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Sei libera, sii grande: Giuseppe Mazzini e il suo insegnamento
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E-book286 pagine4 ore

Sei libera, sii grande: Giuseppe Mazzini e il suo insegnamento

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Questo libro è un invito a prendere sul serio Mazzini e a oltrepassarne l'immagine stantia e impolverata di profeta, apostolo, mistico, credente nell'utopia dell'unità, fedele dell'idea repubblicana consegnatoci dalla manualistica e dalla parzialità di certa pubblicistica. Mazzini è stato anche questo. Quello che manca è una conoscenza profonda del suo insegnamento, capace di restituirne l'unità di pensatore che tenta di colmare l'abisso moderno che, almeno da Thomas Hobbes in poi, separa auctoritas e veritas. Mazzini fu un riformatore conservatore, un insurrezionalista che predicava una rivoluzione pacifica fondata sull'amore e la concordia, un cospiratore e un tattico che, pur conoscendo l'arte del machiavellismo, vi si elevava in nome di una missione dettata da un'entità trascendente regolativa che, guidando la storia, dona una prospettiva di significato universale e umanitario all'azione del cittadino religioso, impegnato a realizzare e rispettare i diritti e i doveri della res publica, a lottare per la libertà e l'autodeterminazione nazionale in nome del perfezionamento spirituale del mondo.
LinguaItaliano
EditoreRogas
Data di uscita15 mar 2022
ISBN9791221307580
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    Anteprima del libro

    Sei libera, sii grande - Marco Adorni

    Premessa

    Giuseppe Mazzini (1805-1872) scrisse, nel 1835: «L’avvenire è innanzi a noi, e Dio, padre di tutte le rivelazioni e di tutte le epoche, può solo additarcene l’immensa via. Sorgiamo dunque e facciamo d’essere grandi alla nostra volta» [1] . In apertura della prima sessione del Parlamento fiorentino (5 dicembre 1870), disse il re Vittorio Emanuele II (1820-1878): «L’Italia è libera ed una, ormai non dipende più che da noi il farla grande e felice» [2] . Nel soffitto della sala Maccari di Palazzo Madama, circondata da quattro medaglioni con figure allegoriche, spicca il motivo centrale della volta affrescata dall’artista senese nel 1888: una donna adornata di corona d’alloro, vestita di bianco e circondata da una fascia blu, su cui compare la scritta «Sei libera, sii grande».

    È l’Italia.

    Centocinquantadue anni dopo, i riferimenti all’orgoglio nazionale per la libertà conquistata e l’esortazione alla grandezza italiana suonano del tutto inattuali e raggiungono i territori del patetico se paragonati alla storia recente di questo Paese. Uno tra i principali scopi di questo lavoro è di dimostrare, invece, come il linguaggio del patriottismo possa ancora dire molto all’Italia del nostro tempo.

    L’ideologia neoliberale e la globalizzazione capitalistica hanno suscitato un risveglio del bisogno di comunità nazionali capaci di garantire benessere e sicurezza ai propri cittadini. Si assiste in questi ultimi anni a un ritorno al territorio, al desiderio di chiudere i confini per salvarsi dagli effetti demografici e socioeconomici della presa finanziaria, globalista e transnazionale sul bene comune. Questo ritorno all’etnicità e al nazionalismo non va demonizzato. Esso è il sintomo di un problema più profondo. Al di là delle forme grevi e rozze assunte da certo populismo, ciò che va rimarcato è che è stata proprio l’affermazione del globalismo deterritorializzante, causa prima dello svuotamento dell’identità culturale e nazionale, ad aver determinato il ritorno del rimosso nazionalista. Ma il punto vero è che il nazionalismo non è un intero ma un sistema composito ed eterogeneo che può servire tanto come strumento di riappropriazione della sovranità popolare e della democrazia quanto di soppressione delle libertà e dei diritti umani: il nazionalismo può essere tanto democratico quanto autoritario.

    Per questi e altri motivi, la politica occidentale contemporanea non è più leggibile esclusivamente con le lenti della tradizionale contrapposizione fra progressisti e conservatori, blocco occidentale versus blocco orientale, capitalismo contro comunismo. Va da sé che «sinistra» e «destra» esistano ancora come costellazioni di senso e di orientamento culturale e politico [3] . Tuttavia, tali categorie si esprimono su un piano di determinazioni ben diverse da quelle novecentesche. La tradizionale sinistra della classe operaia, anticapitalista e vicina al sentire popolare, è stata soppiantata dalla sinistra umanitaria e globalista dell’apertura dei confini, dei diritti civili rivendicati come nuove bandiere internazionaliste, con il risultato che la difesa del lavoro e della sovranità democratica e nazionale [4] non rientra più tra le sue priorità. Come ha scritto Alain de Benoist, «l’uguaglianza è ormai assimilata alla critica degli stereotipi e al superamento dei tabù, mentre lo sfruttamento economico è passato sotto silenzio. Le miserie sociali sono interpretate non più in termini di classe, ma di sociologia vittimaria, di insuccessi individuali o di categorie identitarie associate alla critica dell’esclusione» [5] .

    Quanto alla destra di questi ultimi tempi, se escludiamo quella gravitante nel campo moderato, sostanzialmente non dissimile dalla sinistra nella sottomissione ai diktat del potere tecno-finanziario, vi ritroviamo un sovranismo autoritario in tutto assimilabile al nazionalismo monarchico (dall’alto) dei tempi di Mazzini. Le forze sovraniste di destra giunte al potere in Europa ne sono a tutti gli effetti la prova più schiacciante. A fianco di una critica linguisticamente radicale nei confronti del Moloch globalista, in realtà ne riproducono il disegno biopolitico, amplificandone i tratti antidemocratici del patto sociale, con la brutale e sistematica violazione dei diritti individuali, della libertà d’espressione e in generale la negazione degli assunti fondamentali dello Stato di diritto novecentesco.

    La contrapposizione tra globale e nazionale fa il gioco dello svuotamento geneticamente neoliberale del politico e approfondisce lo scollamento tra rappresentanza e popolo.

    La ricomposizione tra questi due piani, fondamentale per la rialfabetizzazione alla dialettica democratica, non può avvenire finché la crisi dei sistemi politici occidentali non viene risolta nel segno della morte del «vecchio» e della nascita del «nuovo». Una delle vie per porre fine dell’interregno neoliberale così da curarne i «fenomeni morbosi» può essere l’eredità tramandataci dal repubblicanesimo conflittualista mazziniano, capace di tenere insieme i diritti e i doveri, la libertà e l’autorità. Il concetto di libertas repubblicana, infatti, è

    non-dominio e non si restringe mai, per principio, alla sfera individuale: io non posso essere libero, se la comunità politica cui appartengo non lo è. Questa concezione, che concepisce la società come un campo di forze il cui corso non è mai dato in anticipo, implica evidentemente il primato del politico, l’unico capace di imporre e garantire la libertà di un popolo o di un Paese. La libertà repubblicana si preoccupa della società in quanto tale, mentre la libertà liberale la ignora superbamente [6] .

    Mazzini è pensatore della libertà nella democrazia, non della libertà liberale. È stato questo ad aver spesso impedito alla storiografia liberale di comprenderlo, a volte anche scientemente. L’accusa più spesso rivolta al pensiero mazziniano è quella di scarsa scientificità, insufficiente rigore teorico. Sicuramente in ciò hanno avuto un ruolo tanto il militantismo quanto l’eclettismo mazziniano. La strada che abbiamo deciso di percorrere è di evitare di voler spiegare tutto. Riteniamo si basi su un presupposto sbagliato l’idea che il pensiero di un autore sia perfettamente rappresentabile solo con gli strumenti della logica: un approccio, questo, sposato in primis da gran parte della storiografia liberale che, in nome di una presunta obiettività neutrale, quando è stata costretta a riconoscere la validità e la forza teorica di concetti e intuizioni mazziniane, le ha ricondotte alla tradizione dei padri nobili del liberalismo, naturalmente dopo averne filtrato gli elementi irregolari e non utilizzabili come sostegno delle proprie tesi.

    Lo studio di Mazzini permette di mettere a tema uno dei problemi della nostra democrazia: l’incapacità di fornire risposte di senso. Nell’ottica di Mazzini, ma anche di pensatori liberali come Alexis de Tocqueville (1805-1859), il problema è che il moderno ha spezzato il nesso tra religione e politica, con il risultato di togliere la terra sotto i piedi all’ordine democratico. La difficoltà nell’interpretare correttamente il lascito mazziniano dipende anzitutto dal diffuso consenso guadagnato dall’univoca interpretazione del liberalismo che ha cominciato a imporsi a partire dalla seconda metà del secolo scorso a opera dei cosiddetti Cold War Liberals, una delle cui creazioni in vitro è stata la mistificatoria contrapposizione tra democrazia liberale e democrazia totalitaria. Questa dicotomia ha di fatto impedito la diffusione nel senso comune della consapevolezza delle notevoli differenze all’interno degli autori della scuola liberale nonché dei radicati problemi alla base della difficoltosa coesistenza tra famiglia liberale e democratica. «Democrazia liberale» è, insomma, una contraddizione in termini, almeno se si analizza sine ira ac studio la storia dei rapporti tra libertà e sovranità popolare.

    Mazzini è uno di quei pensatori che hanno cercato di trovare una sintesi tra queste due categorie del pensiero politico, pur rimanendo all’interno di una prospettiva democratica e quindi aliberale. Ora, questo tentativo di sintesi è stato prodotto a partire dalla centralità del principio religioso.

    Uno dei mali che attanagliano il nostro tempo è non riuscire più a recuperare il senso di quelle cose sacre senza cui la stessa comunità politica non può darsi. Tali cose sacre, secondo il giurista Alain Supiot, «corrispondono a quelli che oggi chiamiamo interdetti fondativi, quelli che danno a un sistema giuridico le basi assiologiche che gli sono proprie» [7] , da cui la nozione di giustizia come base della legittimità dello Stato [8] . È lo Stato che, mettendosi in scena, pone «il riferimento alla fede come potere e come suo proprio limite, compiendo così quella funzione antropologica di base: limitare il soggetto, marcarlo, evitare che debba fondarsi da sé per vivere» [9] .

    È in nome di ciò che Mazzini inserisce il repubblicanesimo entro un’ermeneutica della verità, con il programma di includere le «cose sacre» tra le regole intangibili della res publica, al di là della contingenza. Si tratta di «cose» che appartengono a un ordine particolare di verità giuridica, non dipendenti in alcun modo dalla verità scientifica; che non possono essere razionalmente spiegate perché la loro autorità è di matrice religiosa, nel senso di realtà dotata di una natura superiore, di un’essenza dogmatica «nel pieno senso della parola: di un’ingiunzione intangibile perché autosufficiente, che dev’essere mostrata e celebrata ma non può essere dimostrata né modificata» [10] . Il repubblicano di ieri e di oggi non è chiamato ad affidarsi all’irrazionale in sé e per sé ma ad essere consapevole che la stessa techne giuridica moderna deve la sua esistenza legittima alla fede in

    dogmi dello stesso genere, [alle] «verità evidenti in sé stesse» proclamate dalla Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti nel 1776 o [all]’affermazione della Dichiarazione universale del 1948 per cui «tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti» (art. 1). Non si tratta evidentemente di una qualche verità biologica, bensì di risposte alla sfida costituita dalle molte diseguaglianze che segnano il destino degli esseri umani alla loro nascita [11] .

    In questo senso, un atteggiamento di maggiore umiltà da parte degli intellettuali liberali del nostro tempo sarebbe auspicabile. Invece di sminuire od omettere la ricchezza di approcci teorici che si collocano nella terra intermedia fra i due estremi di una contrapposizione inventata dall’ideologia neoliberale, avrebbero forse potuto riconoscere la realtà «del difficile incontro del liberalismo con la democrazia negli Stati sovrani moderni» [12] . La verità è che pensatori come Mazzini o Tocqueville scavano nel vuoto teologico dell’ordine fondazionale moderno e non possono che incontrare le contraddizioni dell’individualismo metodologico, da cui il mancato incontro mancato tra liberalismo e democrazia. Guardando al liberalismo che fu, troviamo le contraddizioni del liberalismo che è: un liberalismo mancante di una fede nell’eteronormatività del Diritto e del principio di giustizia: ecco il corto circuito tanto delle libertà effettive quanto del funzionamento delle nostre democrazie. Secondo Antonio Martone, «l’Occidente liberaldemocratico, non più alle prese con pericoli esterni – fascismi, comunismi –, è entrato da qualche decennio in una nuova fase – ora il problema decisivo della democrazia è la democrazia stessa» [13] . Insomma, come rifondare il Diritto sulla sacralità nella terra «senza Dio» della modernità democratica? Con Tocqueville e con Mazzini, bisognerebbe partire con l’idea di educare non alla democrazia ma la stessa democrazia [14] .

    Lungi da noi il credere di poter ricostruire oggettivamente e senza scarti dettati dalla nostra linea interpretativa il Mazzini-pensiero. Si tratterà solo di renderla esplicita e di mostrarne le fonti, di chiarire le argomentazioni. In non pochi casi, invece, la critica mazziniana ha tagliato con l’accetta e giudicato senza la dovuta attenzione il contesto storico e culturale degli scritti mazziniani. È sorprendente notare come i coevi padri nobili del liberalismo, presso i cui scritti si trovano conferme circa il fatto che la ricchezza di un pensiero andrebbe colta ben oltre la sua lettera e la sua perfetta rappresentabilità in categorie logiche, non poche volte presentino contraddizioni logiche o etiche ben più gravi e profonde di quelle mazziniane – che, peraltro, non è nostra intenzione occultare.

    Da parte nostra, non si ha alcuna intenzione di negare che anche Mazzini avesse sostenuto idee oggi considerate come inaccettabili: le sue opinioni sul colonialismo – peraltro ampiamente condivise coi suoi contemporanei –, e in particolare «una filosofia del progresso politico e sociale per stadi, secondo cui la maggior parte dei popoli extraeuropei, ritenuti arretrati, doveva essere educata e civilizzata per essere pronta all’autodeterminazione» [15] , sono ovviamente esecrabili.

    Però occorre anche ricordare che Mazzini, quando affronta la questione del diritto di voto ai neri d’America, in una lettera del 1865 si rivolge al pastore evangelico americano Moncure D. Conway in questi termini:

    Caro Conway, Voi mi domandate che io vi manifesti la mia opinione intorno alle questioni del diritto di voto per gli uomini di colore. Potete voi su ciò avere il minimo dubbio? Voi avete abolito la schiavitù. L’abolizione è la corona della vostra gloriosa lotta, la religiosa consecrazione delle vostre battaglie, le quali altrimenti non sarebbero state se non una lagrimevole carneficina. Voi avete decretato che il sole della Repubblica splenda per tutti: che chiunque respiri l’aria della Repubblica abbia ad essere libero: che, come Dio è uno, così sul suolo benedetto ove la libertà non è un semplice fatto fortuito, ma una fede ed un vangelo, lo stampo dell’umanità è uno. Potete voi mutilare questo grande principio? Potete voi menomarlo e ridurlo alle proporzioni della mezza libertà delle monarchie? Tollerate che l’uomo sia fra voi la metà di sé stesso? Proclamare il dogma della mezza responsabilità? Costituire sulla terra repubblicana d’America la classe dei servi politici del Medio Evo? V’ha, senza voto, libertà? Non è forse la libertà politica la garanzia della libertà civile? […] Volete voi tradurre la vostra democrazia in una incipiente aristocrazia? Volete voi decretare che il colore importi una inferiorità morale? […] Non hanno i vostri bianchi errato mai [16] ?

    Ora, se andiamo a scavare tra le affermazioni di padri e campioni del liberalismo tout court in tema di diritti umani, troviamo espressi pensieri quanto meno imbarazzanti; situazione che conferma, una volta di più, come l’universo liberale sia tutto tranne che un uniforme e coerente corpo ideologico, capace di giungere al punto di contraddire i proprî stessi principî fondativi.

    Gli esempi in tal senso si sprecano. Domenico Losurdo ha ricordato come il vicepresidente nordamericano John C. Calhoun, «campione della lotta contro l’assolutismo in ogni sua forma (compreso quello democratico)», fosse convinto che il fanatico e cieco abolizionismo avrebbe minacciato la schiavitù, ovvero quella «forma di proprietà legittima e garantita dalla Costituzione» [17] ; il padre del liberalismo, John Locke (1632-1704), ritenesse naturale la schiavitù nei territori coloniali e sosteneva la necessità d’inserire tra le norme costituzionali il principio dell’«assoluto potere e autorità» sugli «schiavi negri» [18] ; lo storico ed economista Francis Lieber, teorico della concezione liberale dello Stato, fosse proprietario di schiavi; il whig James Burgh (1714-1775), riformista radicale, fautore della libertà di parola e del suffragio universale, scrivesse che «vagabondi, mendicanti e plebaglia oziosa e incorreggibile della metropoli» [19] fossero da comprendersi tra la schiera degli schiavi per natura; il filosofo morale Francis Hutcheson (1694-1746), maestro di Adam Smith (1723-1790), pur criticando l’istituto della schiavitù nei confronti degli afroamericani, la ritenesse una punizione giustificata nei confronti dei poveri, «quei vagabondi fannulloni che, anche dopo essere stati giustamente ammoniti e sottoposti a servitù temporanea, non riescono a mantenere sé stessi e le proprie famiglie con un lavoro utile» [20] ; John Stuart Mill (1806-1873), uno dei massimi esponenti del liberalismo, ritenesse la schiavitù funzionale a educare le tribù selvagge, nei confronti delle quali ogni mezzo fosse lecito pur di condurle ad accettare il lavoro, così da contribuire alla civilizzazione e al progresso [21] . Insomma, ha scritto un discepolo di Adam Smith, John Millar (1735-1801):

    È singolare che gli stessi individui che parlano con stile raffinato di libertà politica e che considerano come uno dei diritti inalienabili dell’umanità il diritto di imporre le tasse non abbiano scrupolo di ridurre una grande proporzione delle creature a loro simili in condizioni tali da essere private non solo della proprietà, ma anche di quasi tutti i diritti. La fortuna non ha forse prodotto una situazione più di questa in grado di ridicolizzare un’ipotesi liberale [22] .

    A tutto ciò aggiungiamo che, nonostante le affinità tra il liberale Tocqueville e Mazzini, sul tema della schiavitù le loro opinioni erano opposte. Quella società americana che Tocqueville riteneva fosse un esempio di democrazia, per Mazzini non lo era in considerazione del fatto che veniva considerata legale la schiavitù [23] . Su questo argomento il cosmopolitismo umanitario mazziniano aveva idee molto nette, mostrando molta più liberalità dei tanti sedicenti liberali del suo tempo (ancor oggi venerati).

    Analizzando le stagioni ermeneutiche del mazzinianesimo, vi scopriamo una sorprendente libertà interpretativa. Abbiamo avuto il Mazzini precursore del fascismo, l’esponente di un pensiero totalitario, il perfetto liberale, il modello di teorico repubblicano e democratico capace di pensare tanto la patria quanto l’umanità. Ma la critica forse più ingenerosa è stata quella di chi lo ha considerato come un autore poco rigoroso e dunque alla fine da prendere con le pinze. Certo, non sempre il dispositivo teorico mazziniano è coerente, la sua dottrina non è sistematica, il suo militantismo spesso offusca la linearità del ragionamento. E tuttavia ci sembra che sia piuttosto chiaro il disegno che sottende all’opera mazziniana nel suo complesso. Mazzini occupa uno spazio teorico che si colloca altrove tanto rispetto al liberalismo quanto alla democrazia e al socialismo. La sua prospettiva è rigorosamente terza, ed è definibile come repubblicana, spiritualista, patriottica e nazionalista; una prospettiva che procede a una critica del moderno senza uscirne, ciò che avviene in quanto egli risale alle sue origini, sviluppando, in tal maniera, un percorso autocritico della modernità. Potremmo definire Mazzini un metamoderno. Ed è poi questa la lezione che ancor oggi dovremmo provare ad attualizzare mutatis mutandis. La crisi della sovranità democratica che stiamo vivendo in questi ultimi anni deriva proprio dall’incapacità di fare i conti con il moderno, da cui due reazioni antinomiche: o la risposta postmoderna di chi vive sulla base della convinzione che l’unica reazione possibile alla storicità sia nella sua rinuncia, quindi addio alla tradizione e a ogni radicamento culturale e simbolico, o la critica tradizionalistica al moderno nichilismo e alle derive neoliberali, con il recupero del­l’elemento prepolitico, recuperando il passato nella speranza di trovare una risposta di senso alla necessità di revanche politica e spirituale dell’Occidente.

    La metamodernità di Mazzini è nella capacità di intravedere come il moderno sia erede dell’antico, non nel senso di una sua ripetizione ma di un suo progressivo inveramento nella storia. L’ambiguità strutturale di questa concezione ciclica della storia contempla un’apertura alla tradizione in quanto motore della progressiva stratificazione di senso nel tempo storico. In questo senso, il progressimo mazziniano è, allo stesso tempo, conservatorismo. L’umanità procede verso il perfezionamento di sé ma non attraverso innovazioni bensì mediante l’incorporazione del nuovo nel vecchio e del vecchio nel nuovo. Antico e moderno, in sostanza, si sposano nella continuità della tradizione, di cui occorre continuamente riscoprire il senso depositato nel presente per tradurlo/tradirlo all’interno del percorso del telos. Questa formidabile ambiguità è alla radice delle molteplici appropriazioni subìte dalla storia esegetica del mazzinianesimo.

    Pensiamo alla letteratura fascista sul Mazzini precursore di Benito Mussolini (1883-1945) ma anche a certe letture contemporanee troppo schiacciate sul presente e, di conseguenza, portate sostanzialmente a ripetere l’impianto accusatorio basato sulla colpa di essere pensatore della totalità, con relativi esiti autoritari e illiberali. Pensare il significato, la tradizione, il simbolo, l’irrazionale, il prepolitico: questi gli interdetti più potenti detenuti dall’i­deologia liberale e applicati come criteri di pregiudizio anche nei confronti del pur vasto e articolato dispositivo di pensiero mazziniano. A prevalere è qui l’accusa di aver flirtato con il nazionalismo organicista e cultural-populista à la Johann Gottfried Herder (1744-1803), da cui a cascata avremmo avuto il militarismo, l’imperialismo e il nazifascismo. Ernesto Galli della Loggia lo ho affermato esplicitamente nei primi anni Novanta: esiste una sequenza che comincia con Mazzini e si sviluppa fino al fascismo e al comunismo.

    Mazzini e il suo eccitato, nebuloso, mondo spirituale rappresentarono tutto ciò che di religioso l’unificazione italiana poté permettersi, ma si trattò, per l’appunto, di quella religiosità politico-sociale, intrisa di profetismo utopico e di autoritarismo, da cui dovevano scaturire precisamente le ideologie nazionalistiche, gentiliano-fasciste e gramsciano-comuniste, destinate a fare piazza pulita dello Stato e della cultura liberale [24] .

    Questa specifica critica, anche quando non viene esplicitata con la stessa foga ideologica di Della Loggia, costituisce il sottotesto di riferimento teorico-ideale da cui ancor oggi viene prodotta certa produzione accademica. Del resto, lo zelo con cui recenti studiosi del mazzinianesimo ne hanno estratto gli elementi nobili e puri, opponendoli alle caratteristiche etniche e völkisch del nazionalismo germanico «brutto e cattivo», considerato come un’ap­pendice del tutto estranea al corpo teorico di Mazzini, sta lì a dirci che l’interdetto esiste ancora. In realtà, è del tutto normale che gli stessi pensatori nazionalisti e fascisti si siano appropriati del pensiero mazziniano. Perché elementi nazionalistici, nel senso herderiano (e non solo), sono presenti in Mazzini. Ciò non vuol dire che Dino Grandi (1895-1988) fosse nel giusto quando lo accomunava a Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) o all’antisemita liberale Heinrich von Treitschke (1834-1896), ma che aveva ragione nel credere nell’antiteticità della concezione di libertà mazziniana rispetto a quella di matrice individualistico-liberale di Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861) [25] . Sbagliato, come fece Giovanni Gentile (1875-1944), credere che Mazzini fosse stato il

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