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AntiPop. Stili, Dischi e Controcultura 1972-2007
AntiPop. Stili, Dischi e Controcultura 1972-2007
AntiPop. Stili, Dischi e Controcultura 1972-2007
E-book563 pagine8 ore

AntiPop. Stili, Dischi e Controcultura 1972-2007

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Info su questo ebook

La storia della musica a partire dai primi anni Settanta a oggi è costellata dalla nascita e proliferazione di una nutrita serie di generi e sottogeneri – early reggae, breakbeat, acid house, techno, new age, gangsta rap, trip-hop, techno-jungle, solo per citarne alcuni – che, contaminandosi in vario modo e con esiti più o meno brillanti, hanno saputo superare il giro di boa del nuovo millennio e approdare fino agli anni Zero. Quel che accomuna la produzione musicale minuziosamente raccontata in questo volume è il suo essere espressione di una controcultura che, per statuto, nasce in opposizione alla cultura dominante, riuscendo a dar voce al disagio di generazioni costrette in un sistema che schiaccia le minoranze, emargina le criticità e appiattisce le differenze. L’anti-pop si configura dunque come un “macrogenere” capace di abbracciare tendenze musicali e culturali diverse, terreno fertile in grado di far germogliare interessanti prospettive anche nell’epoca della musica digitale. Con decine e decine di brani commentati, più di un centinaio di riferimenti ad album, autori ed etichette underground, tanti film, simboli, miti ed espressioni gergali delle controculture degli ultimi anni, questo saggio ambisce a offrire un’introduzione alla musica che ha accompagnato – e accompagna – la resistenza culturale ed estetica alla società di plastica del capitalismo avanzato.

Diego Lanzi insegna Economia Politica presso le Università di Bologna e di Venezia. Autore di più di settanta articoli su riviste nazionali e internazionali, nonché grande appassionato di musica, ha recentemente pubblicato Economia dell’Ambiente (2022) ed Il secolo breve della Macroeconomia (2023). Per diletto e passione, dal 2014, produce e distribuisce musica elettronica tramite una piccola etichetta indipendente.
 
LinguaItaliano
Data di uscita28 lug 2023
ISBN9791255370956
AntiPop. Stili, Dischi e Controcultura 1972-2007

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    Anteprima del libro

    AntiPop. Stili, Dischi e Controcultura 1972-2007 - Diego Lanzi

    piatto.jpg

    Diego Lanzi

    AntiPop

    Stili, Dischi e Controcultura

    1972_2007

    © 2023 Vertigo Edizioni s.r.l., Roma

    www.vertigoedizioni.it

    info@vertigoedizioni.it

    ISBN 978-12-5537-061-1

    I edizione giugno 2023

    Finito di stampare nel mese di giugno 2023

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    AntiPop

    Stili, Dischi e Controcultura

    1972_2007

    Prefazione

    Controcultura [1971] . s.f. il complesso dei valori e

    delle manifestazioni culturali, politiche ed ideologiche

    di opposizione alla cultura dominante

    Subcultura [1963] . s.f. cultura minoritaria, locale,

    interna ad una comunità caratterizzata da

    un preciso modello simbolico di resistenza

    Ritengo la musica un universale. Marcel Proust, ad esempio, la considerava l’unico esempio possibile di ciò sarebbe potuta essere, in assenza dell’invenzione del linguaggio e dell’analisi delle idee, la comunicazione tra anime. Una comunicazione fatta di bassi pulsanti, fiati pieni di significato, ritmi tribali. Atti comunicativi di natura olistica capaci, in pochi suoni, di trasmettere identità, appartenenza, idealità o protesta. La musica è anche mezzo di elevazione verso le sfere più metafisiche e spirituali dell’animo umano. Spiritual, musica sacra, gospel, canti gregoriani, litanie buddiste accompagnano i fedeli nel cammino verso il loro dio. Il ritmo ha qualcosa di magico, così diceva Goethe: ci fa credere che il sublime ci appartenga. Per ogni romantico, infatti, la musica si colloca al vertice della piramide delle arti e, come nell’Estetica di Hegel, sovrasta architettura, pittura e scultura. Voce dell’unità originaria e della volontà universale, così la percepiva Nietzsche, capace di creare coesione ed unità, individualizzazione e mito.

    La cultura giovanile del Novecento ha, non casualmente, ricorso ripetutamente alla musica come strumento di meta-comunicazione: mods, skinhead, punk, b-boys, ogni stile è stato intrecciato con precisi generi musicali che hanno dato voce, e realizzazione, al senso di appartenenza creando coesione tra i membri del gruppo. Dalla fine degli anni Settanta in poi la musica è stata spesso voce della controcultura e delle sub-culture alimentando la nascita di numerose utopie. In opposizione alla cultura delle classi dominanti e alle ideologie del potere costituito, la produzione musicale ha accompagnato i movimenti underground di protesta per tutta la fine del secondo millennio e ha favorito la fondazione di zone autonome temporanee: radio pirata, radio libere, organizzazioni di resistenza culturale e portali web di informazione libera. Con il progressivo sopraggiungere del terzo millennio, la musica della controcultura ha inoltre acquisito un programma di ricerca decisamente avanguardista e post-moderno che ha trovato due modi di espressione. Da un punto di vista stilistico, vi è stato il tentativo di eliminare la distanza sociale, estetica, politica ed antropologica e di insistere sulla veridicità, l’immediatezza e la spiritualità dell’esperienza. Da un punto di vista contenutistico, invece, si è notata l’assoluta insistenza sull’imperatività dell’uomo, creatura costretta alla continua ricerca di una dimensione ulteriore. Tale ulteriorità si è realizzata, nelle diverse musiche dei movimenti della fine del Novecento, in una pluralità di varianti che hanno mantenuto, tuttavia, un’unitarietà di fondo basata sull’avversione all’ordine sociale esistente e sulla fede in prospettive escapiste.

    In questo libro utilizzeremo l’etichetta ANTIPOP per identificare la produzione musicale dei gruppi sociali minoritari, oppressi, invisibili od emarginati, eppure capaci di creare universi contro-culturali in contrasto netto, ed aperto, con la cultura massmediatica e nazional-popolare delle società del capitalismo avanzato. Sino a quando povertà, esclusione sociale, segregazione e discriminazione erano legati in gran parte alla razza, i neri ed i meticci erano i veri sofferenti. Dagli anni Settanta in poi, la disuguaglianza sociale è divenuta multidimensionale, l’esclusione sociale si è fatta democratica e la sofferenza del vivere nel mondo è assurta ad emozione condivisa da giovani, e meno giovani, di ogni razza e colore della pelle. Lo stesso processo di inclusione massiva nella società capitalistica dei consumi ha alimentato reazioni capaci di mettere assieme uomini di ogni estrazione, od etnia, nel tentativo di creare reti aperte di valori contro-culturali e di simboli sovra-razziali.

    Cercheremo così di mostrare come l’ANTIPOP si sia sviluppato assieme a battaglie sociali per l’uguaglianza ed i diritti civili, movimenti di liberazione ed emancipazione, nonché lotte in difesa di oppressi e sfruttati. Ricostruire tale incredibile storia sociale ci offrirà una visione alternativa di come sia avvenuto il passaggio dai favolosi Sixties alla contemporaneità da XXI secolo. Se infatti è vero che la storia delle classi dominanti è narrata e scritta tramite i principali mezzi di comunicazione, educazione ed informazione, è altrettanto rincuorante pensare che sia possibile avere accesso ad un’altra versione dei fatti, tacitamente tramandata tra le note di canzoni dissidenti. Il mondo letto tramite questi brani assume un aspetto diverso da quello che ascoltiamo e vediamo nei libri di scuola o nei rotocalchi della CNN. La forza liberatrice di questa prospettiva può aiutare, soprattutto i più giovani, ad individuare nuovi simboli e valori. Ribellione, emancipazione, rivoluzione hanno trovato dimora tra le note e le parole di decine e decine di brani; canzoni capaci di accompagnare i sogni e le speranze, od offrire una colonna sonora alla tragedia delle illusioni che si infrangono. Ci proponiamo, pertanto, di compilare una piccola guida all’ANTIPOP capace di raccogliere le istanze di resistenza culturale, etica ed estetica alla wasp society portate avanti, tra gli anni Venti e l’inizio degli anni Settanta del XX secolo, prevalentemente dalla musica jazz.

    Indicheremo dischi, pellicole, locali, movimenti che messi assieme ricostruiranno un cammino. Un sentiero di sovversione dell’organizzazione sociale e morale della società capitalistica contemporanea passante attraverso manifestazioni culturali, negozi di dischi e serate nei club; per alcuni, una vera e propria filosofia di vita.

    In particolare, il saggio mira a ricostruire i legami esistenti tra produzione musicale alternativa ed evoluzione delle principali correnti di pensiero contro-culturale durante la parte finale del XX secolo e gli inizi del XXI secolo. Il racconto inizia nel triennio 1970-1972, un momento storico-sociale durante il quale caddero progressivamente tutte le illusioni e gli ideali dei Sixties, e trovò sistematica fondazione l’idea stessa di controcultura. Soul-funk, early reggae, il primo breakbeat di Kool Herc erano, allora, la musica di resistenza di diversi gruppi sociali che attendevano di vivere il decennio della ribellione e della protesta. Tra il 1971 ed il 1979, roots reggae, dub, punk, new wave, elettronica in stile Kraftwerk, ed il primo hip hop del Bronx, accompagnarono la diffusione di lotte di ribellione e di resistenza all’ordine sociale, ed all’establishment capitalistico-borghese, alimentando i sogni di emancipazione e liberazione di neri, omosessuali, donne e di tutti i sofferenti dell’occidente. Con l’avvento di Reagan, della Thatcher e degli anni Ottanta, di MTV e degli yuppies, saranno le atmosfere new age, le de-costruzioni del post-modern jazz, i sogni techno dei produttori futuristi di Detroit, nonché la travolgente politica dell’erotico di house e garage, a rappresentare l’espressione in musica dell’alterità al consumismo, al carrierismo ed all’opportunismo individualistico della pop society. Il crollo del muro di Berlino e l’esplosione del fenomeno dei rave party traghetteranno, a suon di acid house, techno ed ambient house, la controcultura verso gli anni Novanta, una lunga decade-ponte per il nuovo millennio costellata di rabbia e spacconeria gangsta rap, paranoia e profondità uterine di matrice trip-hop e violenza sonora techno-jungle. La parte del libro dedicata al decennio 1997-2007, si focalizzerà, infine, sulle diverse forme dell’avanguardia digitale e sul suo ruolo nella forgiatura di nuove utopie o proposte di alternativa culturale: digidub, downtempo, grime, dubstep, nu wave, minimal quali colonne sonore della controcultura degli anni Zero.

    Nel volume presenteremo e discuteremo molti dischi e correnti musicali prendendo come riferimento temporale approssimativo i trentacinque anni che vanno dal 1972 al 2007. Con decine e decine di brani commentati, più di un centinaio di riferimenti ad album, autori ed etichette underground, tanti film, simboli, miti ed espressioni gergali delle controculture degli ultimi anni, il saggio ambisce ad offrire un’introduzione alla fruizione della musica che ha accompagnato, ed accompagna, la resistenza culturale ed estetica alla società di plastica del capitalismo avanzato. In un certo senso, pertanto, il libro vuole fungere da guida, non organizzata in via enciclopedica, alla musica contro-culturale degli ultimi trenta anni. A tal fine, indicheremo in sottolineato i titoli di singoli e in grassetto quelli di album, EP e compilation. Per ogni album verranno indicate la data di release e la casa discografica, mentre per le pellicole, denotate in corsivo, verrà ricordato l’anno di uscita nelle sale cinematografiche e, talvolta, il regista. Ovviamente, come sempre accade in questi casi, la selezione effettuata, così come il risalto conferito durante la narrazione a diversi autori e correnti, sarà altamente soggettiva ed assolutamente non esaustiva.

    Dedico questo libro a tutti i giovani liceali, come mio figlio, per i quali abbiamo ascoltato e ripetuto canzoni, nonché comprato dischi, pensando, un giorno, di lasciarglieli: perché possano non scordare l’esempio di miti ed eroi del nostro tempo che rischiano di andar dimenticati. Ma, non di meno, lo dedico a tutti quelli che erano consumatori di musica durante il periodo qui raccontato ed, oggi, non ci sono più, come Carlo† che, seppur non più giovane, ha creato la copertina del libro e sempre condiviso con me ogni avventura grafica.

    intro Bruschi risvegli … - 1972

    1.

    Millenovecentosessantotto: tante sono le pagine di libri dedicate a quel fatidico anno. Trasformazioni sociali, eventi drammatici, la fine dei sogni per una generazione, l’inizio di quella che sarà la società post-moderna dei figli dei baby-boomers. L’elezione di Richard Nixon, l’uccisione di M.L. King, il fragoroso dischiudersi del flowers power che, come una cometa cadente, lasciò dietro di sé un fascio di luce in dissuasione, le morti di Brian Jones e Brian Epstein, l’annunciato scioglimento dei Beatles… troppo per un solo anno. La borghesia perbenista dell’epoca semplicemente non poteva comprendere il senso degli eventi ed era rimasta ottusamente sbigottita al sentire proclami hippy del tipo: "quando penso alla rivoluzione mi viene da fare l’amore". Eppure, la politica dell’erotismo aveva già mostrato la sua forza persuasiva, e l’isteria collettiva era oramai una componente della scena. Caos, disordine orgiastico ed anarchia si erano ormai impadroniti della musica rock. La violenza del sistema si rivolta sfacciatamente contro il sistema stesso: una catarsi di gruppo volta a definire nuove regole. Rock’n’roll gridavano i bombardieri americani prima di sganciare Na.pal sulle capanne vietnamite, rock’n’roll gridava Jim Morrison all’inizio di ogni concerto.

    I Doors furono proprio l’esempio più fulgido della fine di una fase storica del rock. La loro produzione musicale anticipa e materializza il passaggio dalla psichedelia dell’acid rock alla musica di resistenza degli anni Settanta, raccogliendo il senso di angoscia e paura di bianchi e neri, americani ed europei. Il tutto mentre tre grandi concerti rock, a cui i Doors da autentici simboli del passaggio non parteciparono, scandivano la fine delle illusioni politiche e sociali del periodo post-bellico: Monterrey nel 1967, Woodstock e Altamont due anni più tardi.

    Proprio nei primi mesi del ’67 veniva pubblicato il primo disco della band californiana, The Doors (1967, Elektra), e nel settembre dello stesso anno il loro secondo album, Strange days (1967, Elektra). I due lavori presentavano un sound inedito: una mescolanza di virtuosismo sinfonico del tastierista di formazione classica Ray Manzarek, batterie jazz, brani in stile Love (in particolare il loro grande successo del 1966 My Little Red book) e ritmi blues accompagnati dalla poetica baudelairiana di Morrison. Due furono i brani simbolo dell’esordio del gruppo: The end e When the music is over. Previsione dell’apocalisse, messianismo dionisiaco, rifiuto di ogni autorità ed estremizzazione urlata della filosofia della generazione dell’amore: vogliamo il mondo e lo vogliamo ora! In particolare, era in The end che trovavano tutti gli elementi fondamentali della musica dei Doors e della filosofia poetica di Morrison. Brano dalla difficile gestazione, a causa delle abbondanti quantità di LSD che Jim si calava prima di entrare ai Sunset Sound Recording Studios, nonché motivo di non pochi problemi per la band (ad esempio i Doors furono cacciati dal Whisky-a-Go-Go a causa del famoso verso edipico di Morrison), esprime efficacemente lo spettro dell’apocalisse. Apocalisse in senso etimologico come rivelazione, apocalisse in senso coppoliano come corsa verso l’inferno. Nella track troviamo tutto ciò che erano i Doors: una lunga introduzione psichedelica, capace di ricreare le atmosfere di un rito sciamanico nel deserto, la voce profonda e sensuale di Morrison ancorata saldamente alla base blues del brano, una lunga parte recitata in cui Jim si trasforma in un efferato killer patricida; undici minuti di evocazione dionisiaca del caos e della catarsi violenta. Fine delle illusioni, fine della rivoluzione dell’amore, fine del sogno americano, fine all’ottimismo dei Sessanta, fine della beata gioventù americana inviata al massacro nella giungla vietnamita. Goodbye America!

    Nessuno più di Jim Morrison incarnò tale svolta epocale. Se, ad esempio, Beatles e Stones si erano dimostrati più che proclivi ad adattare le loro performance alle esigenze dello show business e della censura moralistica, Morrison all’Ed Sullivan Show, nel settembre del ’67, ignorò i dettami della censura e pronunciò, scandendolo in camera, il verso di Light my fire "Lei si eccita". Se il popolo dell’amore a Monterrey si commosse alle note di I’ve Been Loving You too Long e Try A Little Tenderness di Otis Redding (Brian Jones si dice piangesse, Hendrix quasi), a New Haven, in un affollato concerto dei Doors, Morrison, durante Back Door Man, raccontava alla folla di essere stato confuso con uno spettatore e malmenato da un poliziotto nel backstage poiché stava scambiando qualche tenera effusione con una ragazza. Repressione e brutalità di Stato, altro che libero amore. Il racconto non mancò di insulti e provocazioni, ed il pubblico incominciò ad inneggiare contro le forze dell’ordine sino a quando gli agenti non salirono sul palco per arrestare il cantante con le accuse di oltraggio al pudore, turbamento dell’ordine pubblico e resistenza a pubblico ufficiale. La commozione per l’amore universale del sogno hippy stava esaurendosi: era il momento della decadenza e della fine dell’innocenza.

    L’influenza su Morrison del Living Theater, e dei primi gruppi californiani di psicodramma, è innegabile, ma fu, in particolare, la miscela di questi elementi con proclami sciamanici, ed una colta sintesi dei temi cari alla moderna letteratura maledetta (da Blake a Kerouac, da Hesse a Baudelaire), a rendere Morrison il nemico pubblico numero uno, almeno in termini politico-culturali. FBI, CIA e magistratura, tutti puntarono il dito accusatorio contro il Re Lucertola. Una sua frase, pronunciata ad una nota giornalista newyorkese, "loro hanno i fucili, ma noi abbiamo la gente" allineava Jim ai rivoluzionari del tempo. Con Morrison, tuttavia, l’estetico faceva ingresso nel politico e l’adozione di determinati comportamenti sociali e sessuali andava a collocare la rivoluzione su un piano individuale e fisico; gettare un ponte verso il proprio essere interiore, entrare in contatto con Dio, diventando noi stessi una divinità. Una ricerca continua della purezza nel disordine genealogico, aprendo una porta dopo l’altra, immergendosi nel male e nella notte, per cercare di trovare un varco verso un regno più pulito e libero.

    L’eccitazione collettiva che la politica dell’erotico suscitava sul pubblico dei Doors toccò il suo picco il primo marzo del 1969, pochi mesi prima di Woodstock, in una esibizione live del gruppo al Dinner Key Auditorium di Miami. Jim visibilmente allucinato tenne, durante l’esecuzione di Touch Me, una lunga predicazione:

    "Ehi…non sono qui per parlarvi di rivoluzione. Non vi sto parlando di armi o rivolte. Non vi sto dicendo di scendere in strada. Sto parlando di divertirci. Parlo di amare chi ti sta accanto. Parlo di abbracciare il tuo amico. Parlo di amore. Parlo di un po’ di amore. Amore. Dico balliamo. Voglio vedere che vi alzate e ballate. Voglio vedervi ballare per le strade. Voglio vedervi che vi divertite. Voglio vedervi vagare senza meta. Voglio veder dipingere la città. Voglio vedervi scuoterla. Voglio vedervi urlare. Voglio vedere del divertimento. Noi siamo insieme. Siamo insieme… volete vedere il mio cazzo?".

    Morrison si beccò una condanna per atti osceni e bestemmia e interrogato sul perché avesse scelto proprio Miami per tali esternazioni replicò: "Pensavo fosse il modo migliore per onorare i miei genitori". Da lì a poco, ad Altamont, sarebbe successo ben di peggio: decine di feriti, un ragazzo di colore ucciso dal servizio d’ordine degli Hell’s Angels e trascinato sul palco sotto gli occhi sbigottiti di Mick Tagger: era la fine predetta, tragica ed assurda allo stesso tempo.

    Nel 1970, i Doors pubblicano Morisson Hotel (1970, Elektra) e suggellarono, in un brano spettrale e terrificante, Peace Frog, l’irruzione del caos, della paura e del disordine nell’immaginario collettivo. Un caos simile al gioco, un’attività in libertà che, come sosteneva Morrison, non racchiude in sé nient’altro di ciò che è e, proprio per questo, sovverte la struttura di potere. Un caos non fine a se stesso, ma strumento di elevazione verso il misticismo pellerossa rincorrendo il ritorno, spirituale ed estetico, ai tempi del popolo della Lucertola, popolazione indios californiana localizzata, secondo la cultura orale dei nativi, tra Los Angeles e Weed. L’utopia di Jim rievocava quindi la purezza, la sensualità e la forza di una comunità Navajo, una comunità di spirito fondata su arte e musica, poesia e sesso. Era, la sua, un’altra dimensione contrapposta con decisione all’ipocrisia ed alla frenesia della realtà del mondo. Sfortunatamente, se riferite allo stesso Morrison, le parole di Shaman’s Blues si sono rivelate simili ad una profezia: "Non ci sarà mai più nessuno uguale a te. Non ci sarà mai nessuno che possa fare quello che fai tu".

    Morto Jim si sarebbero dovuti aspettare quasi venti anni prima di osservare importanti evoluzioni nella controcultura del politico-erotico.

    2.

    A Woodstock, come noto, si celebrò un funerale. Dopo quelli di John Kennedy, Malcom X e Martin Luther King, si celebrava un’altra morte illustre: il decesso del movimento hippy e delle utopie della generazione dell’amore. Persino il movimento per i diritti civili si ritrovava frantumato in molteplici correnti (integrazionisti, separatisti, anarchici ecc…) e le tensioni tra neri ed ebrei, all’interno della NAACP, incominciavano ad essere regolari. Come se non bastasse, le Black Panthers erano state messe al centro di una forte opera di repressione attuata dal governo con la forza dell’esercito e l’aiuto della CIA. Per di più, lo stile di vita e gli ideali hippy – capaci, agli inizi dei Sessanta, di attrarre non solo la gioventù universitaria bianca, ma anche ragazzi di etnie diverse appartenenti alla classe lavoratrice – regredirono ad uno stereotipo, diffuso prevalentemente all’interno dei principali campus universitari americani, fatto di rock progressivo, un po’ di droga, capelli lunghi ed un rassicurante futuro nell’economia borghese. Durante i Sixties, comunque, era emersa con forza, come osserva Eric Hobsbawm, una controcultura giovanile demotica (cioè di ispirazione popolare) ed antinomiana (ovvero avversa a ogni tipo di regola), che ambiva a dare una direzione alla rivoluzione culturale in atto. Da un verso, lo slogan "vietato vietare del maggio parigino del 1968 esprimeva il rifiuto di omologazione, repressione e penalizzazione di un’intera generazione. Dall’altro, si sviluppò, tra artisti ed intellettuali, una crescente nostalgie de la boue" (voglia di bassifondi) secondo la quale il ghetto urbano, il quartiere decadente di artisti e sbandati (come Venice Beach), veniva percepito in maniera crescente come l’unico luogo capace di esprimere, ancora e nonostante tutto, la primordiale energia della creatività e della libertà altrove imprigionata dalle leggi uniformanti del capitalismo massificante e della società dei media.

    Nei primi anni Settanta, tuttavia, rispetto al decennio precedente, tali elementi fondanti della controcultura giovanile si dovettero confrontare con la definitiva affermazione dell’individuo sulla società, del desiderio individuale sul dovere morale, dell’edonismo consumistico sull’esistenzialismo à la Morrison. Per di più, la riorganizzazione economico-produttiva del capitalismo post-boom economico, con la delocalizzazione degli stabilimenti delle principali imprese industriali al di fuori della città e la nuova divisione internazionale del lavoro, contribuì alla formazione di una nuova sottoclasse, etnicamente mista, che si trovava segregata all’interno di enormi quartieri-ghetto situati nel cuore delle grandi metropoli. Si conflagrò così una rottura. Da un lato, una massa ingente di giovani consumatori di musica e cultura pop, appartenenti alla borghesia medio-alta, per i quali si stava consolidando un’imponente industria dell’intrattenimento; dall’altro, gli adepti delle sub-culture e della resistenza urbana, situati prevalentemente nei sobborghi metropolitani, con la naturale tendenza a mutuare, per esprimere il loro messaggio sociale, una pluralità di generi e stili musicali dal jazz al funk, dalla musica caraibica alle sonorità africane.

    Tra i tanti generi musicali presenti sulla scena internazionale a fine anni Sessanta, la soul music è probabilmente quello che meglio illustra la suddetta spaccatura. Dalla sua nascita alla fine degli anni Cinquanta, la musica soul era riuscita ad ottenere importanti conquiste. Ray Charles, con I Got a Woman, aveva travolto non solo le classifiche di rhythm and blues, altrimenti dette di race music, ma ottenuto un folgorante successo nelle classifiche pop solitamente dominate da cantanti bianchi ed anglosassoni. Sam Cooke, con brani quali Wonderful World o You Send Me, era invece riuscito a far breccia tra i cuori delle giovani teen-ager avvezze alle sonorità melense dell’easy listening di Burt Bacharach. La musica razziale era giunta al capolino. Il soul aveva poi consentito l’affermazione di un’industria discografica nera. In modo particolare, Tamla/Motown di Detroit e Stax di Memphis diedero corpo a due modelli diametralmente opposti di emancipazione nera e di integrazione culturale. La prima, fondata da Berry Gordy nel 1960, era un’impresa produttrice di musica per il mercato pop, a prevalenza bianco, dove produttori, musicisti, cantanti, distributori avevano origini rigorosamente afroamericane. La seconda, nata nel 1961 per opera di Jim Stewart e della sorella Estelle, utilizzava un eclettico meltin’ pot formato da produttori e distributori bianchi, come Jerry Wexler e la Atlantic Records, musicisti di etnie diverse e voci squisitamente black producendo, prevalentemente, musica per il pubblico nero.

    Gli artisti Motown del periodo risultavano, come ovvio, rappresentativi del target di riferimento dell’etichetta (il mercato bianco) e dei metodi interni all’azienda (forte accentramento delle decisioni, assidua pianificazione dell’immagine del cantante, produzione standardizzata di basi e testi da parte di un ristretto numero di produttori) per confezionare hits. Il primo Marvin Gaye, con i languidi duetti assieme alla sfortunata Tammi Terrell (ad esempio Ain’t Nothing Like the Real Thing), i gruppi tutti femminili, come the Supremes o Martha Reeves and the Vandellas (prototipi delle sensuali cantanti di swing beat di fine millennio) od i poliedrici Temptation, capaci di miscelare, grazie all’abilità di Smokey Robinson, R&B, soul, rock e funk e di conquistare le classifiche con brani dal sapore decisamente pop (è, in special modo, il 1965 l’anno di affermazione del gruppo con brani storici quali Since I Lost my Baby o Get Ready), sono solo alcuni nomi. Lo stesso dicasi per il gruppi di artisti e musicisti orbitanti attorno alla Stax. Organizzata in modo decisamente meno rigido e centralizzato rispetto alla Motown, con un target di riferimento meno commerciale e session pressoché continue fondate su interplay jazzistico ed improvvisazione, nonché intrattenute dai migliori musicisti di Memphis fossero questi neri, bianchi o di qualunque altro colore, la Stax si fece riconoscere immediatamente per il suono ruvido, i bassi pompati ed una complessa stratificazione di fiati a supporto del vocalist. Insomma, un irripetibile approccio interrazziale al soul dovuto al fatto che Memphis, in quegli anni, era una città nella quale la musica era uno dei pochi strumenti con cui si poteva sfuggire alla segregazione razziale. Una vera e propria scuola musicale di integrazione sociale: chitarristi bianchi con un background rock’n’roll come Steve Cropper e Chips Moman, bassisti di colore provenienti dal bebop come Lewis Steinberg, produttori di R&B di origine ebraica come Wexler, tutti uniti da un feeling particolare. Booker T and the MGs con Green Onions, Wilson Pickett con In the Midnight Hour, Otis Redding ed il suo capolavoro Otis Blue (1967, Atco/Atlantic), sono tutti prodotti dell’età d’oro della label.

    A fine anni Sessanta gli artisti neri avevano ormai conquistato la scena musicale e, per la prima volta nella storia, dettavano legge in fatto di look, moda e stile di vita. Come scriveva il Times nei primi mesi del 1968:

    "Possiede soul? Amico, è questo il quesito del momento. Se possiede soul è tosto, è super, è uno sballo. Passa l’esame per essere ‘in’. Ha l’autenticità del cavolfiore che bolle in pentola, lo stile impertinente del boogaloo in una discoteca alla moda, la solidarietà da ‘Soul Brother’ scarabocchiata sul muro del ghetto… Soul è un modo di vivere, ma è sempre il più difficile. La sua essenza è radicata in coloro che soffrono e subiscono per poi riderne".

    La canzone We’re a Winner degli Impressions sintetizzava lo spirito dei tempi: una sensazione di aver finalmente concluso con una vittoria una lunga e difficile battaglia sociale e culturale.

    Quel fatidico 4 aprile in cui il reverendo King fu ucciso da un colpo di arma da fuoco, mentre era sul balcone dell’Hotel Lorraine di Memphis, fece crollare in un battito di ciglia il rassicurante trionfalismo della comunità soul. Se, infatti, l’uccisione di Malcom X era stata vista, all’interno della comunità afroamericana, come la logica conseguenza del separatismo armato da lui predicato, e quindi come il prezzo che doveva essere pagato perché il presidente Johnson firmasse, nel 1964, il Civil Rights Act, l’omicidio di MLK, integrazionista e pacifista, fu letto come un violento backlash con cui l’America ricca, bianca e razzista si dimostrava ancora capace di opporsi al percorso di emancipazione socio-culturale degli afroamericani. La battaglia non solo non era vinta, ma era lungi dall’essere terminata. Il concomitante collasso degli ideali della flowers generation, il sopraggiungere della crisi economica internazionale (la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro da parte di Nixon è del 1971) e la fase tristemente conclusiva della Guerra in Vietnam, anni durante i quali era evidente l’esito negativo del conflitto, contribuirono ad avviare lo sgretolamento delle certezze. Furono What’s Going On (1971, Tamla) di Marvin Gaye e There’s a Riot Going On (1971, Epic) di Sly and the Family Stone i due LP che segnarono il passaggio delle colonne d’Ercole. I ghetti erano inquieti, ormai non si contavano più gli scontri razziali nelle principali metropoli, stava emergendo la cd. sottoclasse e l’Estate dell’Amore appariva lontana anni luce. Si consumerà, da lì a poco, la scissione su discussa.

    Alla rottura che portò alla divisione tra musica di massa e musica da subcultura, il soul rispose con distinte, ed emblematiche, evoluzioni. In primo luogo, numerosi produttori musicali delle principali etichette del sud, uno tra tutti Isaac Hayes, introdussero un tocco più jazzistico al suono Stax, e parti vocali quasi parlate, dando vita a uno stile, lo street-funk, chiaramente urbano, dichiaratamente di resistenza e disperatamente radicato nella vita dei ghetti neri. Il funk di strada non era però l’unica forma di funky music espressione della fine delle illusioni delle giovani generazioni di afroamericani. Quattro furono, volendo schematizzare, le ulteriori sottocorrenti della musica nera che tennero banco in quel fatidico passaggio di decennio: lo sweet funk, una melensa mistura di soul, crooner pop e ritmi sincopati dal forte contenuto erotico, inaugurato dal famoso 33 giri Let’s get in on (1973, Epic) di Marvin Gaye; il philly sound dell’etichetta Philadelphia International che esplorava le varianti dance del soul di matrice Motown arricchendolo con edulcorati arrangiamenti per archi di Kenny Gamble e Leon Huff; il funky-jazz di musicisti come Julian Cannonball Adderley, Herbie Hancock, Donald Byrd (si ricordino in questa sede, il primo album della Blue Note a vendere più di un milione di copie, Blackbyrd (1973, Blue Note) ed il glorioso Headhunters (1973, Columbia) di Hancock); il soul-funk di formazioni come Kool and the Gang e Earth, Wind and Fire. Sì tanta vitalità estetico-musicale spinse molti commentatori a ritenere gli appena iniziati anni Settanta il decennio del funk ovvero, secondo la famosa definizione di George Clinton dei Funkadelic, la decade del muovere il culo. La ricostruzione di simboli, miti e stilemi di un nuovo underground nero, differente da quello fondato sulla rivoluzione separatista delle Black Panther e dei musulmani neri, passava, in altri termini, tramite il ritmo implacabile, sovversivo ed erotico, della danza nera in una sorta di epidemia del ritmo (la jes grew del romanzo Mumbo Jumbo di Ishmael Reed del 1972), della consapevolezza erotico-politica della razza nera. Divennero così di moda i vistosi costumi colorati alla Bootsy Collins, i pantaloni a zampa di elefante alla James Brown, le scarpe con zeppa e le minigonne vertiginose alla Chaka Khan.

    L’essere funky si realizzava, prevalentemente, tramite tre stereotipi alternativi. In primo luogo vi era il black macho, ovvero l’irresistibile amatore nero, capace di personificare, fare propri e rimodulare, i valori relativi al sesso, al potere ed al successo dell’America bianca. In seconda istanza, il topos escapista/futurista alla Sun Ra e Moon Dog che i Funkadelic di Margot Brain (1971, Westbound) tentarono di estendere ed accostare allo stile rock-funk. Infine, l’immagine del giovane gangster nero il cui spirito era stato colto dalle parole di Superfly di Curtis Mayfield:

    "lo scopo del suo ruolo/è fare un sacco di grana/e lui vi dirà che non lo sa/il massimo che vi confesserà/è che non può essere come tutti gli altri/ma il tempo sta scadendo/e non c’è felicità".

    Ognuna di queste realizzazioni pratiche dell’essere funky si rivelerà ben presto foriera, indipendentemente da quanto essa verrà sfruttata dallo show business, di preziosi elementi contro-culturali. Le visionarie ricostruzioni marziane ed il P-funk di Clinton e soci, confinati inizialmente in una sorta di riserva indiana, diventeranno un vero e proprio culto di fine decennio e saranno capaci di ispirare i sogni tecnologici di rivoluzione dei primi produttori techno. Non di meno, il sexual healing di Marvin Gaye nutrirà prima la mania per la disco music, quindi la sensualità della house. Infine, le immagini di giovani gangsta di colore contenute nelle pellicole blaxploitation, nutrirono l’immaginario dei giovanissimi che avrebbero, da lì ad un decennio, scoperto la subcultura hip hop.

    3.

    Blaxploitation è un neologismo ottenuto dalla parole black ed exploitation (sfruttamento) indicante, al contempo, una precisa produzione cinematografica ed uno stile di funk-soul. Ispirate dai romanzi di scrittori afroamericani, come Iceberg Slim e Chester Himes, le pellicole d’azione nere, quali Shaft o Superfly, spopolarono agli inizi dei Settanta proponendo un funk intimamente connesso con l’iconografia di strada. Spacciatori, papponi, prostitute, detective privati e poliziotti corrotti, Malcom X, il Vietnam e l’America post-diritti civili, il tutto miscelato assieme per l’esaltazione dell’edonismo, dell’ascesa sociale e della vita metropolitana dei neri.

    Tanto interesse dei produttori cinematografici per i black movies era giustificato dal fatto che, nella parte finale dei Sessanta, la produzione cinematografica pagò il prezzo della larga diffusione tra le famiglie americane di apparecchi televisivi. Il calo della domanda di proiezioni da parte del ceto medio bianco aveva spinto le principali imprese di Hollywood, come la United Artists o la MGM, ad esplorare un pubblico sino al allora praticamente ignorato: i giovani lavoratori neri. Le pellicole blaxploitation, solitamente produzioni a basso budget capaci di ottenere buoni incassi, basavano il loro successo sulla capacità di mostrare l’esperienza quotidiana degli afroamericani sotto forma di intrattenimento e di esemplificare come i neri americani rappresentassero, più o meno realisticamente, la loro condizione sociale.

    Cotton Comes to Harlem (1970), prodotto dalla United, fu il primo film diretto da un regista nero capace di superare i 15 milioni di dollari al botteghino. Girato in parte negli studios in parte nelle strade del quartiere di New York, il film era basato su un romanzo di Chester Himes e conteneva frequenti riferimenti all’epoca dello schiavismo e al sogno del ritorno in Africa così come predicato da un illustre abitante di Harlem: Marcus Garvey. La cosa interessante, a tal riguardo, era che un po’ ovunque, dagli Stati Uniti ai Caraibi, dal Regno Unito all’Europa, durante i primi anni Settanta, si manifestò un nuovo, importante, infervoramento per il panafricanismo. Le comunità nere degli Stati Uniti abbandonarono un orientamento esclusivamente rivolto verso problemi di integrazione interna e riscoprirono parte del messaggio di Malcom X, creare una nazione nera, re-interpretandolo ora da un’ottica internazionalista. Garvey venne dunque rispolverato come riferimento politico e morale e ciò avvicinò fortemente le comunità caraibiche residenti negli Stati Uniti con la popolazione nera americana.

    Fu, tuttavia, Shaft (1971) della MGM, con protagonista Richard Roundtree e musiche di Isaac Hayes, ad imporre uno standard riscuotendo un importante successo sia di pubblico, bianco e nero, che di critica. Incassò più di 7 milioni di dollari, ebbe due capitoli di seguito (Shaft’s Big Score (1972) e Shaft in Africa (1973) entrambi MGM), ispirò uno nota serie-tv e beneficiò di una colonna sonora (su Stax) di elevata qualità capace di vincere un Oscar e vendere più di un milione di copie. Isaac Hayes realizzò per l’occasione una sorprendente sintesi di generi musicali di ispirazione afroamericana ed arrangiamenti orchestrali simili a quelli realizzati da Bernard Hermann per i film di Alfred Hitchcock. La chitarra con effetto wah-wah del brano avente lo stesso titolo del film diventerà il motivo simbolo dell’artista, ma notevoli furono anche la cover di The Look of Love di Bacharach e le incursioni nel territorio del dub, risultato della cooperazione artistica con alcuni artisti giamaicani (i Chosen Few). Hayes, peraltro, non era nuovo alle sperimentazioni. Nel suo disco più famoso, Hot Buttered Soul (1969, Stax), aveva registrato un brano, By the Time I Get to Phoenix, contenente, per la prima volta nella storia della musica, un lungo testo rappato eseguito su una lenta base soul. Lo stesso Hayes condurrà, nella sua produzione successiva agli anni Stax (l’etichetta dichiarò bancarotta nel 1975), lo street-funk verso ritmi più veloci ed il tipico suono ckukawucka che presagirà l’avvento della disco music (si ascolti Out of the Ghetto del 1978 su Polydor). Attore, grande compositore, eccellente arrangiatore, ottimo tastierista (tanto che in molte jam session alla Stax sostituiva Booker T), ispirò molte grandi voci, tra cui Barry White e Brian Ferry. Instancabile lavoratore, capace di presidiare session infinite per poi comporre all’alba sulla strada di ritorno verso casa, ricorda così i suoi anni di formazione alla scuola Stax:

    "Lavoravamo giorno e notte. Una volta Otis aveva una session verso le tre di notte, ed i Bar-Keys vennero in studio dopo aver finito al club, e incidemmo per tutta la notte. Carla, All Bell, Otis, Dave e io siamo stati più di una volta tutta la notte in studio a comporre. Io non avevo la macchina, ma David sì, e lui e Otis passavano dal mio appartamento a prendermi. Di ritorno verso lo studio qualche volta accostavano lungo il lato della strada, Otis tirava fuori la chitarra e diceva: «Hey, amico, che ne dici di questo?»".

    Il Mosè Nero, così viene ricordato: un uomo capace di condurre lo spaesato popolo del soul verso nuovi territori di sperimentazione. Un leader carismatico e silenzioso, esattamente come il personaggio Shaft con il quale l’immaginario collettivo continuerà ad identificarlo (Hayes era sul punto di interpretarne il ruolo, ma alcuni problemi di definizione del contratto con la MGM fecero saltare il tutto).

    Se Shaft aveva imposto uno standard, l’apice del filone blaxploitation venne raggiunto da lì a poco. Superfly (1972) e Willie Dinamite (1973) traevano ispirazione a piene mani dai racconti di Iceberg Slim sui tempi in cui faceva il pappone a Chicago (si veda "Pimp: The Story of my Life" del 1967): ambientazioni da film su Al Capone, belle ragazze squillo seminude, spacciatori di droga iper-griffati, tutti elementi che, una volta fissati su pellicola, rimarranno per lungo tempo nella iconografia dei ghetti urbani. La colonna sonora di Superfly fu di grande impatto. Scritta da Curtis Mayfield e pubblicata da Curtom, conteneva, oltre al classico street-funk della titletrack, brani pieni di bassi rimbombanti e chitarre distorte (Pusherman e Freddie’s Dead) o pezzi tendenti al jazz come Give Me Your Love. Un Mayfield che raggiungeva i suoi apici funk, dopo gli avanguardistici album di esordio, Curtis (1970, Curtum) e Roots (1971, Curtum), contenenti un misto di swing gospel, chitarre psichedeliche ed imperiosi ottoni dal sapore africano.

    Tante poi le successive produzioni blaxploitation. Da Coffy (1973) e Foxy Brown (1974) che lanciarono la prima eroina nera, quella Pam Grier che rivedremo nell’ispiratissimo film di Quentin Tarantino Jakie Brown (1998), a Ted Turner (1974) interpretato da Isaac Hayes, fino a Blackjack (1978) produzione che segnò la fine definitiva del genere. A fine decennio persino il pubblico nero si era ormai stancato della decantazione della negritudine di strada. Da un lato, le pellicole disco, come Saturday Night Fever (1977) o Shaketown USA (1979), imposero un nuovo stile; dall’altro, le grandi produzioni come Star Wars (1977) riaffermarono il potere del blockbuster.

    Vivendo comunque di ambientazioni urbane, ed immergendosi di continuo nella perversione del quotidiano, lo stile blaxploitation consentì alla musica funk-soul di entrare in contatto con la urban poetry di proto-rapper quali Gil Scott-Heron le cui poesie diventarono, in quegli anni, canzoni, in una straordinaria miscela tra lo stile di Hayes ed i profondi soliloqui del Jim Morrison di An American Prayer (1972, Elektra). The Revolution Will Not Be Televised e Home is Where the Hatred Is sono due classici di questo autore che esordì con l’LP Pieces of A Man (1970, Flying Dutchman). Il primo dei due brani diventò subito un classico inno di critica alla cultura di massa e, con i suoi versi "la rivoluzione non sarà trasmessa per TV/la rivoluzione non avrà repliche/la rivoluzione sarà dal vivo", puntualizzò lo stato di rincoglionimento a cui erano arrivati molti afroamericani con il chiudersi dell’era del diritti civili (notevoli saranno anche i suoi lavori successivi da Winter in America (1974, Strata), sui cupi tempi moderni, sino a Reflections (1981, Arista) decisamente schierato contro Reagan e la reaganomics). Ad esempio, i Last Poets, un trio di afroamericani che con l’album omonimo, The Last Poets (1970, Douglas), fu capace di superare le trecentomila copie vendute proponendo poesie rappate su basi funk, tamburi africani, testi aventi come tema le rivolte razziali e la vita nei ghetti metropolitani. Il loro brano più famoso divenne Niggers Are Scared of Revolution, brano che suonava decisamente come un invito a non demordere, a non mollare: "mi piace vedere i neri agire/mi piace vedere i neri fare i loro giochi/ ma c’è una cosa dei neri che proprio non mi piace/i neri hanno paura della rivoluzione". Replicheranno l’anno dopo con This Is Madness (1971, Douglas), contenente un altro buon successo, Mean Machine, ma ben presto il gruppo si sfalderà (due le riunioni: una nel 1984 per Oh My People (1984, Celluloid), accompagnati dalle tastiere di Bernie Worrel dei Funkadelic, l’altra nel 1993 per Holy Terror (1993, Ryoko), prodotto da Bill Laswell, dove mostrarono di non aver perso lo stile, seppur le loro poesie di strada graffiassero decisamente meno).

    I Last Poets e Scott-Heron, tra il 1970 e il 1972, fornirono formidabili spaccati di vita, polemiche odi anti-sistema ed autentiche poesie per guerrieri urbani: furono, di fatto, i padri dei primi rapper. Di lì a poco iniziò ad affermarsi nel Bronx il breakbeat, precursore dell’hip hop anni Ottanta.

    In mezzo alla pioggia di pellicole afroamericane accompagnate da musica soul e funk, trovò spazio la distribuzione di un film che presentava al pubblico internazionale una nuova realtà culturale ed un nuovo genere musicale. Uscito nelle sale nel 1972, assieme all’omonima colonna sonora prodotta dalla Island Records, The Harder They Come parlava al mondo di un piccola isola dei Caraibi: la Giamaica.

    4.

    Isola di 10.991 Kmq – soprannominata dai suoi primi abitanti, gli indios Arawak, Xaymaca, ossia "isola delle sorgenti", a causa dei numerosi corsi fluviali e delle tante cascate in essa presenti – venne inizialmente colonizzata dagli spagnoli che ne fecero destinazione della tratta dei neri africani occupati nella coltivazione di canna da zucchero. Nel 1665 il controllo coloniale dell’isola passò agli inglesi che intensificarono l’importazione di schiavi dall’Africa. Secondo stime approssimative, dall’inizio del XVIII al 1833 (anno in cui Giorgio III decretò l’abolizione della schiavitù e la liberazione degli schiavi), circa 15 milioni di giovani uomini africani furono trasportati vivi dagli inglesi nei Caraibi con due morti per ogni sopravvissuto. La resistenza anticoloniale venne organizzata da comunità di Maroons, assediate sulle colline, che si richiamavano alle originarie tradizioni africane e coltivavano l’uso di percussioni come i tamburi kumina e burru. Tanti furono gli scontri tra gli uomini delle colline ed i coloni inglesi tra il 1725 ed il 1833 ed importante, quindi, l’impatto sociale del primo movimento post-liberazione del predicatore laico Paul Bogle, il Great Revival, ispirato alla spiritualità africana (in particolare al culto animista Bongo) e diffusosi attorno al 1860.

    Nel 1887 nacque a St. Ann’s Bay Marcus Mosiah Garvey fondatore, nel 1914, della prima associazione volta alla diffusione di una nuova consapevolezza nera: l’UNIA (Universal Negro Improvement Association). La coscienza di razza, secondo Garvey, era il punto di partenza, a cui dovevano far seguito l’emancipazione economico-sociale ed il ritorno alla terra-madre, l’Africa. Nel 1916 Garvey trasferì la sede dell’UNIA ad Harlem e cominciò ad intessere forti legami con quei gruppi che andranno in seguito

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