁵³ Un ulteriore indizio in tale direzione sembra offerto dal feuilleton dedicato a Gabriele D’Annunzio, apparso un mese dopo. Si tratta di una critica esplicita al «voltagabbanismo» dell’esteta pescarese che, accusato di aver abbandonato la decadenza tanto nelle opere letterarie quanto nella vita, era divenuto un fiero cantore del nazionalismo italiano imperialista, elitario e razzista. Il «disertore talentuoso della decadenza» e «l’ex-nietzschiano che non aveva capito neanche una parola di Nietzsche», era all’apice del suo talento poetico, ma deludeva i giovani decadenti – come l’autore – per il suo abbandono della bellezza simbolista a favore delle faccende quotidiane dell’uomo comune. L’autore palesava una – apparente per lo meno – contraddizione sostanziale: pur criticando la svolta reazionaria di D’Annunzio, ammetteva candidamente che la forma della sua più recente produzione poetica (Elettra, il secondo libro delle Laudi, pubblicato nel 1903), infarcita di esaltazioni pseudo-nietzschiane della «razza italiana» e del «superuomo latino»⁵⁴, era riuscita a esprimere al meglio le emozioni interiori del suo animo e del suo popolo⁵⁵.

    La dialettica mai ricomposta tra fenomeni ed essenze, propria dell’estetismo simbolista di fine Ottocento, può essere letta attraverso tre opere letterarie del giovane Vladimir terminate o iniziate durante il soggiorno italiano. La prima si intitola Krov (Sangue)⁵⁶. Si tratta di un dramma simbolista in versi che condanna esplicitamente l’imperialismo (il punto di riferimento politico era il coevo conflitto anglo-boero). Il protagonista è Georg Gamm, ministro dell’interno e degli esteri di un non ben identificato paese europeo (non mancano le similitudini con Francesco Crispi), impegnato a fronteggiare il problema etico di una guerra di conquista. Gamm non è descritto come uno statista navigato, indifferente alla morale, strenuo sostenitore degli «interessi» nazionali. È, invece, un uomo genuinamente morale, accecato dal suo patriottismo, dal senso di dovere nazionale e attratto dal potere. Il momento più tragico della pièce ha luogo al termine del primo atto, allorquando il protagonista rigetta gli argomenti del suo vecchio professore, profondamente costernato di fronte al cinismo palesato dal suo ex allievo:

    Io riconosco decisamente e direttamente

    L’orrore totale di questa guerra

    Ma sono pronto a tutto

    Spedisco masse di giovani

    Verso un inferno lontano, privo di pioggia

    Per poi coprirlo con giardini

    Per insediarvi milioni di persone.

    E se l’onore della mia patria

    Che io – prima o poi, devo servire

    Con la mia spada fidata e tutta la mia forza – lo esige,

    Calpesterò, se devo, qualsiasi cosa sia sacro

    Qualsiasi cosa! Come tutti, tengo al diritto e alla libertà

    E ho fatto sempre così

    Ma non permetterò che il diritto e la libertà vengano a spese della mia nazione!

    [...] Se devo stare in un lago di sangue

    Come un automa, come una bestia selvaggia, sfrenato

    Questo è il mio dovere, e non ho rimpianti!⁵⁷

    Va aggiunto che Gamm, incapace di rielaborare il lutto della morte del suo mentore e di un vecchio pazzo

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