Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Punk. Born to lose
Punk. Born to lose
Punk. Born to lose
E-book264 pagine3 ore

Punk. Born to lose

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Antonio Bacciocchi attraversa la storia del punk da una prospettiva inedita, unendo alla competenza enciclopedica del critico musicale gli aneddoti e le esperienze personali di protagonista delle scene. Il punk è stato, senza alcun dubbio, uno dei momenti di maggior rinnovamento a livello musicale, sociale e di costume del Novecento. Sia che lo si consideri una semplice evoluzione di situazioni già in essere o un effimero evento passeggero, non si può negare che sia comunque stato un deflagrante punto di rottura con il passato. Ha infatti influenzato milioni di ragazze e ragazzi in tutto il mondo, contribuendo, in maniera decisiva, a rivoluzionare – forse per l'ultima volta – il rock inteso nella sua più ampia accezione. La progressiva musealizzazione lo ha depotenziato di ogni aspetto sovversivo, rendendolo una semplice, ennesima, corrente musicale a cui è correlata una ben precisa estetica. Per molte e molti è rimasto, invece, un'attitudine con cui affrontare la vita e la sua difficile quotidianità. E di questo, noi gliene saremo per sempre grati.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita10 nov 2020
ISBN9788836160792
Punk. Born to lose

Correlato a Punk. Born to lose

Ebook correlati

Musica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Punk. Born to lose

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Punk. Born to lose - Antonio Bacciocchi

    Prefazione

    di Federico Guglielmi

    Anche se sull’argomento ho firmato una mezza dozzina tra volumi, volumoni e volumetti, la classica domanda «ma il punk… cos’è?» mi manda sempre in crisi.

    Non perché non sappia rispondere, ci mancherebbe, ma perché i discorsi aperti dal quesito finiscono inevitabilmente per allungarsi e intrecciarsi in un dedalo di precisazioni, distinguo e divagazioni, con il risultato di far capire poco se non nulla. Per spiegare la famosa parolina di quattro lettere preferisco di norma ricorrere a esempi come quello che mi appresto a proporre, in piena sintonia con la circostanza specifica.

    Qualche anno fa Lilith And The Sinnersaints, una delle tante band sulle quali l’autore di questo libro ha impresso il suo marchio, realizzarono una T-shirt con lo slogan «Ma a te il punk non ti ha insegnato un cazzo?» Me ne spedì una e io, per deformazione professionale, non potei non rilevare che a te assieme a ti era un bel calcio in bocca – anzi: nelle palle – alla lingua italiana. Lo dissi all’Antonio, caro amico e partner in crime in varie avventure da ormai quasi quarant’anni, e la sua replica fu tanto lapidaria quanto inattaccabile: «Ma così è ancora più punk!» Già. Non fosse stato sufficiente il cazzo, termine di uso molto comune che però sulle magliette appare di rado, a rafforzare il concetto serviva pure un errore da matita blu. Che tocco di classe (per così dire), diavolo di un Bacciocchi!

    Insomma, da quel giorno mi capita di utilizzare la T-shirt di Lilith And The Sinnersaints per rispondere alla fatidica domanda «ma il punk… cos’è?» E visto come del punk Antonio abbia evidentemente colto alla perfezione lo spirito, non mi sono sorpreso che al tema abbia voluto dedicare un libro, senza assurde pretese di offrire chissà quali epifanie, ma affrontando la materia con competenza, amore e approccio più o meno personale.

    Il risultato è una vivace antologia di racconti, una galleria di personaggi cardine, una scatola piena di scatole cinesi nelle quali sono a loro volta contenute altre scatole che non sempre vengono aperte (magari, appena dischiuse, consentono una sbirciatina) per lasciare a quanti leggeranno il piacere di scoprire da soli, se stimolati, cosa nascondono. E qua e là affiorano anche vicende private, perché il Bacciocchi non si è limitato a studiare la Storia ma di essa, benché con le modalità spesso un po’ distorte consentitegli dal decentramento geografico e culturale, ha attraversato qualche evento. Lo ammetto: di leggere di Johnny Thunders, dei Ramones, dei Sex Pistols, di Patti Smith, dei Jam e di tutta l’orda che li ha seguiti mi sono strarotto i coglioni, ma per Antonio non mi sono potuto tirare indietro, e ne sono contento.

    Lo sarete pure voi, non importa se neofiti o scafati, che state scorrendo proprio queste righe.

    Su questo non ho dubbi.

    Introduzione

    Il punk è stato, senza alcun dubbio, uno dei momenti di maggior cambiamento e rottura a livello musicale, estetico, sociale e di costume del secolo scorso. Sia che lo si consideri una semplice evoluzione di situazioni già in essere o un effimero momento passeggero, non si può negare che sia comunque stato un deflagrante punto di rottura con il passato. Senza dimenticare che ha influenzato milioni di ragazze e ragazzi pressoché in tutto il mondo, contribuendo, in maniera decisiva, a rinnovare (forse per l’ultima volta) il rock, inteso nella sua più ampia accezione.

    La successiva e progressiva musealizzazione lo ha depotenziato di ogni aspetto rivoluzionario ed eversivo, rendendolo una semplice, ennesima, corrente musicale a cui è correlata una ben precisa estetica. Per molti è rimasto, invece, un’attitudine, con cui affrontare la vita e la sua difficile quotidianità. E di questo, noi, gliene saremo sempre grati.

    Nelle pagine che seguono ho sottolineato quelle che a mio personale parere sono state le tappe più significative del punk, dalle prime embrionali manifestazioni alle successive omologazioni e omogeneizzazioni.

    Ci sono numerose pubblicazioni di più ampio spessore che hanno già assolto in maniera superba il non facile compito di raccontarne ogni fase e dettaglio. Per l’appassionato e il cultore sarà facile trovare dimenticanze o sottolineare la minore importanza data a questo rispetto a quello. Ma sappiamo bene che nella musica, e nell’arte in generale, la soggettività ha un ruolo essenziale.

    Il percorso è cronologico, alla ricerca di un ipotetico filo conduttore che tiene insieme una storia complessa, spesso inestricabile, a cui ho voluto aggiungere una serie di esperienze personali e alcune interviste a protagonisti, che vogliono cercare di spiegare meglio, in maniera diretta, l’approccio alla materia. Il lettore noterà un focus prevalente sui primi anni del punk, con meno attenzione verso il prosieguo fino ai giorni nostri. Una scelta voluta e ponderata, ritendendo tale periodo come basilare, decisivo, il più importante, mentre ciò che è accaduto dopo una prosecuzione edulcorata, commercializzata e raramente così significativa come quegli esordi.

    Il termine punk

    Nell’accezione più recente il termine punk riporta immediatamente e quasi univocamente alla mente i Sex Pistols o i Ramones. Chi ha maggiormente approfondito l’argomento si spinge ovviamente ben oltre, i cultori possono sciorinare liste infinite di nomi ascrivibili al concetto. E altrettante definizioni, come suggerisce Bob Stanley in Yeah Yeah Yeah: The Story of Modern Pop: «Chiedi a quaranta punk di definire cosa sia il punk e avrai altrettante risposte diverse». Siamo in ogni caso in ambito strettamente musicale. L’origine invece si perde nella notte dei tempi e viaggia attraverso i secoli.

    J. P. Robinson nel suo saggio The rotten etimology of punk ne ripercorre in dettaglio lo sviluppo. Un primo assaggio, abbinato alla musica, risale al 1899 quando, in un articolo per un quotidiano, Eugene Levy definì una canzone ascoltata in uno spettacolo «the most punk song ever heard in a hall» («la canzone più punk mai ascoltata in un locale»). Più recentemente il termine punk è emerso negli anni Sessanta quando se ne incominciò a parlare a proposito di Stooges e MC5, mentre nel 1971 il giornalista Dave Marsh di «Creem» lo usò per descrivere un album dei Question Mark and the Mysterians. L’anno dopo Lenny Kaye, futuro chitarrista della band di Patti Smith, nominò così i gruppi semisconosciuti della scena garage punk americana del decennio precedente, che raccolse nella compilation Nuggets.

    Da metà degli anni Settanta il termine diventa usuale per connotare una larga serie di gruppi e sonorità. Pare che Lester Bangs, il funambolico critico musicale, lo usò mutuandolo da una elegante definizione di William Burroughs, che per punk intendeva «qualcuno che lo prende nel culo» – non lontano da Shakespeare, che lo accostava a quello di prostituta. Lo stesso Poeta che in alcune sue opere, a fine Cinquecento, definisce punk alcuni personaggi alquanto trasgressivi e agitati. Ma la prima testimonianza è del 1575, nella canzone Simon the old king (o Old Simon the king), dove si canta che «ubriacarsi è un peccato, è come essere un punk».

    Nello stesso periodo il termine compare, con accezioni involontariamente simili, nei futuri Stati Uniti d’America. Derivato da una delle tante lingue parlate dai Nativi che definivano la cenere punkw, il dare fuoco alla legna punxe e la polvere da sparo punck, venne usato giornalisticamente (testimonianza del 1777) per parlare di soldati che «combattevano come punk» (ovvero in modo infuocato o esplosivo) e che le cose erano «marce come il punk» (residuo di un fuoco, cenere, eccetera).

    Successivamente la parola divenne un aggettivo autonomo, che significava scarsa qualità, applicata alle arti: si parlò di «spettacoli punk» nei teatri di San Francisco nel 1889. I giornali speculavano sulle origini della parola. Alcuni dissero che era un gergo universitario o delle scuole d’arte, altri che si era diffuso tra i soldati che combattevano contro la Spagna, per i quali significava cibo immangiabile. Alcuni hanno affermato che veniva usato da giovani che provenivano dalla classe operaia. Il termine era usato in tutta l’America ma, curiosamente, all’inizio del secolo sembra fosse diffuso soprattutto in Kansas: c’era un’«orchestra punk» a Emporia nel 1898, una «band punk» ha sfilato per la strada a Waverly nel 1899, a Iola si è tenuto un «concerto punk» nel 1901 e Hutchinson aveva una «band punk» nel 1902. Nel 1901, secondo il «St. Louis Republic», il punk era «un gergo quotidiano del ventesimo secolo». Altre testimonianze attestano che nel 1907 il «Los Angeles Times» menzionò in prima pagina una campagna per «musica punk per gli uomini del sindacato», nel 1908, ci fu un’«opera punk» nel Nebraska, nel 1913, secondo il «New York Evening Telegram» una donna navigò attraverso l’Atlantico «suonando una chitarra al chiaro di luna e canticchiando canzoni francesi. La sua voce era punk». Il primo punk cinematografico è apparso nel 1916, in Pedro The Punk Poet.

    Nel corso del tempo la parola venne usata con sempre maggiore frequenza. La «Post-Gazette» di Pittsburgh nel 1914 lamentava che «non c’è da meravigliarsi se i manager ci inviano spettacoli di musica punk. Attirano un pubblico di grandi dimensioni, mentre l’esercizio sano e intelligente dell’arte scenica resta in secondo piano». Il «Tampa Times» nel 1917, recensiva la canzone Send Me Away With A Smile, definendola «molto punk e di conseguenza molto popolare» sottolineando infatti che «la popolarità di una canzone dipende molto dalla sua punkness», visto che «la richiesta prevalente in questo momento è: canzoni punk per persone punk».

    Nel 1932 gli Oregon Loggers, band country che si definiva composta da veri e puri boscaioli, si diedero nomi d’arte suggestivi. L’armonicista Ernest Nelson partì da un più variegato Whistle Punk per contrarlo successivamente in un più semplice diretto Punk, probabilmente il primo musicista a farsi chiamare così.

    Nel primo ventennio del secolo scorso il termine punk era diventato piuttosto frequente per definire giovani dalla tendenza delinquenziale o apertamente gay, entrando anche nel mondo del jazz, tanto che il grande clarinettista Benny Goodman nella sua autobiografia del 1939 dice che quando aveva dodici anni era soprannominato «un piccolo punk» mentre in quella di Mezz Mezzrow, Really the blues, l’autore sostiene che era ormai parte del glossario jazz dove rappresentava un ragazzo che in un rapporto omosessuale faceva la parte della femmina. Anche se continuava ad essere anche sinonimo di scarsa qualità artistica. In quegli anni la rivista «Ballyhoo» fece un sondaggio in cui chiedeva ai lettori di definire, in base ai propri gusti, una serie di artisti (tra cui l’idolatrato Bing Cosby) come meraviglioso, repellente o punk. Nel 1941 un critico musicale del South Carolina scrisse che per il blues non ci sarebbe stato alcun futuro con quelle canzoni «sfacciate e punky».

    Se fino a quel momento il termine era stato ambiguo, non sempre ben definito e non così usato, a partire dagli anni Cinquanta divenne onnipresente e ben chiaro nella sua accezione di delinquente. Molti giornalisti sottolineavano le tendenze deviate dei giovani infatuati del rock ‘n’ roll, dei film horror e di un’estetica fuorviante, classificandole sempre più come «pane per i punk». Lo stesso Elvis non fu indenne da articoli che lo descrivevano come «un punk» e i gruppi rock ‘n’ roll affini come «composti da punk», tanto che nello Steve Allen Show nel 1956 il conduttore salì sul palco vestito di pelle, con la chitarra abbassata sulle ginocchia (lo avranno mai visto i Ramones?) e con il nome fittizio di Four Punks interpretò l’ironica Misery Motel.

    Quando i Beatles sbarcarono in America (e la conquistarono) nel 1964, furono numerosi i giornali che li etichettarono come punk. L’«Austin American-Statesman» fu lapidario: «Sanno benissimo di essere dei punk, lo hanno anche ammesso». L’«Uniontown Evening Standard» li definì «punk immaturi» mentre il «Fresno Bee» li liquidò con un «sono solo dei punk con i capelli lunghi». Il «San Bernardino County Sun» stigmatizzò che a «questi quattro piccoli punk con i conti bancari alimentati dalla moda, i soldi hanno dato alla testa», mentre il «Berkley Barb» disse che erano solo dei «punk milionari».

    Negli anni Sessanta, soprattutto in America, il termine punk accostato alla musica fu spesso ricorrente: dal jazzista Mel Tormé che definì i Rolling Stones dei «punk pieni di droga», a un giornalista che di ritorno dal Vietnam scrisse in un acido articolo che «mentre migliaia di nostri ragazzi muoiono in Asia qui abbiamo gruppi di punk che diventano milionari vestendosi da donna». Il termine ha continuato a essere usato nei Sixties, sia per indicare l’estetica dei giovani sia la qualità musicale (in senso deteriore), ma anche per definire certe svolte stilistiche considerate bizzarre. Ad esempio, Frank Zappa, che il «Los Angeles Free Press» dipinse come la risposta rabbiosa che avrebbe potuto dare un «teenage punk degli anni Cinquanta» quando ascoltava la musica che andava di moda ai tempi. O quando Bob Dylan lasciò il folk per abbracciare il rock, chiaro esempio di come «i punk stavano per assaltare il tempio dell’industria discografica». Simon & Garfunkel incisero Punky’s Dilemma per il film Il laureato – ma venne rifiutato – mentre Frank Zappa in We’re only it for the money titola uno dei brani Flower punk, dove in una parodia di Hey Joe chiede a un punk dove se ne stia andando, ricevendo, come risposta, una serie di banalità che ridicolizzano la nuova moda psichedelico-floreale pacifista. Curiosa e surreale un’intervista, nel 1969, del «Los Angeles Times» a un giovane figlio dei fiori di colore (definito «a Negro high school senior»), impegnato politicamente, che chiede che si insegni la storia dei principali esponenti della black music, come Ray Charles o Marvin Gaye, e non di quel «vecchio punk morto» di Johann Sebastian Bach. L’affermazione dell’intervistato rimbalzò in tutti i media americani, suscitando commenti riprovevoli e scandalizzati.

    Probabilmente la prima consapevole citazione del termine punk, correlata alla concezione che ne diamo attualmente, è del mitico giornalista Lester Bangs che su «Rolling Stone» descrisse l’esordio degli MC5 definendo la band come «un gruppo di punk sedicenni in viaggio sotto effetto di metedrina». D’altronde Bangs lavorava da tempo a un romanzo, dai forti riferimenti autobiografici, intitolato Drug Punk.

    Il termine, agli inizi degli anni Settanta, è già piuttosto diffuso e regolarmente usato, anche per rockstar come Doors e Rolling Stones. In contemporanea, l’arrivo degli Stooges di Iggy Pop portò lo stesso Bangs e altri giornalisti a etichettarli in questi termini. Sul «Los Angeles Times» John Mendelsohn recensì il loro esordio parlando di «inni punk adolescenziali ripugnanti e vagamente intellegibili». Nei primi concerti del 1971 i Suicide incominciarono a pubblicizzare i loro concerti come «Punk music by Suicide». Lo stesso cantante Alan Vega ammise di avere attinto il termine dagli articoli di Lester Bangs. Anche Dave Marsh e Greg Shaw incominciarono a utilizzare punk per definire gruppi e dischi, contendendosi pubblicamente la primogenitura dell’uso. Greg Shaw: «Ho scelto di chiamare punk quei gruppi tra il 1964 e 1966 che suonavano un hard rock bianco già a quei tempi». Nel 1970, Ed Sanders, membro degli incendiari e sovversivi The Fugs, descrisse il suo primo album solista come «punk rock – sentimentalismo redneck – il mio passato aggiornato alla realtà attuale». Nel 1969 registrò una canzone intitolata Street punk che vide la luce però solo nel 2009.

    Fu la compilation Nuggets, del 1972, curata dal futuro chitarrista del Patti Smith Group, Lenny Kaye, che raccoglieva testimonianze di gruppi minori e semisconosciuti della scena garage rock di metà anni Sessanta, a sdoganare definitivamente la definizione di punk nella musica. Molte band incominciarono a chiamare la propria musica punk, altre vennero etichettate in questo modo per comodità giornalistica o dagli uffici stampa. Il termine venne accostato a decine di nomi, vagamente accomunati da radici blues o affini a un concetto di rock grezzo e immediato (dal giovane Bruce Springsteem ai primi Aerosmith e Ac/Dc, Suzi Quatro, Dr. Feelgood, perfino gli incolpevoli e innocui Monkees).

    Nel 1973 gli Who inclusero nella loro epica opera rock Quadrophenia il brano The punk and the godfather, in cui si rimarca, metaforicamente, l’incontro tra il nuovo («the punk») e il passato («the godfather», il nonno). Altri riferimenti li troviamo in una band di Detroit, The Punks, o in quella newyorkese degli Street Punk, mentre i Tubes pubblicano, nel 1975, il brano White punks on dope, ironizzando, pare, sui Jefferson Airplane.

    In molti casi si parlò di attitudine o musica punk per molte band glam rock, dai New York Dolls (effettivamente tra gli inventori del genere) ai Roxy Music («punk rock in space») fino agli immancabili David Bowie, Lou Reed e Marc Bolan o gli insospettabili e fuori luogo Sweet o Slade. Alice Cooper vinse il sondaggio, nel 1972, della rivista «Creem» sul «punk of the year». Nello stesso momento ci fu anche chi contestò l’uso del termine. Huey P. Newton delle Black Panthers diramò un comunicato in cui si proibiva, per rispetto verso gli omosessuali che considerava alleati nella lotta per i diritti dei neri d’America, l’uso delle parole frocio e punk, ritenute, in entrambi i casi, offensive e inadeguate.

    Lo stesso Lester Bangs nel 1975 ne prese le distanze: «Mi dissocio completamente da persone che si considerano punk, perché non voglio essere il re dei punk o il re dei critici rock o di qualsiasi altra cosa simile». Quando il suo amico Billy Altman lo portò per la prima volta al CBGB, a vedere i Talking Heads e i Television, il giornalista commentò: «Questo sarebbe punk? È solamente di nuovo solo San Francisco».

    Molti di coloro, tra critici e osservatori, sulla scena da tempo non furono particolarmente sorpresi o stupiti dalla prima ondata punk della fine degli anni Settanta. C’è chi la definì «la terza ondata punk rock» o, come Greg Shaw, «punk rock revival», o come il «Washington Post»: «Il punk rock è una delle forme più antiche e onorate del rock». Fu probabilmente la rivista creata da John Holmstrom, Legs McNeil e Ged Dunn nel 1976 e chiamata semplicemente «Punk» ad avvolgere con il medesimo termine, per comodità, tutto ciò che ai tempi gravitava intorno a certa nuova musica. Holmstroem chiarisce: «Punk era in uso da parecchio per descrivere il rock ‘n’ roll, da Bruce Springsteen, a Patti Smith, ai Bay City Rollers, tra i tanti. La parola punk sembrava riassumere il filo che collegava tutto ciò che ci piaceva: ubriaco, antipatico, intelligente ma non pretenzioso, assurdo, divertente, ironico e cose che appartenevano al lato oscuro». Il ricercatore sulle culture giovanili Jon Savage aggiunge: «Punk era il modo in cui a scuola venivano chiamati i falliti, che non sarebbero mai arrivati da nessuna parte, i nati perdenti». John Ingham su «Sounds» nel 1976 rimarcava che il termine punk rock era inappropriato. Era adatto ai gruppi di metà anni Sessanta che non avevano nulla in comune con la brutalità sonora di Sex Pistols, Clash o Damned.

    Gli stessi componenti delle principali band della scena inglese erano riluttanti. Johnny Rotten preferiva pensare ai Sex Pistols come «anarco rock», Mick Jones dei Clash non pensava di suonare né punk né new wave. «Chiamatelo come volete, tutte le definizioni puzzano. Meglio chiamarlo rock ‘n’ roll!» Altri musicisti rifiutarono spesso di venire catalogati, come già era successo al movimento hippie. Quando fu arrestato, Wayne Kramer degli MC5 nascondeva i giornali in cui si parlava di lui per evitare ogni riferimento con il giro punk (in gergo carcerario ancora vicino al concetto di omosessuale passivo). «Sono discorsi che in galera potrebbero farti anche uccidere!»

    Ma fu, più di ogni altra cosa, la famosa intervista ai Sex Pistols al Bill Grundy Show il primo dicembre 1976, nella quale la band si lasciò andare a insulti e oscenità e che proiettò Johnny Rotten e soci sulle pagine dei giornali di tutto il mondo come gruppo punk, a condensare nel termine tutto il significato che da lì in poi avrebbe avuto. Dando inizio a una nuova storia.

    Iggy Pop e le origini del punk

    È ormai prassi consolidata andare alla (disperata) ricerca dell’inizio assoluto.

    Del jazz, del rock, del blues e ovviamente anche del punk. Esercizio stucchevole, superfluo e sostanzialmente inutile. Basandoci sulla cosiddetta attitudine, costantemente citata per affibbiare l’etichetta punk, possiamo tranquillamente andare indietro di lustri, decenni, secoli. Nell’arte, volendo, troviamo esponenti punk

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1