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La qualificazione giuridica dei beni culturali tra interesse pubblico e interessi religiosi
La qualificazione giuridica dei beni culturali tra interesse pubblico e interessi religiosi
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E-book417 pagine5 ore

La qualificazione giuridica dei beni culturali tra interesse pubblico e interessi religiosi

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Oggetto del presente lavoro è l'analisi della disciplina giuridica dei beni culturali, con particolare riferimento a quelli di interesse religioso, evidenziando la relazione inscindibile tra elementi materiali ed immateriali nella consapevolezza che il patrimonio culturale rappresenta l'espressione più profonda dell'identità di una comunità, delle radici e dei valori che ne plasmano l'essenza. Heidegger sosteneva che l’arte è “custode creativa della verità”: nel caso dei beni di interesse religioso le verità divine sono state trasmesse lungo i secoli attraverso variegate tipologie di espressioni culturali e cultuali, la cui valorizzazione, nell’epoca attuale caratterizzata da un imponente processo di globalizzazione, rappresenta dunque una tappa imprescindibile della promozione del dialogo interreligioso e interculturale. Oltre al loro significato spirituale, i beni culturali di interesse religioso, proprio perché rappresentano un elemento essenziale della storia, della cultura e dell’identità del territorio in cui si trovano, sono infatti una manifestazione tangibile della pluralità di sistemi culturali e tradizioni che caratterizzano l’area euro-Mediterranea. Tale compito di valorizzazione finalizzata alla più ampia fruizione non è demandato solo ai fedeli, ma all’intera comunità democratica e dunque enti locali, Stati, organizzazioni internazionali, comunità religiose e attori della società civile, secondo varie modalità e livelli.
 
LinguaItaliano
Data di uscita12 feb 2021
ISBN9788863586435
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    La qualificazione giuridica dei beni culturali tra interesse pubblico e interessi religiosi - Maria Rosaria Piccinni

    Maria Rosaria Piccinni

    LA QUALIFICAZIONE GIURIDICA DEI BENI CULTURALI TRA INTERESSE PUBBLICO E INTERESSI RELIGIOSI

    Phasar Edizioni

    Maria Rosaria Piccinni

    La qualificazione giuridica dei beni culturali tra interesse pubblico e interessi religiosi

    Proprietà letteraria riservata.

    © 2021 Maria Rosaria Piccinni

    © 2021 Phasar Edizioni, Firenze.

    www.phasar.net

    I diritti di riproduzione e traduzione sono riservati.

    Nessuna parte di questo libro può essere usata, riprodotta o diffusa con un mezzo qualsiasi senza autorizzazione scritta dell’autore.

    Progetto di copertina: Maria Rosaria Piccinni

    Grafica di copertina: Phasar Edizioni, Firenze

    ISBN 978-88-6358-643-5

    Indice

    Capitolo I

    L’evoluzione della disciplina in materia di beni culturali nell’ordinamento dello Stato.

    1. La tutela dei beni culturali nella legislazione preunitaria: le peculiarità della normativa dello Stato Pontificio

    2. Il patrimonio culturale nella politica dello Stato unitario. Le problematiche legate alla legislazione eversiva del patrimonio ecclesiastico

    3. La definizione di bene culturale nell’esegesi costituzionale

    4. Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale dalla riforma costituzionale al Codice dei beni culturali

    5. Il principio di sussidiarietà orizzontale nella valorizzazione del patrimonio culturale tra profit e non profit

    Capitolo II

    La specificità dei beni culturali di interesse religioso e le modalità di attuazione del principio di collaborazione con le confessioni religiose.

    1. Il bene culturale di interesse religioso nel quadro della disciplina statuale

    2. I beni culturali della Chiesa Cattolica nella normativa concordataria: dai Patti del 1929 all’Accordo di Villa Madama

    3. Dall’arte sacra ai beni culturali nel diritto canonico

    4. La leale collaborazione tra Stato e Chiesa negli accordi bilaterali e nell’attività delle Chiese particolari

    5. Il patrimonio archivistico e librario della Chiesa Cattolica e le più recenti evoluzioni in tema di digitalizzazione

    6. La salvaguardia dei beni culturali di interesse religioso nella normativa bilaterale. Il ruolo del nucleo speciale dei carabinieri e le linee guida per la gestione dell’emergenza sismica

    7. La tutela del patrimonio culturale nelle Intese con le confessioni religiose diverse dalla Cattolica

    Capitolo III

    Il valore dei beni culturali nella costruzione dell’identità civile e religiosa.

    1. La funzione sociale dei beni culturali e le peculiarità della loro tutela giuridica

    2. La fruizione del patrimonio culturale come espressione del diritto alla cultura

    3. I beni culturali come beni comuni e l’interesse pubblico alla valorizzazione e fruizione

    4. Il ruolo dei beni culturali nel processo di costruzione dell’identità civile e religiosa

    5. Le azioni a tutela del patrimonio culturale come strumento di coesione e di integrazione sociale

    6. La dimensione immateriale del patrimonio culturale e la specificità dei beni culturali di interesse religioso

    7. Le azioni a tutela del patrimonio di interesse religioso nei più recenti orientamenti della comunità internazionale e il coinvolgimento delle confessioni religiose come stakeholders

    8. La tutela del patrimonio culturale di interesse religioso nelle politiche dell’Unione Europea

    Capitolo IV

    Patrimonio e identità interculturale. Le vicende giuridiche dei beni culturali ortodossi in Puglia e Calabria.

    1. I beni culturali come veicolo di dialogo interculturale e interreligioso nei contesti territoriali

    2. Il patrimonio culturale delle Chiese ortodosse tra valore liturgico e funzione sociale

    3. La presenza secolare di minoranze ortodosse in Calabria e riflessi sulla legislazione in materia di beni culturali

    4. La contesa giudiziaria sul monastero di San Giovanni Theristis e la legittimità della revoca unilaterale della concessione alla Metropolia Greco-ortodossa

    5. Il culto di San Nicola a Bari come espressione di identità multireligiosa e multiculturale della Regione Puglia e le vicende giudiziarie della Chiesa Russa

    Bibliografia

    Capitolo I

    L’evoluzione della disciplina in materia di beni culturali nell’ordinamento dello Stato

    SOMMARIO: 1. La tutela dei beni culturali nella legislazione preunitaria: le peculiarità della normativa dello Stato Pontificio. – 2. Il patrimonio culturale nella politica dello Stato unitario. Le problematiche legate alla legislazione eversiva del patrimonio ecclesiastico. – 3. La definizione di bene culturale nell’esegesi costituzionale. – 4. Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale dalla riforma costituzionale al Codice dei beni culturali. – 5. Il principio di sussidiarietà orizzontale nella valorizzazione del patrimonio culturale tra profit e non profit.

    1. La tutela dei beni culturali nella legislazione preunitaria: le peculiarità della normativa dello Stato Pontificio.

    La nozione di patrimonio culturale è alla base dell’identità e della memoria storica italiana. Tale consapevolezza si è diffusa grazie alla cultura della conservazione sviluppatasi prima negli Stati preunitari e poi nell’Italia post-unitaria. Già negli Stati preunitari era radicata la convinzione che il patrimonio culturale dovesse essere oggetto di tutela congiuntamente al territorio in cui è situato e non a caso le prime norme a tutela delle cose d’arte riguardavano il divieto di esportazione per salvaguardare lo stretto legame tra l’espressione artistica e il territorio in cui essa era nata.

    Nel prendere in considerazione i molteplici aspetti che caratterizzano il diritto dei beni culturali non è possibile prescindere dalle vicissitudini storiche e culturali che hanno caratterizzato la storia italiana ed europea. Pertanto, prima di affrontare il tema dell’interesse dello Stato e degli enti locali ad occuparsi della conservazione, tutela e valorizzazione di tali beni, pubblici o privati, e della rilevanza che tali beni assumono nel processo di costruzione dell’identità nazionale, può essere utile rivolgere, sia pur brevemente, lo sguardo al passato ed esaminare il percorso di maturazione della consapevolezza del valore del patrimonio culturale, nonché del dovere dello Stato di garantirne la salvaguardia anche attraverso il raccordo con soggetti privati e con le confessioni religiose¹.

    La cultura giuridica italiana pre e post-unitaria ha da sempre attribuito importanza alla salvaguardia del patrimonio culturale: le attuali norme che regolano questo settore, a partire dall’articolo 9 della Costituzione italiana, rappresentano un’evoluzione di tutte le forme legislative di tutela che vennero emanate dagli Stati pre-unitari.

    Le norme giuridiche che già dal Rinascimento cominciavano a profilarsi in maniera sempre più definita erano molto avanzate per i tempi, a dimostrazione della matura consapevolezza dell’enorme valore del patrimonio culturale che l’Italia possiede e che costituisce un tratto caratteristico e imprescindibile della sua identità.

    Basti pensare che già Petrarca, in una nota lettera a Cola di Rienzo del 1347, denunciava la situazione di abbandono in cui versavano le magnificenze di Roma, e non solo e richiamava l’attenzione del nuovo Governo esortandolo a salvaguardare il patrimonio della città di Roma².

    Tra gli Stati preunitari in cui era maggiormente sviluppata una sensibilità nei confronti dei beni culturali si può annoverare il Granducato di Toscana, in cui nel 1571 fu emanata una legge che vietava agli acquirenti di antichi palazzi di rimuovere insegne ed iscrizioni³ per preservare la memoria storica e il pregio artistico delle antiche costruzioni, a cui fece seguito, nel 1602, una delibera dello stesso Granduca, valida per la sola città di Firenze, riguardante il «Divieto di estrazione da Firenze e dallo Stato delle Pitture buone»⁴.

    Questo documento rappresenta, nel panorama della legislazione sui beni culturali, un’importante innovazione perché per la prima volta fu stilato un elenco di beni da salvaguardare distinguendo tra le opere di artisti viventi, liberamente commerciabili, da quelle di artisti defunti.

    Per poter far circolare i dipinti indicati era necessaria una licenza rilasciata dal «luogotenente dell’Accademia del Disegno» con la consulenza di dodici pittori (indicati in una deliberazione dell’11 dicembre 1602), vietando comunque l’esportazione delle opere dei maggiori artisti (elencati in numero di diciotto). I criteri utilizzati per individuare i dipinti da salvaguardare si possono evincere dagli appositi elenchi redatti a più riprese a partire dal 1602, nei quali prevalentemente erano annoverati artisti del Rinascimento toscano⁵.

    Per esportare opere d’arte occorreva una licenza che veniva redatta senza spese dall’Accademia del Disegno, la quale delegava dodici pittori di comprovata fama e reputazione dando loro la facoltà di sottoscrivere le licenze di esportazione⁶. Questa legge, malgrado le imperfezioni del meccanismo scelto, rappresenta comunque un primo esempio di difesa giuridica nei confronti delle opere pittoriche, volto primariamente a frenare e controllare la libera circolazione dei beni di pubblico interesse. Tuttavia è nel Settecento che questa legislazione acquista una consapevolezza strutturale moderna. Nel 1744 il Granducato di Toscana aveva provveduto a tutelare gli scavi etruschi di Volterra con la creazione di un’apposita deputazione che aveva il compito di "pigliare distinta memoria delle antichità ritrovate e nel 1754 fu emanata una legge per la tutela del decoro pubblico di Firenze e delle altre città attraverso la conservazione delle opere illustri e stimabili per le loro antichità e rarità"⁷.

    Nel 1777, con l’avvento della dominazione della dinastia dei Lorena, fu aperta agli studiosi la consultazione degli archivi e nel 1778 per la prima volta fu istituito l’archivio diplomatico, un’istituzione destinata a conservare espressamente gli antichi documenti "in virtù degli importanti lumi che possono apportare all’erudizione e alla storia".

    Con i rescritti del 1749 e del 1750 e con Legge del 1762, si stabilì l’appartenenza in linea di principio al "regio fisco" degli oggetti ritrovati negli scavi e il ricercatore, lo scopritore o il proprietario del terreno avevano diritto, in caso di scoperta fortuita, ad un premio nella misura di un terzo delle cose ritrovate che poteva essere elargito anche in moneta se i reperti erano così importanti da essere esposti nella galleria granducale.

    Un altro Stato in cui furono emanate norme volte prevalentemente ad impedire la libera circolazione di quelli che oggi chiamiamo beni culturali e la loro esportazione è il Lombardo- Veneto, in particolare sotto il regno di Maria Teresa d’Austria, la quale nel 1745 emanò un provvedimento che vietava l’esportazione delle cose di interesse artistico e culturale, successivamente reiterato da disposizioni imperiali nel 1818 fino ad essere sostituito, nel 1827, da un diritto di prelazione governativa⁸.

    Nel Regno di Sicilia e di Napoli il provvedimento più significativo in materia è il decreto emanato da Ferdinando I di Borbone nel 1822, che stabiliva il divieto di sottrarre dalle chiese e dagli edifici pubblici gli oggetti di interesse storico ed artistico, proibendone l’esportazione in mancanza di una licenza rilasciata dallo stesso sovrano dietro giudizio di un’apposita commissione di antichità e belle arti⁹.

    Nel Regno di Sardegna, l’unica disposizione in tema di beni culturali è costituita da un regio decreto del Re Carlo Alberto, del 24 novembre 1832, con il quale fu creata una Giunta di antichità e belle arti ai fini di svolgere attività di ricerca e conservazione.

    La legislazione più completa ed evoluta in materia di beni culturali, tuttavia, era quella in vigore nello Stato Pontificio.

    Le prime leggi a tutela delle opere d’arte furono emanate infatti a Roma prima della fine del XV secolo: data la grande quantità di siti archeologici, l’obiettivo di queste leggi era quello di vietare le operazioni di scavo non autorizzate, prevedendo aspre sanzioni per i trasgressori. Alla stessa ratio rispondeva anche il divieto di spoliazione degli antichi monumenti romani, con l’intento di arginare una pratica molto diffusa sin dai tempi più antichi che, trovando la sua motivazione nell’intento di risparmiare materiali di costruzione e decorativi, di fatto ha alterato irrimediabilmente nei secoli l’aspetto delle principali vestigia storiche e artistiche¹⁰.

    Nello Stato Pontificio i primi provvedimenti volti alla tutela dei beni culturali furono emanati dal Papa Pio II il quale, con una bolla del 28 aprile 1462 istituì il divieto di demolizione e distruzione dei monumenti antichi, ribadendo quanto precedentemente espresso nella bolla Etsi de cunctarum, emessa da Papa Martino V¹¹.

    La Bolla di Pio II "Cum almam nostram urbem del 1462 prevedeva la scomunica, il carcere e la confisca dei beni per coloro che demolivano, distruggevano e danneggiavano gli antichi edifici pubblici o i loro resti a Roma e nel territorio circostante senza la licenza del pontefice, anche se di proprietà privata. Nel 1474, Papa Sisto IV emanò la bolla Cum provida" con il divieto di spogliare le chiese di marmi e antichi ornamenti.

    Una decisiva e più compiuta azione di recupero del patrimonio artistico fu realizzata ad opera di Papa Giulio II della Rovere (1503-1513), il quale per ridare lustro alla città di Roma diede avvio ad un progetto di "Restauratio Romae"¹².

    La normativa a tutela del patrimonio artistico tuttavia trovò un’effettiva applicazione da quando nel 1515 Leone X nominò Raffaello Sanzio Ispettore generale delle Belle Arti.

    Con l’apertura del Concilio di Trento nel 1545 ad opera di Papa Paolo III (1534-1549) andò crescendo una nuova consapevolezza dell’importanza dell’arte sacra per il linguaggio liturgico e si intensificò l’opera di vigilanza e tutela delle opere d’arte di interesse religioso. Con il Breve del 28 novembre 1534 fu affidato a Latino Giovenale Manetti il ruolo di commissario delle antichità con il compito di vigilare sulla conservazione delle opere d’arte e di impedirne l’esportazione da Roma, ruolo che sarà affidato nel 1547 a Michelangelo, il quale continuò ad esercitarlo anche sotto il pontificato di Giulio III (1550-1555), Paolo IV (1555-1559) e Pio IV (1559-1565), con cui si chiuderà il Concilio di Trento.

    Con la Bolla "Quae publicae utilia" del 1574 il Papa Gregorio XIII ribadì l’istituto del vincolo sui beni privati d’interesse storico-artistico¹³. A partire dalla prima metà del ’600 furono emanate delle norme finalizzate ad impedire l’esportazione di ogni tipologia di bene culturale, in modo da ostacolare il mercato collezionistico. Tra le innovazioni, questa norma introduceva il diritto di prelazione da parte dello Stato Pontificio e la redazione di una lista, in continua espansione, che comprendesse quelle tipologie di opere d’arte che non potevano essere esportate senza un’apposita licenza.

    Il Cardinale Ippolito Aldobrandini nel 1624 emanò un editto che prese il suo nome, con lo scopo di proibire l’esportazione di antichità e oggetti d’arte senza licenza del Papa e disponeva l’obbligo di notifica dei beni rinvenuti durante gli scavi, prevedendo per i trasgressori anche pene pecuniarie¹⁴.

    Questo editto è considerato il fondamento della normativa a tutela delle opere d’arte soprattutto perché estendeva la tutela giuridica ai lavori sia antichi che moderni e tenendo comunque conto del nascente collezionismo che ha determinato nei secoli la costituzione di importanti raccolte museali.

    Sotto il pontificato di Innocenzo XII, nel 1686, fu emanato dal Cardinale Altieri un altro editto in cui si sancì l’obbligo di controllare preventivamente casse, barche e altri mezzi di trasporto per evitare che vi fossero sottrazioni clandestine di beni o mercati illeciti di opere contraffatte. Innocenzo XII, inoltre, istituì una vera e propria scuola di formazione per addetti alla conservazione e manutenzione di opere d’arte (gli odierni restauratori), utilizzando a questo scopo il complesso di San Michele a Ripa Grande che, da ospizio per anziani ed emarginati, divenne un luogo di formazione professionale.

    Negli anni successivi, anche a seguito della consapevolezza del grande patrimonio culturale che Roma possedeva, nacque l’idea di considerare i beni non più singolarmente ma come parte del contesto storico-artistico all’interno del quale erano stati prodotti. Questo permise di includere tra i beni degni di tutela anche quelle testimonianze scritte che prima d’allora non erano state oggetto di attenzione. Con l’editto del cardinal Spinola del 1704 per la prima volta vennero considerati oggetti di tutela anche i "libri manoscritti et altre scritture tanto pubbliche quanto private"¹⁵. Questo editto aveva la finalità di tutelare la conservazione dei documenti come espressione fondamentale di storia e identità, sia sacra, sia profana. Il provvedimento più evoluto, nella legislazione settecentesca, è l’editto del cardinale Valenti, emanato sotto il pontificato di Benedetto XIV, in cui si volle dare una disciplina organica alla materia¹⁶. L’innovazione più significativa è rappresentata dall’istituzione di assessori per la pittura, la scultura e per le cose antiche, con il compito di valutare i beni prima di autorizzarne l’esportazione: l’innovatività di tale provvedimento è data dall’emergere della nuova consapevolezza relativa all’impatto turistico della conservazione delle reliquie, che sono considerate un mezzo per attrarre a Roma eruditi e appassionati, nonché un’utile testimonianza della storia sacra. Si abbandona inoltre l’idea di inserire in un apposito elenco le opere da salvaguardare e la tutela viene estesa a tutte le opere illustri di pittura e scultura, specialmente quelle più stimabili e rare per la loro antichità. L’organo istituito per la tutela dei beni culturali dipendeva dalla Camera Apostolica, ovvero dal Cardinale Camerlengo, coadiuvato da tre assessori: uno competente per la pittura, uno per la scultura e l’ultimo per cammei, medaglie e incisioni.

    L’enorme patrimonio artistico in possesso dello Stato Pontificio subì tuttavia delle gravi spoliazioni alla fine del 1700 a seguito dell’invasione napoleonica: nel 1796, infatti, con l’armistizio di Bologna, Napoleone Bonaparte impose allo Stato Pontificio di cedere alla Francia cento opere d’arte e cinquecento manoscritti¹⁷.

    A seguito di questi avvenimenti storici e politici devastanti papa Pio VII, avvertendo la necessità di proteggere maggiormente il patrimonio culturale, si fece promotore di una legislazione ancora più ampia e puntuale¹⁸. Sotto il suo pontificato fu emanato, ad opera del Cardinale Bartolomeo Pacca, l’editto del 7 aprile 1820, noto per essere il primo ad aver dettato una disciplina organica di tutela, che fu presa a modello per la legislazione degli altri Stati preunitari e, successivamente, per quella nazionale. Riprendendo e perfezionando la normativa precedente, in particolare il chirografo dello stesso Pio VII del 1° ottobre 1802, l’Editto Pacca (completato dal regolamento di esecuzione del 6 agosto 1821) previde infatti l’obbligo di denunciare e descrivere alla Commissione di belle arti tutti gli oggetti d’antichità e d’arte che si trovassero nelle chiese o in qualunque stabilimento ecclesiastico o secolare, in modo da consentirne la catalogazione, imponendo altresì una serie di vincoli e controlli per la conservazione, il restauro e la circolazione degli stessi oggetti, distinguendo quelli «di singolare e famoso pregio per l’arte e per l’erudizione» (che possono essere alienati solo all’interno dello Stato e previa licenza) da quelli non ritenuti «necessari o di sommo riguardo per il Governo» (dei quali comunque doveva essere denunciata l’alienazione, pena la confisca, ed era vietata l’esportazione senza una licenza che poteva essere concessa previo pagamento di un dazio del 20% del valore di mercato)¹⁹. Questa normativa aveva un carattere protezionistico molto ampio e non incideva solo sul divieto di esportazione e danneggiamento o di rimozione delle cose atte al pubblico ornamento, bensì giungeva a prevedere una forma di catalogazione sistematica dell’ingente patrimonio storico- artistico Pontificio. L’editto Pacca, tra le altre novità, perfezionò l’organo della Commissione delle Belle Arti, già istituito in precedenza dall’editto Doria Pamphilj e a questo delegò il compito di sorvegliare sull’applicazione della legge, sia in materia di conservazione sia per quanto concerneva il restauro delle opere d’arte.

    Un profondo cambiamento rispetto al passato si ebbe con l’ampliamento e la ridefinizione del concetto di bene da tutelare che andò a comprendere anche quella serie di opere cosiddette minori, nonché le opere di artisti locali sconosciuti ai più. L’editto prescriveva inoltre norme precise sulla questione di vincolo delle opere d’arte di proprietà sia pubblica che privata, ridefinendo le regole riguardanti gli scavi archeologici e l’esportazione, istituendo anche un diritto di prelazione dello Stato nei confronti delle opere in vendita.

    Alla legislazione pontificia si sono ispirate, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, le politiche borboniche del Regno di Napoli, finalizzate soprattutto a frenare l’esportazione dei reperti archeologici degli scavi di Pompei ed Ercolano (ai quali dette nuovo impulso Carlo III, che istituì anche l’Accademia ercolanense). Di diretta ispirazione dall’Editto Pacca è il decreto di Ferdinando I, del 13 maggio 1822, il quale disciplinò in maniera ampia ed organica la tutela di monumenti, edifici e scavi, vietando l’uscita dal Regno delle Due Sicilie di oggetti d’antichità e d’arte, salvo quelli per i quali una Commissione di Antichità e Belle Arti (sostituita nel 1860 dal Consiglio di Soprintendenza del Museo Nazionale e degli Scavamenti di Antichità) avesse dato licenza, giudicandoli di minore interesse²⁰.

    2. Il patrimonio culturale nella politica dello Stato unitario. Le problematiche legate alla legislazione eversiva del patrimonio ecclesiastico.

    Successivamente all’unificazione nazionale, il problema prioritario del Regno fu la costruzione di un apparato istituzionale ed amministrativo unitario, cercando nel contempo di trovare delle risposte immediate alle emergenze belliche e finanziarie: pertanto la tutela del patrimonio artistico non fu considerata una priorità a livello politico e legislativo.

    Il nuovo Regno d’Italia, inoltre, era caratterizzato da una politica economica liberista che non manifestava una propensione ad occuparsi della protezione dei beni artistici e storici extrademaniali, a maggior ragione se doveva essere svolta attraverso un’azione pubblica limitativa delle iniziative individuali e della proprietà privata. Lo Statuto Albertino, infatti, era fortemente influenzato dall’ideologia liberista che riteneva un abuso ogni ingerenza pubblica che condizionasse la commerciabilità dei beni di proprietà privata: tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili²¹. Il carattere fondamentalmente liberal-borghese dell’ordinamento dell’epoca si rifletté anche nell’elaborazione del codice civile e precisamente nelle disposizioni di attuazione adottate con il regio decreto del 30 novembre 1865 n. 2606, in cui si sanciva l’abolizione dei fedecommessi, ritenuti un limite illegittimo alla libera circolazione dei beni. Tuttavia l’istituto del fedecommesso rappresentava un fondamentale strumento di tutela delle collezioni d’arte, in quanto permetteva di tramandarle agli eredi integre con il vincolo di conservarle intatte e di non smembrarle²².

    Il conseguimento dell’unità d’Italia, pertanto, non determinò affatto uno sviluppo della tutela delle antichità e belle arti di proprietà privata, ma, al contrario, rappresentò un’inversione di tendenza rispetto al blocco della dispersione del patrimonio culturale introdotto, come abbiamo visto, nella prima metà dell’Ottocento.

    L’interesse nei confronti di una politica nazionale di tutela del patrimonio artistico si sviluppò solo a partire dal 1865, quando fu emanato il primo provvedimento di politica culturale del Regno d’Italia, rappresentato dalla legge n. 2359 del 25 giugno 1865, la quale sanciva la facoltà dell’amministrazione di disporre l’espropriazione dei monumenti abbandonati dai legittimi proprietari. Questa legge, sulle espropriazioni di monumenti storici o di antichità nazionale per causa di utilità pubblica, non ricollegava però la tutela degli oggetti d’arte ad un interesse pubblico, poiché, secondo il suo relatore Pisanelli, ...troppo sarebbe stata vincolata e ferita la proprietà individuale ove la facoltà di espropriare si fosse estesa ai mobili²³.

    In mancanza di norme specifiche sul patrimonio artistico-storico, finirono sostanzialmente col restare in piedi le leggi che erano in vigore nei preesistenti ordinamenti dei singoli stati pre-unitari, la cui validità venne confermata con la legge 28 giugno 1871 n. 286, la quale stabilì (art. 5) che finchè non sia provveduto con legge generale, continueranno ad avere vigore le leggi ed i regolamenti speciali attinenti alla conservazione dei monumenti e degli oggetti d’arte²⁴. In conseguenza di ciò, la legislazione dei primi quarant’anni di unità nazionale fu caratterizzata, dunque, dal permanere di una disciplina territorialmente differenziata dei beni culturali.

    La complessa storia della tutela del patrimonio artistico italiano, delle trasformazioni nella sua geografia e degli organismi per la sua conservazione attraversò un momento cruciale con l’emanazione da parte del Regno d’Italia delle leggi sulla proprietà ecclesiastica²⁵. L’insieme di provvedimenti, incentrato sulla soppressione di enti religiosi (nel 1860-1861 in Umbria, Marche e Province napoletane, nel 1866 nell’intero territorio nazionale) e sulla liquidazione dell’asse ecclesiastico (1867) colpì un patrimonio, quello delle corporazioni religiose – secondo l’espressione utilizzata nelle leggi – che per committenza, storia, valore e diffusione costituiva parte notevole della ricchezza artistica italiana. In una fase di delicata organizzazione dello Stato e di grave difficoltà economica, monumenti, chiese, edifici, opere d’arte e arredi sacri vennero chiusi, abbandonati, espulsi, privati dell’uso, dell’appartenenza culturale e patrimoniale originari.

    Tale contingenza fece emergere una grave emergenza conservativa, ma non solo: come già avvenuto con le leggi eversive degli antichi Stati italiani e, soprattutto, dei regimi napoleonici, il passaggio alla proprietà pubblica dei beni artistici ecclesiastici fu un momento denso di implicazioni culturali, se non più globalmente politiche²⁶.

    In quegli anni la legislazione sui rapporti Stato-Chiesa era al centro della vita politica nazionale e i provvedimenti di riordino del patrimonio ecclesiastico inevitabilmente coinvolgevano aspetti connessi alla tutela del patrimonio artistico. Il primo progetto di legge volto a risolvere il problema della tutela dei beni culturali di interesse religioso venne presentato il 18 gennaio 1864 dall’allora guardasigilli Pisanelli e mirava a sanare il conflitto tra Stato e Chiesa, limitandosi a riordinare gli enti e a gestirne più razionalmente i beni, senza incamerarli. Questi infatti venivano ceduti ad un Fondo per il culto, che li avrebbe conservati alla destinazione originaria impiegandoli esclusivamente per coprire le spese di culto, compresi i restauri delle chiese monumentali. Fu il solo progetto che conservava i capitoli delle chiese collegiate dichiarati dal governo monumenti e ricordi della storia nazionale, vedendo nel mantenimento della proprietà ecclesiastica la forma migliore di custodia e conservazione di quei beni che, sulla base di un binomio assente nei decreti precedenti e capace di unire valore artistico e celebrazione storica e patriottica, venivano isolati dal patrimonio globale e riconosciuti degni di una speciale tutela²⁷.

    Generiche erano tuttavia le indicazioni relative al patrimonio artistico: se libri, manoscritti e documenti scientifici venivano devoluti alle pubbliche biblioteche, per i monumenti, gli oggetti d’arte, i mobili preziosi e gli archivi conservati nelle chiese e negli edifici religiosi si rimandava a successive disposizioni del governo, stabilendone il complesso iter ma senza indicare le modalità e i responsabili della conservazione delle opere.

    A differenza di quanto avvenne in altri Paesi europei, in cui lo Stato incamerò direttamente i beni degli enti soppressi, nel Regno d’Italia l’enorme patrimonio acquisito (anche di rilevanza artistico-culturale) fu affidato ad un ente distinto dallo Stato e dotato di autonomia patrimoniale e gestionale, denominato dal 1866 Fondo per il Culto.

    In tal modo si volle rispettare il principio della separazione tra Stato e Chiesa e nel contempo non far gravare sul bilancio del giovane Regno le spese del mantenimento del clero. Il Fondo conservava la proprietà degli edifici sacri aperti al culto ritenuti necessari alle esigenze spirituali della popolazione e parte dei complessi conventuali annessi a tali edifici, perché strettamente connessi con le esigenze pastorali delle chiese stesse²⁸.

    Le chiese che l’Amministrazione del Fondo per il culto manteneva officiate erano eccettuate dalla devoluzione al demanio, così come il loro corredo di opere e di arredi sacri, conservati all’uso nelle rispettive chiese²⁹. Il Fondo, inoltre, mirava a trasferire sui municipi le spese di conservazione e officiatura delle chiese aperte al culto, fino a cedere un gran numero di queste alle amministrazioni comunali, senza un significativo ruolo del Ministero della pubblica istruzione, a cui era affidato il controllo sui beni di interesse artistico: al di là delle raccomandazioni che le cessioni fossero legate a garanzie di conservazione degli edifici di importanza storico-artistica, e alle richieste di chiarimenti sugli impegni dei municipi a mantenere le chiese al pubblico culto, pochi furono infatti i suoi interventi concreti³⁰.

    Se la valenza liturgica dei beni ecclesiastici veniva rispettata nelle intenzioni del legislatore, non era altrettanto per quella artistica-culturale. Lo stesso uso rituale, che pur garantiva un livello minimo di controllo e di cura, poteva tuttavia costituire motivo di degrado, di deperimento e di pericolo per gli oggetti, soprattutto se sommato ad una custodia inadeguata ed a condizioni ambientali non adatte³¹.

    Alla liquidazione dell’asse ecclesiastico si provvide, in un momento di profonda crisi della finanza pubblica, con la legge del 15 agosto 1867, n. 3848, che disponeva l’abolizione di enti ecclesiastici e la devoluzione dei relativi patrimoni al demanio, nonché l’amministrazione e alienazione del demanio dei beni acquisiti in forza dei vari provvedimenti soppressivi.

    Il progetto di legge era giunto all’esame della Camera senza alcun accenno ad edifici e beni storico-artistici: fu su proposta del deputato Pescatore, concordata con la Commissione relatrice, che venne stabilito il mantenimento delle opere destinate alla conservazione di monumenti, designate insieme agli edifici da conservare al culto con decreto reale da pubblicarsi contestualmente alla legge³². Il provvedimento legislativo approvato, tuttavia, risultò insufficiente, non formalizzando nemmeno il ruolo e la competenza del Ministero della pubblica istruzione.

    Vennero eccettuate dalla soppressione le fabbricerie, le opere destinate alla conservazione di monumenti e gli edifici sacri conservati al culto, da designarsi con decreto entro un anno.

    Le librerie, gli archivi, gli oggetti d’arte provenienti dagli enti soppressi, diversamente da quanto dichiarato, non furono oggetto di alcuna disposizione conservativa e dall’alienazione dell’intero asse ecclesiastico vennero escluse solo le chiese mantenute al culto e i monumenti: per gli altri edifici, l’eventuale presenza di elementi artistici e storici veniva risolta facendo speciale riferimento nel capitolato di vendita alle prescrizioni e condizioni atte a garantirne la conservazione³³.

    La lunga e tormentata vicenda del riordinamento della materia ecclesiastica fu un processo che interessò tutto il territorio italiano e incise drasticamente non solo sui rapporti tra Stato e Chiesa e sul diritto pubblico ecclesiastico fino alla svolta concordataria del 1929, ma ebbe l’effetto di distruggere la proprietà immobiliare ecclesiastica determinando una svolta cruciale nella storia della gestione del patrimonio culturale italiano. Il nuovo Stato manifestava infatti la volontà di impegnarsi nella conoscenza e tutela del patrimonio artistico e culturale, anche attraverso l’acquisizione forzata dei beni artistici provenienti dall’ormai debellato Stato Pontificio.

    Negli anni 1875–76, Ruggiero Bonghi, allora Ministro della pubblica istruzione, gettò le basi dell’organizzazione amministrativa del settore istituendo la Direzione centrale degli scavi e dei musei (in seguito divenuta Direzione generale delle antichità e belle arti), una Commissione consultiva conservatrice dei monumenti d’arte e d’antichità in ciascuna provincia e gli ispettori nei maggiori comuni³⁴. Fu però solo nel 1902, con la legge Nasi (12 giugno 1902, n. 185), che si introdusse la prima compiuta disciplina nazionale in materia. La legge conteneva disposizioni per la tutela e la conservazione dei monumenti e degli oggetti caratterizzati dalla dichiarazione di pregio di antichità o di arte

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