Per una storia della tutela del patrimonio culturale
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Per una storia della tutela del patrimonio culturale - Maria Beatrice Mirri
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Introduzione
L’esigenza di salvaguardare il patrimonio artistico e culturale[1] è propria di tutte le civiltà: ogni cultura riconosce ad alcune sue produzioni la funzione di preservare la propria memoria storica e le considera come tracce con cui è possibile ricostruire, talvolta in senso mitico, il percorso già compiuto fino al presente.
I beni culturali sono quindi monumenti (da monere, ricordare), immagini vive della memoria che concorrono a definire e mantenere simbolicamente l’identità di un popolo nel tempo. La salvaguardia di tali produzioni umane, cui si attribuisce un valore sociale e artistico, si fonda sulla coscienza di un interesse collettivo (relativo a un popolo o un gruppo) verso quei simboli di identità e di continuità con il passato. Tale concetto è proclamato dall’art. 1 del codice dei beni culturali e del paesaggio (c.b.c.): In attuazione dell’art. 9 della Costituzione, la Repubblica tutela e valorizza il patrimonio culturale.. La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura
.
Solo la costruzione di un corpus giuridico, specifico e coerente, che protegga e tramandi le testimonianze e i caratteri di una tradizione comune, può difendere il comune patrimonio artistico e culturale dagli eventi della storia. Come ha lucidamente osservato Andrea Emiliani, una legge di tutela può essere prima di tutto un’esperienza correttamente conoscitiva, uno strumento culturale sulla cui efficacia non si è mai riflettuto. Per quanto riguarda le normative di tutela, salvaguardia e conservazione, le leggi appaiono le sole affermazioni pubbliche, addirittura popolari, affaccendate a disegnare la nozione di un patrimonio, di una eredità, di un impegno.. che si presenta alla società come cosa diversa
[2].
Nasce così la tutela, l’insieme di norme e attività che la società predispone per garantire la difesa del suo patrimonio e il godimento pubblico dei beni che lo compongono.
Ripercorrendo la storia della tutela e conservazione del patrimonio artistico dall’antichità ad oggi si possono comprendere le ragioni della disciplina attuale, che costituisce il punto di arrivo di una lunga tradizione[3].
[1] Tradizionalmente si fa riferimento al patrimonio artistico, che fin dall’antichità è stato protetto e conservato: ma, se si riflette sull’importanza storica dei beni e sulla salvaguardia degli archivi e biblioteche, come pure sulla tutela del paesaggio negli ultimi cento anni, allora è preferibile parlare di patrimonio culturale, concetto più moderno e omnicomprensivo.
[2] A. Emiliani, I materiali e le istituzioni, in Storia dell’arte italiana, p. I, v. I, Einaudi, Torino, 1979, p. 106.
[3] Sulla tutela culturale fondamentale è il riferimento a T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali, Giuffrè, Milano, 2001.
Il patrimonio culturale nel mondo antico
Per comprendere la dimensione giuridica del patrimonio artistico occorre partire dal valore che si attribuisce a certe cose, al di là della considerazione di tipo economico o utilitaristico: ogni popolo, fin dalle civiltà primitive, ha dato a certi oggetti, luoghi, pietre, formazioni naturali o composte dall’uomo un valore speciale, collegato alla civiltà di un gruppo sociale o di una etnia (come accade per il linguaggio, l’abbigliamento, il modo di vivere, di costruire, di mangiare, di combattere etc.).
Spesso ciò era collegato ad aspetti soprannaturali, religiosi, altre volte alla vita stessa di quel gruppo o etnia: ed è questo che nel momento della lotta con altre genti veniva a rappresentare quel popolo e, se esso soccombeva, era bottino del vincitore.
Emblematico è il rituale del trionfo nell’antichità e in particolare a Roma, ove il toponimo Via Trionfale indica ancora oggi la strada che da nord entrava in città ed era percorsa dai generali vittoriosi col loro seguito di capi vinti, legati al carro trionfale, ornato dei simboli più importanti della popolazione domata e umiliata. Il corteo, al centro del quale stava il generale che aveva riportato la vittoria sul nemico, era formato da senatori, truppe, prigionieri e trofei e sfilava da Campo Marzio fino al tempio di Giove Capitolino, dove venivano offerti sacrifici. I tesori d’arte, dopo il trionfo, erano sistemati in luoghi pubblici come portici, atrii o piazze e destinati al godimento di tutti. Le prime collezioni di oggetti, cui attribuire un particolare valore, sono state legate innanzitutto alla religione e quindi anche al tesoro pubblico (che contiene anche gli archivi): i bottini di guerra e determinati prodotti erano trasmessi da una generazione all’altra e le opere d’arte, associate al potere, servivano come mezzo di scambio; allo stesso tempo, per il loro valore intrinseco, basato sul metallo prezioso o le pietre rare di cui erano composte, costituivano riserva di ricchezza pubblica e simbolo del credito nazionale[1].
Gli arredi funerari egiziani, le raccolte dei re sumeri e caldei, le biblioteche eblaite, babilonesi e assire compongono le collezioni più ricche dell’antichità, eredità riunite poi dai re ellenistici nella biblioteca e nel museo di Alessandria, una delle sette meraviglie del mondo antico. Nella Grecia antica i tesori dei templi e santuari avevano un altro scopo, oltre a quello religioso: le città-stato li usavano come banche o depositi e luoghi di raccolta di ostaggi di guerra e dei bottini. Le raccolte d’arte greche erano di proprietà pubblica ed esposte nei templi, nelle agorà o pinacoteche e nei ginnasi.
Insieme al progresso del livello di vita e civiltà di una popolazione cresce anche l’insieme di cose cui attribuire un valore più alto, proprio perché rappresentano meglio la cultura di quel gruppo (si pensi al rapporto tra Etruschi, Greci e Romani).
[1] Per una considerazione di tipo economico e sociale cfr. F.H. Taylor, Artisti, principi e mercanti. Storia del collezionismo da Ramsete a Napoleone, a cura di L. Salerno, Einaudi, Torino, 1954, p. 17 ss.
Il patrimonio culturale a Roma
Nell’antica Roma, dopo un periodo iniziale più rude e pratico (in cui le arti erano definite con disprezzo sedentariae et illiberales)[1] si passa – grazie al contatto con civiltà più evolute – ad apprezzare la cultura e le cose che maggiormente la rappresentano ed incarnano.
Vengono così emanate le prime disposizioni per tutelare gli oggetti e gli edifici che si ricollegano a funzioni religiose, di tradizioni e memorie (si ricordi che il termine monumento deriva da monere) e a valori artistici: Augusto si vanta di aver trovato una Roma di fango e di averne lasciato una di marmo[2].
È il momento della trasformazione monumentale di Roma ad opera di Augusto (e dei suoi successori), con la ristrutturazione e il rifacimento dei santuari e la regolamentazione dell’altezza degli edifici: è l’apogeo della magnificenza degli edifici pubblici e privati per ricchezza di marmi e abbondanza di statue e di ori. ed anche la pittura, prima non creduta degna della grandezza romana, fu pregiata così che i più bei dipinti, di cui si adornavano le città soggette, furono trasportati a Roma
[3]. Si afferma allora la concezione della proprietà pubblica delle cose d’arte, riferita sia alle cose costituenti bottino di guerra sia alle statue e ai monumenti eretti in onore di personaggi illustri[4]. Narra Plinio che avendo Agrippa fatto porre davanti alle terme, che portavano il suo nome, un capolavoro di Lisippo ed essendosi Tiberio creduto nel diritto di disporne col farlo portare nel suo palazzo, il popolo lo reclamò e l’imperatore dovette rimettere il prezioso monumento al posto di prima
[5].
A Roma nasce e si sviluppa l’idea che l’opera d’arte è un bene pubblico, di cui tutti i cittadini devono godere: tale concezione sarà di grande importanza per la successiva evoluzione del collezionismo e della protezione del patrimonio artistico[6]. Due istituti sono importanti per la materia: la dicatio ad patriam, che si ha quando il proprietario volontariamente pone un suo bene a disposizione della collettività dei cittadini, assoggettandolo all’uso pubblico e ammettendo gli altri al suo godimento, e la deputatio ad cultum, la destinazione di un edificio a scopo religioso con la conseguente cerimonia di consacrazione o benedizione[7].
Narra Plutarco che Lucullo aveva raccolto libri in quantità e ben scritti, ma l’uso di essi era ancora più lodevole perché teneva sempre aperta a tutti la biblioteca, lasciando entrare Greci, senza chiudere la porta ad alcuno, dentro alle logge e ai luoghi ordinati per disputare che v’erano intorno, ove studiosi si ritiravano volentieri, come entrassero nel ricetto delle Muse, per trattenersi e discorrere insieme di lettere[8].
Tra le disposizioni emanate a tutela dei monumenti si può ricordare innanzitutto l’istituzione degli Aediles (che hanno l’incarico di custodire gli archivi, sovraintendere ai templi, alla manutenzione degli edifici e alla sorveglianza della città) e dei Comites nitentium rerum, che si occupano della conservazione degli edifici, pubblici e privati, e dell’ornato della città; diverse leggi secondo cui nessuno poteva levare un tetto, né disfare una casa, né variarne la costruzione senza il consenso dei magistrati
[9]. Valentiniano, Valente e Graziano ordinano l’abbattimento degli edifici privati fatti in luoghi pubblici contro l’ornato e il decoro della città e Teodosio vieta di guastare lo splendore degli ornamenti delle città, appoggiando e costruendo edifici a contatto dei monumenti pubblici.
Vespasiano e Adriano vietano di staccare dagli edifici pubblici e privati di Roma e di ogni altra città marmi e colonne per venderli; disporne separatamente dagli edifici cui afferiscono[10]; vendere e legare (lasciare per testamento) biblioteche, statue e dipinti, anche non aderenti alle pareti, se vi siano stati destinati dal padre di famiglia ad uso perpetuo[11]. Gli imperatori Maiorano e