Mario Cutelli e l'idea di nobiltà nella Sicilia spagnola
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Anteprima del libro
Mario Cutelli e l'idea di nobiltà nella Sicilia spagnola - Valentina Vigiano
633/1941.
SIGLE E ABBREVIAZIONI
ABP = Atti, Bandi e Provviste (serie documentaria dell’Archivio Storico del Comune di Palermo)
ASCl = Archivio di Stato di Caltanissetta
ASCP = Archivio Storico del Comune di Palermo
ASE = Archivio di Stato di Enna
ASP = Archivio di Stato di Palermo
ASS = Archivio Storico Siciliano (rivista)
ASSO = Archivio Storico per la Sicilia Orientale (rivista)
BCP = Biblioteca Comunale di Palermo
BRC = Biblioteca Regionale di Catania
BZA = Biblioteca Zelantea di Acireale
DBI = Dizionario Biografico degli Italiani
HSNG = Horae Subsecivae de Nobilitate Gentilitia in tres libros divisae
NLM = National Library of Malta
VSN = Vindiciae Siculae Nobilitatis
PREMESSA
La presente pubblicazione comprende una versione ampliata di alcune ricerche della sottoscritta sull’idea di nobiltà nella Sicilia del XVII secolo, già in parte confluite in uno dei capitoli del volume La Sicilia dei Moncada, a cura di L. Scalisi ed edito nel 2006 dall’editore Domenico Sanfilippo.
L’analisi dell’uso politico dell’idea di nobiltà nel dibattito politico siciliano fra XVI e XVII secolo fa da sfondo alla ricostruzione del contesto in cui Mario Cutelli, presumibilmente attorno all’anno 1640, elaborò il libello Vindiciae siculae nobilitatis. Scopo del noto giurista catanese era quello di tracciare una netta linea di demarcazione fra l’antica nobiltà dell’isola, che poteva vantare avi illustri e purezza di costumi
, e quella recente, le cui origini la rendevano troppo contigua al milieu sociale non nobiliare.
Per l’autore delle Vindiciae entrambe le nobiltà erano inidonee a fornire i nuovi membri dell’élite del Regno: gli antichi nobili, troppo presi dalla difesa dei propri privilegi, non mostravano quell’affidabilità necessaria a creare un solido rapporto fiduciario con la Corona; i nuovi nobili, d’altra parte, erano troppo vicini alla venalità per divenire parte di quella nobiltà di servizio, che sembrava necessaria a garantire un’azione di governo più efficace. Quale la soluzione proposta da Cutelli? Reclutare fra i rampolli delle famiglie nobili delle città siciliane i nuovi esponenti dell’élite. Costoro avrebbero dovuto essere formati all’esercizio della politica, abbandonando completamente gli affari economici e costituendo il nuovo ceto dirigente, competente, leale e disinteressato.
Le idee del giurista rimasero solo tali e il libretto che le conteneva, fino ad oggi, non era mai stato edito, pur avendo avuto ampia diffusione. Da qui l’idea di pubblicarlo.
Il manoscritto dal titolo Vindiciae siculae nobilitatis ci è pervenuto in differenti esemplari: sei sono presenti nella Biblioteca Comunale di Palermo (mss Qq D 175, Qq E86,1 Qq E 133, Qq F 240, Qq H 57, 3Qq C 38), uno è conservato nel Fondo Ventimiglia (ms. 68) della Biblioteca Regionale di Catania, un altro fa parte dei manoscritti della Biblioteca Zelantea di Acireale (ms. III C 7 21) e l’ultimo è il manoscritto n. 27 della National Library di Malta.
Dopo aver effettuato un’attenta collazione delle diverse copie, si è scelto di trascrivere la versione dell’opera conservata presso la Biblioteca Regionale di Catania, che è risultata essere abbastanza concordante con le altre prese in esame, ad eccezione di alcune lectiones di scarsa significatività. Nella trascrizione sono state inoltre seguite le comuni e condivise regole di normalizzazione
2 delle forme documentarie.
Dopo essere stato in attesa di essere ultimato per anni, questo lavoro vede finalmente la luce grazie all’interesse, discreto quanto costante e cortese, del professor Filippo Galatà, Presidente dell’Associazione degli ex allievi del Convitto Cutelli, appassionato cultore dell’eredità immateriale dell’illustre giurista catanese.
Valentina Vigiano
Capitolo Primo.
I cavalieri ed i nuovi nobili
Restanu curri, e su pregiudicati
Di li pasquini, e di loru auturi,
Pirchì non divunu esseri tuccati
Conti, Marchisi, Principi e Baruni,
Massima a nomu e cognomu signati.
S’iu avissi a fari tali svariuni
Di nuddu parriria in particulari:
Lijria à tutti la vita in comuni.
Dirria ch’è un’arca d’asini e quagghiari
La nostra Nubiltà palermitana,
Chi nun sa né chi diri, né chi fari.
Dirria che Nubiltà tutta viddana,
Nubiltà tutta china di difetti,
D’ugni buntà, d’ugni virtù lontana.
Dirria chi sanno quattru paruletti
Di cerimonij ‘mparati à la menti,
Su di lu restu poi tutti imperfetti. …
Dirria chi mancu sannu cavalcari,
Né scrimiri, chi convennu à Cavaleri,
Chi non fann’autru chi carruzziari
E susu e jusu, davanti e darreri,
Vannu tuttu lu càssaru girannu
Cu milli lascivissimi pinzeri;
Vannu tra li carrozzi salutannu
Tutti li donni maritati e schetti,
L’arrobbanu cu l’occhi taliannu.3
Secondo l’autore di questa pasquinata tardo-seicentesca la nobiltà palermitana del periodo era attraversata da una gravissima degenerazione di costumi: i Signuri
della felice non si dedicavano più alle occupazioni tipiche dei Cavaleri
(andare a cavallo e tirar di scherma), ma trascorrevano le loro giornate passeggiando inoperosi lungo la principale via del centro cittadino (il Cassaro). Conti, Marchesi, Principi e Baroni residenti a Palermo, inoltre, non potevano più fregiarsi d’alcuna virtù, e tutto questo perché l’antica ed originaria distinzione fra Signuri e Cavaleri
, da una parte, e viddani
o popolari, dall’altra, era stata annullata. Il salace poeta anonimo presentava, quindi, la nobiltà palermitana come un blocco unitario, al cui interno le pur esistenti differenze gerarchiche insite nel possesso di titoli nobiliari diversi (Barone, Conte, Marchese e Principe) divenivano di certo trascurabili di fronte alla diffusa e comune rozzezza del comportamento, che aveva cancellato ogni linea di demarcazione fra nobili e popolari.
Appartenere al milieu sociale nobiliare ed essere incolto ed inesperto nelle armi era, dunque, nell’universo mentale di un popolare
del XVII secolo, un’antitesi inconciliabile: i nobili si distinguevano dal resto della comunità sociale perché si attenevano al mos nobilium, una sorta di stile di vita caratterizzato dall’esercizio quotidiano di attività non volgari
, al quale si giungeva attraverso un percorso educativo che aveva i suoi tratti distintivi nella pratica delle lettere e, soprattutto, nella consuetudine con le attività cavalleresche.4
Queste ultime ricordavano l’originaria funzione militare del ceto nobiliare. Nonostante la pratica dell'adoamento5 avesse, infatti, svilito il ruolo militare del baronaggio del Regnum Siciliae, quella che in passato era stata una prerogativa esclusiva del gruppo nobiliare permaneva nell'adesione dei suoi membri a modelli culturali ed educativi che tracciavano delle invalicabili frontiere verso l'esterno.6 La persistenza degli archetipi nobiliari cavallereschi era del resto testimoniata dal favore che le frequenti indizioni di giostre e tornei militari riscuotevano presso i membri delle élites delle principali città dell’isola, i quali consideravano un titolo di onore la partecipazione a queste vere e proprie dimostrazioni di valore militare7 e conservavano gelosamente tutti gli arnesi utili ai milites. Armi ed armature si affiancavano poi, nelle lussuose dimore di questi ultimi, a biblioteche ricchissime di testi sulla pratica cavalleresca e gli inventari ereditari degli appartenenti al milieu nobiliare siciliano attestano tutto questo.8 Un esempio fra molti possibili: Francesco Moncada, principe di Paternò e conte di Caltanissetta dal 1572 al 1592, possedeva armi ed armature, mentre la sua biblioteca comprendeva alcune fra le opere più diffuse negli ambienti delle élites aristocratiche del tempo. All’interno delle casse esaminate in occasione della compilazione del suo inventario post mortem si trovavano infatti Gli ordini di cavalcare di F. Grisoni (Napoli 1550), i Discorsi delli trionfi giostre apparati e delle cose più notabili fatte nelle sontuose nozze dell’ill.mo duca Guglielmo di M. Troiano (Monaco 1569), il Dialogo dell’honore di G. B. Possevino, l’Origine del nobilissimo ordine del Tosone di G. F. Pugnatore (Palermo 1590), La gloria del cavallo di P. Caracciolo (Venezia 1586) e l’Origine de’ cavalieri di F. Sansovino (Venezia 1556).9
Anche per i Signuri e Cavaleri, dunque, e non soltanto per i popolari, fra pratica cavalleresca e nobiltà continuava ad esistere una stretta contiguità. Tutto questo nonostante le modifiche intervenute nell’organizzazione degli eserciti nell’Europa della prima età moderna avessero concorso ad abbattere gli antichi steccati fra nobili e popolari. Fra la fine del XV secolo e l’inizio del successivo, infatti, la tradizionale attrazione dei nobiles per la vita militiae venne progressivamente affiancata dalla diffusione di eserciti plebei, istruiti nelle nuove tecniche belliche in cui le armi fiammeggianti
erano destinate a soppiantare in breve le eleganti armature e i valorosi cavalieri del passato.10
Oltre che nella pratica delle arti cavalleresche, che continuò a costituire parte essenziale dell'educazione dei giovani nobili, nel mondo culturale e ideologico di molte casate dell'aristocrazia urbana siciliana l'antico ruolo militare della nobiltà permase nell'esaltazione del valore dell'onore. Il tema dell'onore divenne di moda a partire dalla metà del Cinquecento, quando il mercato librario italiano fu invaso da testi che rintracciavano appunto nell’onore uno degli elementi costitutivi dello status nobiliare.11
Nel 1567 venne edito a Bologna un Trattato dell’onore vero e del vero disonore, scritto da Gerolamo Cammarata, «dotto ed erudito medico e poeta» di Randazzo.12 L’autore siciliano riproponeva il vecchio dilemma umanistico sulla superiorità delle lettere o delle armi nella formazione dei giovani nobili, facendo pendere la bilancia a favore delle arti cavalleresche. Del medesimo avviso sarebbero stati, alcuni decenni dopo, il messinese Antonino Ansalone-