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Memorie di prigionia: 8 settembre 1943 - 11 aprile 1945
Memorie di prigionia: 8 settembre 1943 - 11 aprile 1945
Memorie di prigionia: 8 settembre 1943 - 11 aprile 1945
E-book168 pagine2 ore

Memorie di prigionia: 8 settembre 1943 - 11 aprile 1945

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Info su questo ebook

Dopo la firma dell'armistizio fra il governo Badoglio e gli alleati, l'otto settembre del 1943, nelle file dell'esercito italiano ci fu sbandamento e frustrazione. Dei quasi ottocentomila militari italiani impegnati sui vari fronti, duecentomila accettarono di rimanere fedeli all'alleanza Italia fascista - Germania nazista e vennero direttamente incorporati nel III Reich mentre gli altri seicentomila si rifiutarono di collaborare in qualsiasi forma con Mussolini e Hitler scegliendo la prigionia. Giuseppe Giambastiani apparteneva al secondo gruppo. Durante la prigionia scrisse un prezioso diario. In quelle pagine è racchiuso il racconto di cinque interminabili anni. A Fiume allora italiana, dove si trovava a fare il militare, aveva avuto inizio la sequenza dei tragici avvenimenti che lo videro coinvolto: la dichiarazione di guerra alla Yugoslavia, la notizia dell'armistizio l'8 settembre 43 con il conseguente sbandamento generale, la fuga della popolazione italiana dall'Istria e la dolorosa scelta della deportazione e della prigionia.
LinguaItaliano
Data di uscita24 mag 2019
ISBN9788899735852
Memorie di prigionia: 8 settembre 1943 - 11 aprile 1945

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    Anteprima del libro

    Memorie di prigionia - Giuseppe Giambastiani

    stesura.

    Prefazione di Roberto Andreuccetti

    Per comprendere l’importanza del diario di Giuseppe Giambastiani è necessario fare una breve panoramica sugli avvenimenti nei quali il racconto si cala.

    Pensiamo che non sia mai stato messo a fuoco con la giusta evidenza lo sbandamento, lo smarrimento e lo stato di frustrazione dei soldati italiani dopo la firma dell’armistizio del governo Badoglio con gli alleati. E’ sufficiente dare una breve scorsa ai numeri.

    Dei quasi ottocentomila militari italiani impegnati sui vari fronti, duecentomila accettano di rimanere fedeli all’alleanza Italia fascista e Germania nazista e vengono direttamente incorporati nel III Reich mentre gli altri seicentomila si rifiutano di collaborare in qualsiasi forma con Mussolini e Hitler e scelgono la prigionia.

    La loro è stata una detenzione fuori da ogni convenzione e non sottoposta al controllo della Croce Rossa Internazionale.

    Anche se i nostri soldati erano considerati internati militari la loro sorveglianza creava problemi agli uffici del Reich che erano costretti a distogliere dal fronte uomini della Wehrmacht.

    Nel settembre del 1944 una disposizione dell’O.K.W. (Oberkommando Wehrmacht) attribuì ai nostri connazionali lo status di liberi lavoratori civili e questa fu una delle tante perfidie di Hitler contro uomini considerati traditori. Formalmente non avrebbero più dovuto considerarsi prigionieri, ma in realtà rimasero in Germania e furono sottoposti come schiavi ad una serie di umiliazioni e di sofferenze che provocarono migliaia di morti.

    Nel 1945 alla fine della guerra molti di loro infatti, circa cinquantamila non fecero ritorno in patria.

    La storia non ha smesso di celebrare coloro che hanno avuto la fortuna di fuggire e di unirsi alle colonne partigiane, i famosi eroi della resistenza, trascurando invece altri uomini, che trovandosi al difficile bivio fra l’adesione alla repubblica di Salò e la prigionia hanno avuto il coraggio di scegliere quest’ultima e di sottoporsi ad una resistenza passiva. È bene rendere quindi il giusto omaggio anche a chi ha compiuto il proprio sacrificio nel silenzio, sotto il pesante cielo di piombo del nord delle Germania, lontano migliaia di miglia dal contesto degli uomini civili.

    Giuseppe Giambastiani più fortunato di altri, è potuto ritornare in patria, riabbracciare i suoi cari e soprattutto conservare il suo prezioso diario. Nelle sue pagine egli ci fa rivivere tutto il dramma di quei giorni; da Fiume, allora italiana, dove si trovava a fare il militare aveva avuto inizio la sequenza di tragici avvenimenti che lo vedevano coinvolto, la dichiarazione di guerra alla Iugoslavia, la notizia dell’armistizio con il conseguente sbandamento generale, la fuga della popolazione italiana dall’Istria e la dolorosa scelta della deportazione e della prigionia.

    Nelle pagine del suo diario Giuseppe Giambastiani, non si fa però mai trasportare dall’odio, non è offensivo nei confronti di coloro che lo hanno costretto ad una vita tanto grama e riesce a mantenersi sempre lucido ed a conservare nitidi valori inossidabili come la sua grande fede, l’amore per la famiglia e per la madre in particolare, ma soprattutto il rispetto per la patria, rispetto che lo porta a scrivere sempre questa parola con l’iniziale maiuscola.

    Riesce quasi impossibile pensare come un uomo sottoposto a continue vessazioni, riesca a trovare la forza interiore per tirare avanti giorno dopo giorno, ora dopo ora.

    Viene da chiedersi in quale remoto angolo del proprio animo possano albergare il coraggio e la tenacia necessari per portare a termine una così titanica impresa.

    Forse un’unica spiegazione è possibile, il prigioniero, privato di ogni libertà e sottoposto a continue torture, può sopravvivere soltanto se riesce ad estrapolare la propria mente da quella che è la tragica realtà, e costruire una propria oasi nella quale potersi rifugiare.

    Il pensiero dei propri cari, della famiglia, del proprio paese, unito all’osservazione quotidiana dei fenomeni della natura, le albe i tramonti, il vento e la pioggia, possono fare da deterrente alle forze sinistre del male.

    Giuseppe Giambastiani è riuscito in questo, si è creato la sua isola di pace anche in mezzo ai reticolati, anche se rinchiuso fra alte mura e circondato da militari in armi.

    Ecco allora che nel suo diario si cita costantemente la natura, il sole e la luna, il cielo e le stelle, i colori ed i suoni della campagna che fa da cornice al lugubre e tetro campo che lo ospita.

    Da queste pagine trasuda una sensibilità di animo fuori dal comune, una straordinaria ricchezza interiore, una acuta capacità di osservazione, che un semplice esempio può dimostrare.

    Mentre alla fine di settembre del 1943, sta procedendo in fila indiana assieme agli altri deportati lungo il sentiero che lo conduce verso il lager, dimenticato da Dio e dagli uomini e deriso dalla popolazione locale, è in grado di partorire comunque un pensiero profondo.

    Le foglie che sta calpestando appaiono ai suoi occhi come un soffice tappeto messo lì dalla natura, quasi questa volesse accogliere lui e gli altri sventurati compagni, con la sua veste migliore.

    Questa è soltanto una delle tante particolari sfumature colte dall’autore in questo suo diario, un racconto di condanna di un tempo e di una umanità, eppure anche un testo di amore e di speranza per un mondo migliore, ma nascosta agli occhi di tutti come l’immaginetta della Vergine Assunta in Cielo piegata e custodita nel segreto di una tasca.

    Vogliamo chiudere questo nostro breve pensiero usando le parole di Primo Levi, un grande personaggio legato alle vicende tragiche della deportazione, Alla fine l’uomo riesce sempre a sopravvivere e ad avere la meglio sulla sua stessa disumanità.

    Introduzione

    Dopo la firma dell'armistizio fra il governo Badoglio e gli alleati, l'otto settembre del 1943, nelle file dell'esercito italiano ci fu sbandamento e frustrazione. Dei quasi ottocentomila militari italiani impegnati sui vari fronti, duecentomila accettarono di rimanere fedeli all'alleanza Italia fascista – Germania nazista e vennero direttamente incorporati nel III Reich mentre gli altri seicentomila si rifiutarono di collaborare in qualsiasi forma con Mussolini e Hitler scegliendo la prigionia.

    Giuseppe Giambastiani apparteneva al secondo gruppo.

    Nel 1945 alla fine della guerra, cinquantamila deportati in Germania non fecero ritorno in patria perché sottoposti come schiavi a una serie di umiliazioni e sofferenze.

    Giuseppe Giambastiani fu più fortunato di altri e poté riabbracciare i suoi cari, ma soprattutto conservare il suo prezioso diario. In quelle pagine è racchiuso il racconto di cinque interminabili anni. Da Fiume allora italiana, dove si trovava a fare il militare aveva avuto inizio la sequenza dei tragici avvenimenti che lo videro coinvolto: la dichiarazione di guerra alla Iugoslavia, la notizia dell'armistizio con il conseguente sbandamento generale, la fuga della popolazione italiana dall'Istria e la dolorosa scelta della deportazione e della prigionia.

    Riesce difficile capire come Giuseppe Giambastiani, sottoposto a continue vessazioni durante i due anni di prigionia in Germania, abbia potuto trovare la forza interiore per tirare avanti giorno dopo giorno, ora dopo ora; è stato forse il pensiero costante dei propri cari e del proprio paese, o la incrollabile fede, a fare da deterrente alle forze sinistre del male.

    CAPITOLO I. La partenza

    Ricordi mamma; era il 20 gennaio del 1941, quando mi desti la tua benedizione, per la prima partenza per il militare. Il giorno avanti era domenica, nel nostro Diecimo c’era festa, veniva celebrata la Cresima.

    Fu l’ultima domenica passata tutti assieme, senza ancora avere rivestito il grigio verde.

    Era una vera giornata d’inverno; il tempo che al sabato prometteva di rallegrare quella festa con un bel sole d’oro, si convertì nella nottata per donarci una giornata che si poteva definire d’inferno.

    L’acqua, che fino dalla mattina imperversava furiosa, lasciava a tratti la sua furia per fare posto a un fitto nevischio accompagnato da un forte vento che sferzando sul viso faceva venire i più gelidi brividi per tutto il corpo a chi si fosse avventurato in mezzo alla libera via.

    Fui costretto a rimanere in casa tutto il giorno; così cominciò un giorno prima la mia vita serrata tra mura e disciplina militare che continuò poi in un desolato Campo di Concentramento per prigionieri.

    Quasi dello stesso tono fu il giorno seguente; il lunedì, giorno fatidico, il primo di una lunga serie, uno più triste dell’altro.

    Qualche ora prima dell’alba mi trovavo già alzato; tu forse mamma non avevi dormito per tutta la notte e ti eri alzata prima di me per preparare quella valigia, nella quale avresti voluto mettere tutta tè stessa, con l’affetto e l’amore che solo una mamma sente per un figlio che si allontana e che prevede tutti i disagi e le privazioni che potrà incontrare. Tutto questo io lo leggevo sul tuo volto, mentre con la testa bassa giravi da una stanza all’altra, pensando e cercando di ricordare se tutto avevi messo in quella piccola valigia. Lontano aprendola, avrei dovuto rivederci tutta la mia casa, risentirci il tuo caldo affetto e trasformatasi in cassa sonora avrebbe dovuto sempre ripetermi le tue ultime raccomandazioni, di bontà, di amore e di rispetto per la mia giovinezza.

    Non avevi la forza di guardarmi in faccia mamma, per non tradire il tuo dolore, per non mostrarmi le tue lacrime, che secondo te avrebbero reso ancora più penosa la mia partenza.

    Certo avevi ragione, ora soltanto lo comprendo; ma credi quel giorno non avrebbero avuto su di me alcuna influenza, perché la giovinezza baldanzosa di allora, il desiderio di avventurarmi per il mondo, affievolivano un po’ anche l’amore più puro, l’amore alla mamma.

    Ora te ne chiedo perdono e condivido il tuo dolore.

    Il tempo che si vorrebbe durasse molto è sempre il più fugace. I minuti passarono veloci e l’ora del treno era prossima; così, facendo uno sforzo e cercando di rasserenarci il viso per farci coraggio ci dicemmo addio. Le parole non uscirono, ci fu solo uno sguardo velato e ci si baciò con le lacrime.

    Tutto questo voleva dire più di ogni parola, racchiudeva in sé tutto l’amore e l’affetto di madre e figlio ed uscendo dal cuore si manifestava all’esterno con quelle lacrime abbondanti.

    Uscii di casa quasi scappando perché ogni sguardo ormai era una stretta in più che serrava il cuore ed a passo svelto mi diressi alla stazione.

    Tu mamma rimanesti sulla porta e mi accompagnasti con lo sguardo di pianto finché ti fu possibile.

    Poi rientrasti, sedesti al focolare ed aspettasti di sentire il fischio del treno, quel fischio che come una lancia si conficcava nel tuo cuore e ti diceva: porto lontano il tuo figliuolo, lo tolgo dal tuo sguardo e lo dono al mondo nell’età dei suoi vent’anni come una barchetta senza timone in un mare procelloso.

    Questo pensiero era certo il tuo dolore più acerbo e ti fece recitare una preghiera; recitasti un’Ave Maria a colei che è regina di tutte le vittorie perché prendendomi sotto il suo sguardo e la sua protezione, mi facesse vittorioso contro il mondo e mi riportasse un giorno a riviverti vicino.

    Essendo una brutta mattinata per il cattivo tempo ed ancora di buon’ora, incontrai poche persone.

    Si erano appena accese le luci che trapelavano dalle tendine delle finestre delle camere dei più mattinieri; guai se mi avessero rivelato l’avvenire cui dovevo andare incontro. Come le tendine che non lasciavano passare che fioca luce, così le tendine del futuro nascondevano dietro di sé tutti quei giorni tristi ai quali avrei dovuto andare incontro.

    Il treno non si fece attendere molto; qui si ripeté la stessa scena di abbracci con chi mi aveva accompagnato, ma adesso il morale era più elevato. Altri compagni condividevano con me le stesse angosce ed il guardarci in faccia incuteva coraggio uno all’altro.

    Erano amici che potevo chiamare anche fratelli, vissuti sempre assieme nei lavori e nei divertimenti e quel destino che nelle gioie e nel sudore della fronte ci aveva affratellati, voleva farci provare ancora assieme l’amarezza del distacco dalla famiglia.

    In cuor nostro pensavamo: Come sarebbe bello poter restare uniti ed in certo qual modo poter continuare la vita del nostro paese con i nostri comuni ricordi e con il pensiero invece che essere da soli sui nostri monti! Ma questo il destino non lo volle ed ancora per poco doveva durare la nostra compagnia, perché ognuno di noi dal distretto avrebbe preso una via diversa, indossando mostrine diverse.

    Gli ultimi addii furono dati dal treno, con metà del corpo fuori dal finestrino e con le braccia tese verso le persone che sopra la banchina della stazione incontravano i nostri gesti d’addio. Non arrivavano più alle nostre orecchie le parole per il tran tran del treno che sbuffando si metteva in corsa facendo sussultare sempre più il mio cuore e facendo già passare per la mia mente gli scherzi e le beffe che una povera recluta avrebbe dovuto subire tra poco in mezzo agli anziani.

    L’ultima immagine a scomparire dal mio sguardo fu la chiesa con il campanile e dopo ogni visione del mio paese e delle persone care non rimase che nel pensiero ed in qualche foto.

    Il treno correva, gli alberi passavano veloci, il tempo si era rischiarato e lasciava intravedere sopra la cima dei monti qualche sprazzo di sole che facendo

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