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La rivoluzione blu. Idee per una nuova destra.
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E-book144 pagine2 ore

La rivoluzione blu. Idee per una nuova destra.

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Info su questo ebook

Un giovane pensatore e attivista riflette sulla possibilità di una nuova destra, ossia di un radicale cambiamento di mentalità, concezioni e prospettive all'interno di quest'area politica, ispirandosi ai valori e ai principi della tradizione liberale e della filosofia individualista. Passando in rassegna i principali temi sui quali la destra italiana ha sposato posizioni contrarie a quelli che avrebbero dovuto esserle connaturate – dall'economia ai diritti civili, dalla politica estera fino alla globalizzazione – l'autore rivolge una critica serrata alle visioni attualmente dominanti, più simili a quelle dei reazionari dell'est-europeo che non dei conservatori occidentali, pur senza appiattirsi sulle idee dei "moderati" e arrivando a proporre una sintesi tra le istanze "sovraniste" e quelle liberali, a suo giudizio perfettamente compatibili, se per "sovranismo" non si intende l'esaltazione demagogica della nazione, ma difesa della libertà e dei diritti dei singoli cittadini riuniti sotto tale nome.
LinguaItaliano
Data di uscita23 feb 2021
ISBN9791220323543
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    Anteprima del libro

    La rivoluzione blu. Idee per una nuova destra. - Gabriele Minotti

    libero.

    La destra ha bisogno di rinnovarsi

    Il padre nobile del conservatorismo anglosassone, Edmund Burke, nella sua opera più conosciuta, le celebri Riflessioni sulla rivoluzione francese del 1790, scriveva qualcosa che, a oggi, qualunque autentico riformatore di destra dovrebbe imprimere nella sua mente onde conformare a tale principio la sua azione politica: ciò che è privo dei mezzi per cambiare non può nemmeno conservarsi per sempre.

    Perché tale massima è così importante? Perché dovrebbe dirci ancora qualcosa a distanza di oltre due secoli? Perché, in questa semplice frase, Burke ha saputo racchiudere e sintetizzare il vero spirito del riformismo di destra: si può e si deve cambiare quando le circostanze lo impongono. Le cose non possono essere sempre le stesse, perché – come tutto ciò che è umano – nel tempo esse sono soggette a deterioramento, a corruzione, e finiscono per rivelare difetti e imperfezioni che originariamente non presentavano. La differenza tra un riformatore di destra e uno di sinistra è sostanzialmente questa: il primo si adegua alle mutate circostanze; il secondo pretende di adeguare le circostanze a sé, di far mutare le cose a suo piacimento e comando.

    È assurdo pretendere che qualcosa sia sempre uguale a se stessa: solo ciò che è morto non si muove. Al contrario, il movimento – e quindi il cambiamento – è una delle caratteristiche principali di ciò che è vivo e vitale. Non c'è cosa più stupida del rifiutare l'innovazione in nome della conservazione: il rinnovamento non solo non è contraddittorio rispetto alla tradizione, ma la aiuta a restare viva, a non ridursi a un cimelio polveroso e privo di utilità, in quanto può arricchirla e aggiungere a essa elementi fino ad allora sconosciuti e non ancora esperiti.

    Inoltre, a volte il rinnovamento può essere finalizzato proprio al recupero di una tradizione, di uno spirito originario o di un bagaglio di esperienze, andato perduto nel corso del tempo o snaturato rispetto agli intenti fondamentali. Ciò avviene perché, non di rado, si attribuisce più importanza alla tradizione come prassi che non al motivo per cui quella tradizione è nata e si è perpetuata giungendo fino a noi. Questo è esattamente ciò che noi – come destra – dobbiamo fare.

    La destra italiana, lo dico senza tanti giri di parole, deve recuperare il suo spirito autentico e originario, deve riscoprire le sue radici e tornare alla sua gloriosa tradizione. Dobbiamo rinnovarci per tornare a essere una forza liberale, liberista e libertaria, fortemente anti-statalista e anti-collettivista e basata su un fondamento politico-culturale prettamente individualista.

    Ora, niente è più evidente come questo fatto: la destra del Bel Paese è terribilmente lontana dall'essere come dovrebbe. È inadeguata nei simboli, nelle proposte, nell'azione politica, nelle persone. La destra italiana, nel suo avere e rivendicare un carattere sociale contraddice la sua natura e il significato stesso della parola destra applicata al contesto politico. Non a caso, uno dei guru della destra extra-parlamentare del secondo Novecento, Pino Rauti, sosteneva che il fascismo (che condivide la paternità e i fini col comunismo, essendo entrambe ideologie figlie del socialismo con l'obiettivo di affermare il primato dello Stato sulla libertà delle persone, contrariamente a quanto si sia disposti ad ammettere da ambo le parti) non fosse mai stato di destra. Rauti aveva pienamente ragione: la destra sociale non è vera destra, ma solo una sinistra nazionalista. La destra, quella vera, o è liberale o non è. Lo stesso fascismo nacque di sinistra, e solo successivamente assunse una verve più conservatrice, ma non certo sulla spinta di nobili ideali o per un improvviso cambio di prospettive, ma perché si trovò costretto, per mantenere il potere e rafforzarsi, a scendere a patti con la monarchia, l'esercito, gli industriali e la Chiesa Cattolica.

    Volendo estendere la riflessione rautiana, potrei spingermi a dire che nessuna concezione che affermi il primato di una qualunque entità collettiva sull'individuo o di un qualunque principio o ideale sulla libertà dei singoli può essere di destra.

    La proposta politica della destra italiana si riduce sostanzialmente alla massima di gattopardiana memoria: cambiare tutto perché nulla cambi. È, infatti, inutile avanzare propositi riformisti se poi non si ha la determinazione, la volontà politica o anche il coraggio, di portarli avanti, indipendentemente da quanto malcontento o sconcerto ciò potrebbe determinare. È del tutto privo di senso ventilare un cambiamento che, per timore o convenienza, si ometterà di portare a termine. Sarebbe meglio limitarsi a dire, come Lord Salisbury, che essere di destra consiste nell'impedire alle cose di accadere fin quando non siano del tutto prive di rischi. Ma bisognerebbe anche chiedersi fin dove possa portare questo atteggiamento.

    Ancora più drammatico è il rifiuto dell'innovazione, la netta chiusura a un mondo in trasformazione: secondo il paradigma dominante, i fenomeni supposti da tale processo vanno contrastati e combattuti, in quanto segni di decadenza, fattori di rischio per l'integrità dei popoli e delle società o, peggio ancora, secondo un certa mentalità che potremmo definire complottista (un vizio, purtroppo, molto diffuso nella famiglia politica alla quale chi scrive appartiene), addirittura indotti da misteriose e occulte organizzazioni – i cosiddetti poteri forti, la cui identità non si riesce a definire meglio, o almeno non unanimemente – che tramerebbero nell'ombra per la distruzione delle nazioni. Ebbene, l'ostinazione non paga nel lungo periodo: come per la pazienza, vi è un limite oltre il quale anche la tenacia smette di essere una virtù per diventare un vizio. Aggrapparsi disperatamente a concezioni, formule e pratiche sormontate, o sostituirle con i deliri cospirazionisti, non può che condurre alla disfatta e, in un secondo momento, alla totale dissoluzione.

    A poco serve inventare losche trame tra lobby finanziarie, logge massoniche, americani e chissà cos'altro: ogni persona minimamente intelligente capisce benissimo che il complottismo non è che l'estremo tentativo delle menti non particolarmente argute, di spiegare una realtà troppo complessa per essere decifrata; di trovare una causa a dei fenomeni che non si comprendono o che non si riescono ad accettare. Per cui si ricorre a spiegazioni semplicistiche, non verificabili e del tutto inverosimili. Il complottismo umilia l'intelligenza di chi vi ricorre, ma soprattutto quella di chi si pensa di convincere con simili argomenti. Non ci sono piani oscuri, né macchinazioni di alcun tipo: solo la concorrenza casuale e spontanea di un gran numero di fattori – non sempre pienamente conoscibili o intelligibili – che uniti assieme come concause danno luogo a certe conseguenze, il più delle volte impreviste e imprevedibili.

    La risposta a un mondo che cambia, oltretutto in maniera repentina, e che pone dinanzi a sfide e situazioni sempre nuove, non può essere gridare alla congiura. Proprio come non possono essere gli slogan urlati da un palco o il rifiuto di prendere atto dei mutamenti che continuamente intervengono e con i quali ci si deve, per forza di cose, rapportare. Perché la politica non può non stare al passo con la società di cui è espressione, non può fare a meno di cogliere i segni dei tempi, sempre che non voglia diventare un elemento marginale e rassegnarsi alla sua scomparsa.

    Questo mi porta alla principale recriminazione: la drammatica assenza, all'interno della destra italiana, di un partito – o almeno di una corrente interna a un partito – sinceramente e autenticamente liberale e libertaria. La cosa è ancor più assurda se consideriamo che la destra italiana nasce liberale, che il liberalismo ce l'ha nel sangue e che per decenni i liberali furono l'unica destra presente in Italia: almeno fin quando il fascismo non seppe porsi quale alternativa credibile per la difesa dell'ordine costituito dal pericolo della sovversione rossa. Ciononostante, questo non fece del fascismo un'ideologia di destra (prova ne sia il ritorno alle origini socialiste verso la fine, con l'esperienza repubblichina) e non rese il liberalismo meno di destra rispetto a prima, o meno degno di considerazione in questo senso. Semplicemente, i liberali di allora – e non il liberalismo in sé stesso – non furono all'altezza della situazione, che in quel frangente avrebbe richiesto una certa dose di radicalismo e di decisione al fine di arginare il pericolo social-comunista.

    Dopo decenni in cui l'unico movimento di destra, in Italia, fu proprio una formazione di destra sociale (il Msi, per l'appunto), unitamente alle piccole formazioni monarchiche che finirono per confluire in essa e alla brevissima esperienza dell'Uomo Qualunque, nel 1994 l'allora nascente partito di Silvio Berlusconi, Forza Italia, vinse le elezioni con la promessa di una rivoluzione liberale che, ovviamente, non è mai nemmeno veramente iniziata. Un'occasione persa: è proprio il caso di dirlo. Lo stesso Movimento Sociale si era dato un nuovo nome, quello di Alleanza Nazionale, e sembrava voler abbandonare ogni tipo di nostalgia – oltre che aspirazione sociale – per intraprendere una svolta in senso conservatore e liberale. L'impresa riuscì solo in parte, perché le idee del liberalismo non vennero mai abbracciate integralmente, né dal punto di vista economico, né tanto meno da quello politico-culturale.

    Eppure, una simile svolta era proprio ciò di cui avremmo avuto bisogno – allora come oggi – anche per affrontare le sfide che di lì a poco si sarebbero presentate e dinanzi alle quali ci siamo fatti trovare impreparati. Ora ne paghiamo le conseguenze, e continueremo a farlo.

    Quello di cui necessita la destra italiana è recuperare quella tradizione liberale dalla quale è nata, è ricordare da dove viene. Come si è detto sopra, si deve cambiare o perché le circostanze lo impongono, oppure per riportare in auge qualcosa – come una dottrina o una prassi – che si è progressivamente snaturata o dimenticata nel corso del tempo. Nel caso della destra italiana, le circostanze le impongono di riscoprire, del tutto o in parte, il suo vecchio – ma sempre attualissimo – carattere liberale e di tornare finalmente a essere se stessa, ai suoi principi fondamentali.

    Il mio obiettivo, con questo libro, è proprio scuotere le coscienze, porre degli interrogativi, evidenziare la mole incredibile di paradossi, suscitare la riflessione laddove finora è mancata o non è stata sufficientemente approfondita. Non sono uno scontento o un figlio ingrato: semplicemente penso e credo, con tutte le forze, che la destra italiana possa e debba essere qualcosa di più; ho la massima fiducia nel fatto che essa possa e debba esprimere una cultura liberale, individualista e in linea con le altre destre occidentali (e non con i movimenti nazionalisti dell'est-europeo o con i gruppuscoli reazionari nostrani) senza per questo rinunciare a istanze cruciali come la difesa della sovranità nazionale o dei diritti del cittadino comune; non ho il benché minimo dubbio sul fatto che nella mia famiglia politica vi siano molte potenzialità inespresse, oltre che decisamente troppe cose non comprese o non sufficientemente spiegate.

    Qualunque critica o apparente stilettata non ha altro scopo che quello di evidenziare efficacemente la moltitudine di paradossi e contraddizioni che esistono nella nostra area politica.

    A tal proposito, se la politica è l'arte della mediazione, allora la grandezza di un politico, di un legislatore o di uno statista è data dalla sua capacità di mediare. Si direbbe, infatti, che è impossibile essere liberali e al tempo stesso difendere le sovranità nazionali (il cosiddetto sovranismo); individualisti e contemporaneamente

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