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Our vision touched the sky: Fenomenologia dei Joy Division
Our vision touched the sky: Fenomenologia dei Joy Division
Our vision touched the sky: Fenomenologia dei Joy Division
E-book353 pagine5 ore

Our vision touched the sky: Fenomenologia dei Joy Division

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Info su questo ebook

Un libro per attraversare e ricostruire l'opera dei Joy Division analizzata in un'ottica interdisciplinare in grado di spaziare dalle scienze sociali alla musica, dall'analisi testuale alle influenze culturali, dalla tensione filosofica al consumo di massa, dalla letteratura ai social network, dal cinema alla linea grafica. Un percorso trasversale e polifonico. Una ricostruzione di un immaginario in forma di scrittura per ritrovare, ancora una volta, la band di Salford.
LinguaItaliano
EditoreRogas
Data di uscita11 ott 2021
ISBN9791220850674
Our vision touched the sky: Fenomenologia dei Joy Division

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    Anteprima del libro

    Our vision touched the sky - Alfonso Amendola

    a cura di Alfonso Amendola e Linda Barone

    Our vision touched the sky

    Fenomenologia dei Joy Division

    LA SENSIBILITÀ VITALE

    Collana di Scienze dei media e Sociologia della cultura

    diretta da Alfonso Amendola

    Le trasformazioni di tipo industriale e politico sono poco profonde: dipendono dalle idee, dalle preferenze morali ed estetiche di coloro che sono contemporanei ad esse. Però, a loro volta, ideologia, gusto e moralità non sono altro che conseguenze e specificazioni della sensazione radicale nei confronti della vita, di come viene sentita l’esistenza, di quella che chiameremo «sensibilità vitale», che è il fenomeno primario nella storia, la prima cosa da definire se si vuole essere in grado di comprendere un’epoca

    (José Ortega y Gasset, Il Tema del nostro tempo, 1923)

    LA SENSIBILITÀ VITALE

    collana di Scienze dei media e Sociologia della cultura

    Direttore

    ALFONSO AMENDOLA

    (Università degli Studi di Salerno)

    Comitato scientifico

    AMOS BIANCHI (Nuova Accademia di Belle Arti di Milano), FAUSTO COLOMBO (Università Cattolica di Milano), GIOVANNI FIORENTINO (Università della Tuscia), ANTONIO LUCCI (Humbolt Unviersität zu Berlin), MARTIN MÜLLER (Humbolt Unviersität zu Berlin), MAURIZIO MERICO (Università degli Studi di Salerno), ERCOLE GIAP PARINI (Università della Calabria), ROBERTA PALTRINIERI (Alma Mater Studiorum Università di Bologna), GIOVANNI RAGONE (Sapienza Università di Roma), JAN SÖFFNER (Zeppelin Universität zu Friedrichhafen), MICHELE SORICE (Luiss di Roma).

    Comitato redazionale:

    Michelle Grillo (Università di Salerno), Annachiara Guerra (Università di Salerno), Daniele Battista (Università di Salerno).

    I testi scientifici della collana sono sottoposti a double blind peer review

    202 1

    Rogas Edizioni

    © Marcovaldo di Simone Luciani

    viale Telese 35

    00177 – Roma

    e-mail: info@rogasedizioni.net

    sito web: www.rogasedizioni.net

    Facebook: Rogas Edizioni

    Instagram: @rogasedizioni

    ISBN: 9788845294778

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice

    Prefazione - di Roberta Paltrinieri*

    Premessa e invito alla lettura - di Alfonso Amendola e Linda Barone

    RADICI

    Metropoli e spazio periferico nell’underground post-punk inglese - di Alfonso Amendola e Novella Troianiello*

    The Sound and the Fury. Manchester, i Joy Division e la crisi sociopolitica dell’Inghilterra degli anni Settanta - di Daniele De Luca

    The weight on their shoulders. Ian Curtis e la metamorfosi dei baby boomers - di Eugenio Capozzi

    I Joy Division tra vomito culturale e ideali sottoculturali - di Donato Guarino

    IMMAGINARI

    Il segno, la grafica, la visione - di Alfredo De Sia

    Here are the Young Men, the weight on their shoulders. La danza esistenziale di Ian Curtis - Manolo Farci

    Reimmaginare l’immaginario. Traduzioni socio-culturali di un’estetica - di Paolo Bertetti, Domenico Morreale*

    Dream English kid 1978-1980. L’immagine lo-fi dei Joy Division nei media popolari inglesi - di Jennifer Malvezzi

    Control e l’infrangimento del vetro. Oltre la superficie biografica - di Ian Curtis di Andrea Rabbito

    Immagini e simboli nell’incarnazione mitica dei Joy Division - di Fabio La Rocca

    Interzona. Burroughs e Ballard nei testi di Ian Curtis - di Alessandro Gnocchi

    A guide to come: i Joy Division come universo simbolico. Una ricerca sulle recensioni musicali - di Vincenzo Romania

    Directionless so plain to see. (Di)Versioni stilistiche, letterarie e traduttive - di Linda Barone

    PENSIERO

    Ti sfido a disperarti. I Joy Division e la notte del pensiero - di Massimo Villani

    Living in the Ice Age. Joy Division: un’impresa comune tra post-situazionismo e isolazionismo - di Giuseppe Allegri

    ... waiting for something to happen... - di Fortunato M. Cacciatore

    Joy Division: una poetica della distanza - di Francesca Ferrara

    CARTOGRAFIE IN DIVENIRE

    Dance Dance Dance! L’Interzone tra il sound dei Joy Division e la Rave Era - di Caterina Tomeo

    Ian Curtis is not dead. Dalla Factory Records ai rave nelle factories - di Emiliano Ilardi

    Unknown Pleasures: Pulsar di una t-shirt iconica - di Raffaele Federici

    Trademark will tear us apart again. A proposito di marchi di impresa e nomi di gruppi musicali: il caso Joy Division - di Giada Iovane e Giovanni Maria Riccio*

    Vedo la gente Joy Division. Bibliografia, sitografia, videografia, discografia, filmografia - a cura di Michelle Grillo

    Bionote

    LA SENSIBILITÀ VITALE

    Prefazione - di Roberta Paltrinieri*

    * Roberta Paltrinieri è professore ordinario di S ociologia dei processi culturali presso il Dipartimento delle Arti. È il responsabile scientifico del DAMSLAb dell’Università degli studi di Bologna.

    Mi sono spesso interrogata sul perché gli anni Ottanta del secolo scorso impattino così tanto sul nostro immaginario contemporaneo, sul perché gli anni Ottanta costituiscano una fonte inesauribile da cui tutt’ora attingere in un processo di ancoraggio che inneggia alla nostalgica riattualizzazione di segni e testi culturali che appartengono a quel preciso momento storico e che hanno attraversato l’avvicendamento generazionale, generando la sensazione che dagli anni Ottanta non si sia mai totalmente usciti, inducendo noi studiosi della cultura e dei consumi a un confronto quasi autobiografico con queste forme culturali tanto grande è l’immedesimazione e inevitabile l’osservazione partecipante. Our vision touched the sky. Fenomenologia dei Joy Division, che considero un’opera fondativa, un’operazione culturale importante, sembra rispondere a questo dilemma.

    I consumi, gli oggetti, le pratiche culturali, i significati a essi correlati, così come abbiamo imparato da Simmel (1895) prima e da Baudrillard poi (1968), e a cui si ascrive sociologicamente lo studio di queste forme culturali, sono tutti dispositivi attraverso i quali i sistemi sociali, e al loro interno i gruppi sociali, intere generazioni e singoli individui, mettono in mo­to processi di autoriflessività.

    I consumi rappresentano lo specchio nel quale si riverberano strutture e culture, valori e agency, conflitti e latenze. A ben pensarci le pratiche di consumo altro non sono che le fenomenologie esteriori di quelle processualità profonde che emergono nella superficie delle mode, dei generi testuali e che nella apparenza effimera rivelano i delicati equilibri di una società che necessita del simbolico per auto narrarsi e trovare un senso.

    Il genere del post-punk, bellissima la metafora del rizoma di Deleuze e Guattari a cui si ricorre nel testo proprio per sottolineare la dimensione eterarchica dalla quale prende avvio il processo di gemmazione di stili, mode e nuovi generi, alla sua nascita certamente prosegue il contrasto simbolico e ideologico che dà identità al movimento punk nell’Inghilterra thatcheriana, e delocalizza il conflitto nelle aree periferiche della Gran Bretagna.

    Manchester, Sheffield, Liverpool sono lo scenario urbano periferico nel quale si anima il disagio esistenziale di giovani appartenenti alla piccola e media borghesia, scopertasi nel frattempo priva di tutele e certezze, a causa delle politiche neoliberiste della Lady di ferro, così come ci descrive Ken Loach attraverso la narrazione filmica, mentre a Londra il punk da movimento è diventato moda.

    Ma la forza propulsiva del post-punk, che giunge sino a oggi, nei flussi mediali che ci attraversano, sta nel non essere rimasta ancorata alla dimensione del conflitto di classe e al rifiuto delle strutture tradizionali del potere.

    Il post-punk, come sembra scorgere Pier Vittorio Tondelli in un racconto del 1982 raccolto nell’opera Un week end postmoderno deve la sua longevità all’avere dato corpo a quella dimensione esperienziale che connota le identità personali postmoderne che: «nella forma esteriore, l’involucro, l’aspetto esteriore trovano la forma di comunicazione delle proprie intensità interiori» (Tondelli 1990: 389) e che motiverebbe la ricchezza e la capacità generativa di questo genere che non esaurisce la propria valenza simbolica nel contrasto con il passato, musicale, storico e sociale, ma trova linfa vitale nella loro attualizzazione, continuando ad innovarsi.

    A ben vedere nelle parole dello scrittore reggiano, che a sua volta aveva colto la lezione di Pier Paolo Pasolini [1] sul potere della società dei consumi, ritroviamo l’affermazione di quella ontologia consumistica di cui parla Colin Campbell, il più importante sociologo dei consumi vivente, che è alla base di una teoria del consumo postmoderna e che rende la vita stessa come un progetto dominato dal perseguire il «piacere», come modalità privilegiata di esperire il mondo in una realtà sociale sempre più individualizzata.

    Lo studio di una forma culturale, il post-punk, ci conduce, in estrema sintesi, all’affermazione ancora attuale dell’homo psicologicus, idealtipo dell’agire sociale contemporaneo, nel quale l’individualismo scivola nell’edonismo, un edonismo e­sistenziale che comprende il disagio e non solo unicamente il perseguimento della felicità. Quel piacere che, come asserisce Arjun Appadurai, va rintracciato nella tensione tra nostalgia e fantasia, quanto mai centrale per comprendere il circolare ricorso al post-punk e si manifesta attorno all’etica, all’estetica e alla pratica dell’effimero, come chiave di lettura delle esistenze postmoderne.

    Nella fenomenologia del post-punk che qui viene ampiamente contestualizzata ci sono, a ben vedere, i prodromi di ciò che saremmo diventati, di quella realtà sociale nella quale gli individui si aggregano per il comune sentire, per il comune provare, senza leggi né sanzioni, ma unicamente per un processo di identificazione che decade quando vengono meno i comuni interessi, che ci legano gli uni con gli altri.

    [1] Per questa rilettura del testo di Tondelli sono debitrice a Marco Antonio Bazzocchi e alla sua lezione magistrale, Io li filmerò, filmerò i loro amori, nell’ambito delle celebrazioni dei 50 anni del DAMS, 11 giugno 2021.

    Premessa e invito alla lettura - di Alfonso Amendola e Linda Barone

    La critica deve essere passionale, personale, politica

    Charles Baudelaire

    1. Heart and Soul

    Un libro per attraversare e ricostruire l’opera dei Joy Division. Un percorso trasversale e polifonico [1] . Una ricostruzione di un immaginario (di «presa generazionale» [2] ) in forma di scrittura per ritrovare, ancora una volta, la band di Salford. Un «racconto», analitico ed emozionale.

    Analitico per i rimandi, le tracce storiche, la versione teorica, il divenire progettuale della band, la ricostruzione delle radici, la lettura trasversale degli immaginari, la connessione delle interferenze, l’indomita immersione in una forte componente interdisciplinare in grado di spaziare dalle scienze sociali alla musica, dall’analisi testuale alle influenze culturali, dalla tensione filosofica al consumo di massa, dalla letteratura ai social network, dal cinema alla linea grafica.

    Emozionale perché questo libro corale è (anche, forse soprattutto) voracemente aperto alla contraddizione, a posizioni di lettura differenti, a chiavi d’interpretazione personali, a dialettiche biografiche.

    Insomma, con questa fenomenologia abbiamo voluto costruire un lavoro di narrazioni differenti ma unite da un sentire visionario che ha una precisa base nel nervo portante delle passioni e nel desiderio di raccontare le voci possibili dei Joy Division e, al contempo, cercato di regolare un po’ di «conti» con noi stessi e con le nostre personali biografie (helas!).

    2. Ceremony

    Nel primo capitolo ( Radici) Alfonso Amendola, Novella Troianiello, Daniele De Luca, Eugenio Capozzi e Donato Guarino definiscono i contorni culturali, politici, sociali ed estetici che si muovono attorno alla nascita dei Joy Division. Nel secondo capitolo ( Immaginari) Alfredo De Sia, Manolo Farci, Paolo Bertetti, Domenico Morreale, Jennifer Malvezzi, Andrea Rabbito, Fabio La Rocca, Alessandro Gnocchi, Vincenzo Romania e Linda Barone disegnano gli immaginari, appunto, che nel vivo abitano il mondo JD. Indicando un vasto scenario espressivo e contaminato di grande forza ed intensità. Nel terzo capitolo ( Pensiero) Massimo Villani, Giuseppe Allegri , Fortunato M. Cacciatore e Francesca Ferrara indagano le trame del pensiero realizzando un vero corpo a corpo con il gruppo. Nel quarto capitolo ( Cartografie in divenire) Caterina Tomeo, Emiliano Ilardi, Raffaele Federici, Giada Iovane e Giovanni Maria Riccio ci invitano a un lettura «ulteriore» dei Joy Division evidenziandone eredità e linee di prospettiva. Infine nell’ultimo capitolo ( Vedo la gente Joy Division) Michelle Grillo nel disporre una vasta bibliografia (e non solo) ci dona un aggiuntivo strumento di ricerca per avvicinare l’immaginario dei Joy Division.

    3. Atmosphere

    Dunque è giunta l’ora di dedicarci alla lettura di questo nostro volume superbamente corale. Pur sapendo che c’è ancora tanto da dire sui Joy Division. Infatti, ben sappiamo che lo spazio di ricerca è ancora aperto. E pur avendo circumnavigato tantissimo il loro percorso siamo consapevoli che molto resta da scoprire, analizzare, ascoltare, comparare. Ma questi punti «ulteriori» li lasciamo ai giudizi delle lettrici e dei lettori che s’immergeranno nello straordinario viaggio chiamato Joy Division. A noi, in dislocante atmosfera e consapevoli che nessun amore è mai perduto, non resta che augurarvi buona lettura.

    [1] In perfetta continuità con le attività del Seminario Permanente (promosso dalle cattedre di Sociologia dei processi culturali e Linguistica inglese e traduzione dell’Ateneo di Salerno) Unknown Pleasures che dal 2014 s’impegna a raccontare il contemporaneo tra convegni internazionali, seminari, lectio magistralis e pubblicazioni (Amendola, Barone 2016; 2018; 2019; 2022).

    [2] Per questo concetto (che nasceva da un’immediata suggestione post convegno Feeling/ No feelings. Per una fenomenologia del punk e del post-punk nell’aprile del 2018 presso l’Ateneo salernitano) ringraziamo la prof.ssa Roberta Paltrinieri per aver indicato la «necessità» di un definitivo ingresso di temi «generazionali» negli ambiti di studio e di ricerca. Anche da qui il desiderio di averla come nostra prefatrice che ringraziamo.

    RADICI

    Metropoli e spazio periferico nell’underground post-punk inglese - di Alfonso Amendola e Novella Troianiello*

    * Questo saggio ha avuto una sua prima stesura In: «H-ermes. Journal of Communication». Vol. 1. N. 13, Lecce: UniSalento, p.37-56, con il titolo To the centre of the city in the night waiting for you. Centro e periferie nella sottocultura post-punk e new wave inglese

    . Il saggio è frutto di una riflessione collettiva dei due autori. Il primo paragrafo è scritto da Alfonso Amendola, il secondo paragrafo è scritto da Novella Troianiello.

    « To the centre of the city where all roads meet, waiting for you To the depths of the ocean where all hopes sank, searching for you Well I was moving through the silence without motion, waiting for you In a room with a window in the corner I found truth»

    (Joy Division, Shadowplay, Unknown Pleasures, 1979)

    1. Gioco di ombre

    Composta nel 1979, settima traccia dell’album Unknown Pleasures, Shadowplay dalla lirica della prima strofa, fino alla fine, descrive e ricalca i confini spaziali della poetica dei Joy Division. Il centro della città come punto nevralgico nel quale si consuma l’attesa, l’apertura scenica da un incrocio in cui tutte le strade si incontrano, alle profondità lontane dell’oceano dove affondano tutte le speranze, il movimento notturno che si sviluppa nel silenzio urbano, lontano dalla folla. Attraverso l’eco quasi cavernoso del suono che sembra provenire da una dimensione «altra» e la voce di Ian Curtis, frontman del gruppo, profonda e disillusa, Shadowplay sembra riportare alla memoria i tratti del paesaggio urbano desolato e spento della periferia metropolitana, nella quale il fermento e il desiderio di eversione sono relegati ai luoghi chiusi, agli ambienti privati protetti da grandi porte pesanti, club underground ed edifici post-industriali.

    Lo sfondo è quello dell’Inghilterra tatcheriana caratterizzata da un profondo declino economico, avviatosi già nel decennio precedente, e livelli di disoccupazione sempre più alti con il passare degli anni. La privatizzazione delle industrie statali e l’aumento delle imposte indirette come l’IVA colpirono principalmente il settore manifatturiero della nazione accentuando le discrepanze già evidenti tra periferie e centri città.

    Le dinamiche dell’urbanizzazione che hanno definito e che tutt’ora definiscono i confini tra centri economici e politici e poli industriali periferici, non riguardano esclusivamente le politiche del welfare e i piani di governance per la crescita del Paese. Piuttosto, un insieme di fenomeni come quelli culturali e sottoculturali circoscrivono il carattere di un’epoca che, attraverso particolari forme di stili, tendenze e consumi, dà vita a movimenti continui dai bordi verso il centro e viceversa, in un movimento migratorio perenne che investe qualsiasi settore sociologico. Dall’inurbamento delle aree sottosviluppate e la conseguente possibile riqualifica, per il processo noto come gentrificazione, quella che Burgess (1925) individua come un’evoluzione «ecologica» della città con ripercussioni sul mutamento sociale, geografico fino ad arrivare alla toponomastica, al movimento stilistico e culturale che si sposta verso la sperimentazione delle forme culturali e l’avanguardia, il binomio centro-periferia ha da sempre caratterizzato i mutamenti di natura storica e sociale. Partendo da questo presupposto, ciò che ci si propone di affrontare in questo lavoro, è evidenziare come una forma culturale come quella del post-punk, nata dalle periferie residenziali e industrializzate dell’Inghilterra a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, abbia riscritto col tempo una nuova geografia del racconto.

    Il motivo che riguarda la scelta di un genere musicale come strumento di analisi di una società, di un’epoca e di un fenomeno che ancora influenza la contemporaneità risiede nelle peculiarità del genere stesso, che lo rendono un esempio ancora vivo dell’impianto culturale europeo post-moderno. Il post-punk, così come gli altri generi, descrive l’identità sociale di un determinato periodo e rappresenta, attraverso l’esperienza musicale ed estetica, l’identità collettiva del gruppo sociale che produce. In tal senso, riprendendo il saggio di Frith sulla relazione tra musica e identità si può dire che: «music, like identity, is both performance and story, describes the social in the individual and the individual in the social, the mind in the body and the body in the mind; identity, like music, is a matter of both ethics and aesthetics» (Frith 1996: 109). Si assume quindi che i generi musicali e i sottogeneri non siano solo il prodotto di un determinato gruppo sociale, dunque generati da determinate condizioni, ma che generino a loro volta delle identità sociali che ne modellano i confini e praticano esperienze performative capaci di mutare nel tempo le stesse forme culturali.

    Parlare di un genere musicale che affonda le sue radici profonde nei lontani, seppur sempre vicini, anni Ottanta (Amendola 2021) riflette la necessità di affrontare una categoria di consumi che trova terreno fertile ancora nel nostro contemporaneo e nella «febbre dell’oro» che lo caratterizza.

    È fuori da ogni dubbio che negli ultimi anni l’industria culturale abbia fatto sempre più leva sulle categorie della nostalgia dando vita a prodotti generazionali che mescolano tra loro elementi appartenenti a epoche passate in un regime di deliberato arcaismo. A uno sguardo più distante, complessivo, sulle produzioni di maggiore successo, che riescono ad avere un seguito fortissimo e allo stesso tempo creano delle vere e proprie culture di massa, i riferimenti agli anni Ottanta, al post-punk e ai sottogeneri a esso affiliati sono infiniti. È il caso ad esempio di un certo settore indipendente musicale contemporaneo e cinematografico dai primi anni Duemila ad oggi, della grande produzione seriale Over the Top come quella di Netflix che continuamente dà vita a prodotti originali dal forte carattere generazionale e dell’industria dei consumi della moda e della fashion industry. Ne sono un esempio i molteplici richiami filmici, televisivi e audiovisivi in generale che rievocano, menzionano, inseriscono all’interno dei propri testi, musica, parole e soprattutto immagini appartenenti al periodo tra il 1978 e il 1984. I riferimenti a band come New Order, Ultravox, Smiths, Echo and the Bunnymen e Joy Division sono ricorrenti, sancendo ulteriormente l’influenza e l’immanenza di tali gruppi nel sedimento culturale, musicale e visivo della contemporaneità. A partire da film come Donnie Darko dei primi anni Duemila, passando per produzioni dal sapore dichiaratamente (e forzatamente) indie come 500 Days of Summer, passando per gran parte delle produzioni dell’impero di Indiewood di Fox Searchlight e Focus, fino alle recenti serie TV come Stranger Things e 13 reasons why (solo per citarne alcune) che attingono alla cultura musicale e visuale del periodo post-punk/new wave, la cultura musicale anni Ottanta ha rappresentato e tutt’ora rappresenta un bacino da cui attingere.

    Una vera e propria opera di saccheggiamento culturale bifronte, che da un lato caratterizza il post-punk nei suoi tratti determinanti, dall’altro l’atteggiamento del contemporaneo ver­so il genere stesso.

    Se negli anni il punk, che ha rappresentato un punto di rottura determinante, distruttivo e dirompente, è stato analizzato, sezionato fino all’osso, rintracciando in esso i segni di un tracollo culturale, il post-punk non ha goduto della stessa notorietà fino a oggi. «A furia di essere trascurato così a lungo, il post-punk ha finito per diventare una delle poche risorse ancora disponibili per l’industria del retrò, alimentando una scatenata febbre dell’oro» (Reynolds 2018: 13).

    Se il punk, come affermato da Reynolds, fu principalmente un movimento basato su un vortice di malcontento e forze «contro» che finirono solo per disintegrare e disperdere le ideologie lasciando vivo solo il mito, il post-punk accese l’attenzione sulla necessità di rispondere al grande quesito rimasto dopo la morte del punk circa l’incertezza sul futuro della musica. Così, mentre da un lato il punk rappresentava la risposta nichilista all’incertezza sociale e politica, la forza eversiva di una comunità che utilizzava la ribellione come forma di creatività e l’annullamento di ogni etichetta, categoria e confine (Beer 2014), il post-punk fu l’occasione per ricostruire i ponti con la musica del passato e sperimentare nella ricerca di nuove sonorità. La risposta fu eterogenea e diversificata, dando il via ad un’epoca composta da una strepitosa ricchezza di suoni e idee, ripensando in questo modo i confini dei generi, dal glam rock di David Bowie e Roxy Music, allo ska, al prog.

    In questo suo tentativo di riscrittura dei rapporti con la storia, musicale ma anche e soprattutto letteraria, il post-punk su più versanti ha introiettato il concetto spaziale del movimento tra centro e periferia. Se da un lato difatti il post-punk apriva i propri confini alla sperimentazione e alla ricerca, dal­l’altro si allontanava sempre di più dai luoghi di origine del punk, muovendosi piuttosto verso dei centri che poco avevano a che fare con il mondo frenetico della metropoli e dei suoi topoi e molto invece avevano a che vedere con le periferie industriali e i suburbs residenziali della classe media e working class. Entrare nel merito del post-punk, in effetti, vuol anche dire intraprendere un viaggio che si articola principalmente fra tre città chiave, più o meno distanti da Londra, ma che allo stesso modo rappresentano dei bacini culturali fondamentali. Si parla di Manchester, Liverpool e Sheffield, tre città che racchiudono al loro interno una fucina composta da artisti in qualche modo tutti collegati tra loro, produttori appassionati e proprietari di club, caffetterie e sale prove che hanno rappresentato gli spazi fisici per la creazione di questo nuovo genere.

    Sebbene queste tre città non possano certo essere definite piccole, essendo piuttosto tra i centri più popolosi d’Inghilterra, il processo di tentata riqualifica e fallita gentrificazione promossa a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta le portò ad assumere le sembianze di enormi periferie residenziali, prima cuori pulsanti dell’industria del lavoro, successivamente metropoli senza uscita, simbolo di una politica che riusciva con difficoltà a guardare fuori dal perimetro della City londinese.

    È chiaro che accanto a queste tre città fondamentali per intensità della produzione musicale fuori Londra, gravitano altri luoghi simbolo dell’Inghilterra post-industriale degli anni Ottanta, luoghi segnati dalle politiche conservatrici del periodo e che, allo stesso modo del triangolo geografico Manchester-Liverpool-Sheffield, offrivano un terreno brullo eppure fertile per il germe della sperimentazione. È il caso di Leeds, città natale dei Gang of Four e degli Scritti Politti, due tra i gruppi del genere in questione a essere maggiormente legati a una poetica e una politica a cavallo tra Marx e Gramsci, o anche di Northampton e Birmingham, culla rispettivamente dei Bauhaus e dei Duran Duran (che nel post-punk hanno mosso i primi passi).

    Lo scenario urbano della periferia, traumatizzato dall’architettura brutalista degli anni Sessanta e di conseguenza da una cementificazione selvaggia, è la chiave di volta necessaria per comprendere il mondo del post-punk. Manchester, Liverpool e Sheffield, città industriali in declino dell’Inghilterra del Nord che avevano vissuto in prima persona la violenza della rivoluzione industriale, passando da un paesaggio essenzialmente rurale all’industrializzazione massiccia del diciannovesimo secolo, offrivano alla generazione dei figli della working class e della classe media la possibilità di riflettere e di vivere sulla propria pelle il senso di alienazione della periferia che, lontana dalla moda ormai patinata del punk (in questo senso la moda è intesa proprio come fenomeno di consumo che vede in personaggi come Vivianne Westwood esponenti di prim’ordine), si consuma nello scenario inquieto e grigio delle città post-industriali.

    Se la produzione musicale e culturale del post-punk è da intendere come la messa in circolo di merci e ideologie, nel­l’accezione che Marx dà delle merci come geroglifici sociali, tutto ciò che riguarda tali merci ricopre una funzione comunicativa dando vita ad una polisemia del testo.

    Per identificare il significato di determinate scelte portate avanti nello stile punk e post-punk bisogna quindi prima di tutto intendere il testo come un’identificazione di apparati generativi di categorie ideologiche (Mepham 1974), ossia, come sostiene Hebdige, rintracciare l’apparato produttivo responsabile delle «esotiche esibizioni della sottocultura».

    In questa accezione parlare del post-punk significa prima di tutto parlare di un mondo di consumi a sé stante, uno spazio anch’esso periferico come i luoghi nel quale si sviluppa in Europa che si muove dai confini della sottocultura per arrivare ai vertici della cultura dominante attraverso le sue declinazioni new wave e synth-pop. In tal senso, prima di entrare nel merito dell’analisi geolocalizzata del fenomeno, è bene tracciare una linea teorica di approccio sociologico su concetti del «mondo» inteso come insieme di appartenenza delle pratiche e degli stili del post-punk e su quello di «sottocultura».

    A partire dagli anni Trenta con la Scuola di Chicago, il concetto di mondo è entrato a far parte della sociologia come il complesso di elementi, ritualità sociali e concetti condivisi che definiscono l’interazionismo simbolico. Nel riprendere la nozione di Blumer di «mondo» a proposito del post-punk, Crossley (2015) lo definisce come «uno spazio, sociale e fisico, di interazione e significati condivisi, simboli, oggetti e pratiche generate col tempo da queste interazioni» (ivi, p.: 28, traduzione di chi scrive). In altre parole, gli oggetti che caratterizzano lo spazio-mondo assumono un significato che, senza le pratiche di condivisione che gli attribuiscono senso, altrimenti non avrebbero. Gli oggetti quindi si rivestono di una densità simbolica che con Baudrillard (1968) è possibile definire come «presenza» e che rende pregnante la loro stessa esistenza fondamentalmente antropomorfa. Sebbene Baudrillard faccia riferimento al sistema degli oggetti e al loro consumo all’interno delle strutture societarie come quelle degli ambienti domestici,

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