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Le novelle della guerra
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E-book207 pagine2 ore

Le novelle della guerra

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Cominciammo con uomini che si avventuravano soli per le terre dell’Africa oscura, soli ed indifesi ma temprati al sacrificio e alla morte per condurre innanzi con la loro volontà il Destino della patria.
Morirono disperando. Non seppero e non videro forse che una generazione non lontana avrebbe raccolto i loro nomi per iscriverli nel martirologio della stirpe. Forse giacciono tuttavia lungo le piste carovaniere, pei deserti.
Pellegrino Matteucci, Antonio Cecchi, Giulietti, Bisleri, Chiarini, Bianchi, Diana, Monari: ecco i pionieri autoctoni.
La giovinezza del popolo andava innanzi a loro; la fatalità di un disegno storico li sospingeva al sacrificio. Morirono e lo squallore delle anime non seppe la bellezza e la grandezza del toro gesto. La trepidante ansia dei governanti deprecò la loro morte. Non si voleva agire. L’Italia, bollata dalla secolare servitù, impaurita dalle sue ultime disfatte sul campo di battaglia, sbigottita dal disastro di Lissa che era, nei secoli, la sua prima pagina ingloriosa sul mare, era renitente al suo Destino, si umiliava per non seguir la sua via. Non ardì quand’era tempo, non si rimosse quando altri le apriva la strada, si condusse da schiava ne’ suoi rapporti con le Nazioni, volle passar come l’ombra, essere nulla e nessuno per non trovarsi di fronte al pericolo e vi riuscì. Si salvò perchè necessaria ad un equilibrio di forze, ma l’anima sua si immiseriva sempre più. Ebbe uomini d’accatto che per la loro timidezza politica le tolsero anche l’ultima dignità. Cadde in dispregio. Le sue glorie nazionali si offuscarono. Ma il fato la premeva e dovette ubbidirgli.
LinguaItaliano
Data di uscita18 nov 2023
ISBN9782385744526
Le novelle della guerra

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    Le novelle della guerra - Antonio Beltramelli

    LE NOVELLE DELLA GUERRA.

    ANTONIO BELTRAMELLI

    Le Novelle

    della Guerra

    © 2023 Librorium Editions

    ISBN : 9782385744526

    A mio padre.

    A te, vecchio babbo, che mi passi nel tuo silenzio accanto; alla tua fierezza raccolta e al tuo saldo cuore di soldato consacro questa mia amorosa fatica.

    Il nostro orgoglio è uno: l’Italia; ma io vedo inferiore il mio còmpito di fronte a ciò che fu per te la vita. Io narro, tu hai agito; tu hai vissuto il tuo poema d’amore da Curtatone a Custoza: dalla tua prima giovinezza alla tua maturità compiuta, essendo sempre fra coloro che vollero.

    Fermo alla tua fede fin da quando ti nacque dal cuore, per disdegno e gagliardia, fin da quando ti valse la dura prigione e ti pose di fronte alla morte, hai veduto nascere e smorire e rinascere questa Italia nostra alla quale ciascuno di noi, entro il proprio confine, ha dedicato tutta quanta l’anima; e nei giorni più oscuri, allorchè ogni sogno di grandezza pareva vano, di fronte alla miseria degli uomini, non hai deprecato nè dubitato mai.

    Altri gridava maledicendo, tu hai taciuto nell’attesa. Io mi ebbi da te la forza del perseverare, la dura costanza che macera e affina, la virtù che ti regge all’incrociata e veglia lo spirito tuo chè non s’afflosci e troppo non ascolti e vilipeso non s’adiri e martoriato non si stanchi. Ciò che tu fosti e sei, vorrei essere io. E se pari siamo nell’amore all’Iddio indigete, vorrei avermi perenne, sul trascorrer degli anni, il religioso silenzio del tuo cuore che non dubita mai. Non più di questo e in questo la mia vita intiera. Fosse il mio come il tuo solco e la mia forza pari alla tua, nel campo del mio travaglio, fra i due vesperi. Ora che troppe cose si separano e tralignano e tormentate tormentano a ricercare inverosimili strade, e l’insincerità le conduce, ora più che mai io cerco il terreno delle tue radici per impiantarmi in quello e, nella mia qualsiasi forza, prosperare per quel che sono e voglio essere. L’ombra della casa degli avi non costringe nè immiserisce. È l’eterna montagna che dà vita alle fonti. Ed ogni casa ha una finestra all’alba ed una al tramonto e, sopra, il cielo infinito; ogni casa ha la sua porta che si chiude su la notte e sulla tempesta; e, se tu vegli, vedrai sul tuo nido, sul tuo esiguo spazio, sul tuo sacro nulla, il volto delle stesse stelle che sono sul mare smisurato e su le montagne abissali.

    La parola è la stessa, sempre, per tutti gli uomini, su tutte le terre; e l’aspetto e l’anima è una. Ora troppi si sperdono che vanno per roveti e sterpeti a ricercare ciò che è alla loro soglia, ciò che si stende su la loro piccola casa quando il sonno li coglie.

    Meglio è radicarsi alla terra antica ed essere la nuova pianta della selva sacra, dalla quale parlarono già le prime voci degli uomini e degli Iddii, e conoscer le virtù della stirpe sì che la tua forza e la tua ansia profonda ne siano rinsaldate.

    V’è un’ombra smisurata alla quale non farai fronte da solo se ben non t’impianti e ciò che più solo ti appare, più profondamente si radica nel suo popolo.

    Così io ho inteso il tuo amore, babbo, e per questo è tua la prima fatica che valga al mio fine.

    E con te è di tutti coloro che su la terra e sul mare hanno rinnovato questa Primavera Sacra. Ed ai vivi ed ai morti e alla magnifica masnada giovanile e al cuore dei Condottieri la voglio dedicata.

    Per ricordare.

    "Il coraggio è di tutti i popoli, ma l’eroismo è solo di quelli che debbono vincere.„

    Alfredo Oriani, Fino a Dogali.

    Cominciammo con uomini che si avventuravano soli per le terre dell’Africa oscura, soli ed indifesi ma temprati al sacrificio e alla morte per condurre innanzi con la loro volontà il Destino della patria.

    Morirono disperando. Non seppero e non videro forse che una generazione non lontana avrebbe raccolto i loro nomi per iscriverli nel martirologio della stirpe. Forse giacciono tuttavia lungo le piste carovaniere, pei deserti.

    Pellegrino Matteucci, Antonio Cecchi, Giulietti, Bisleri, Chiarini, Bianchi, Diana, Monari: ecco i pionieri autoctoni.

    La giovinezza del popolo andava innanzi a loro; la fatalità di un disegno storico li sospingeva al sacrificio. Morirono e lo squallore delle anime non seppe la bellezza e la grandezza del toro gesto. La trepidante ansia dei governanti deprecò la loro morte. Non si voleva agire. L’Italia, bollata dalla secolare servitù, impaurita dalle sue ultime disfatte sul campo di battaglia, sbigottita dal disastro di Lissa che era, nei secoli, la sua prima pagina ingloriosa sul mare, era renitente al suo Destino, si umiliava per non seguir la sua via. Non ardì quand’era tempo, non si rimosse quando altri le apriva la strada, si condusse da schiava ne’ suoi rapporti con le Nazioni, volle passar come l’ombra, essere nulla e nessuno per non trovarsi di fronte al pericolo e vi riuscì. Si salvò perchè necessaria ad un equilibrio di forze, ma l’anima sua si immiseriva sempre più. Ebbe uomini d’accatto che per la loro timidezza politica le tolsero anche l’ultima dignità. Cadde in dispregio. Le sue glorie nazionali si offuscarono. Ma il fato la premeva e dovette ubbidirgli.

    Così mentre era stata facile giuoco della Francia dapprima e si era rifiutata di seguir l’Inghilterra poi e, accecata dalla più grande insipienza politica e da un vergognoso timore, aveva trascurata la sua migliore fortuna, si decise ad entrare in campo meschinamente acquistando una piccola terra nell’Africa lontana.

    Agì come colui che rasenta i muri e segue l’ombra dei viottoli. La sua incorreggibile umiltà le vietava la strada a fronte serena, in pieno sole. Agli irresoluti è serbato sempre il cammino più aspro.

    E ancora, alla dolorosa terra mancò l’accorgimento. Si volle e non si volle. Si ubbidì all’Inghilterra stretta dal Madhi a Karthum, le si promise aiuto senza provvedere nella misura necessaria all’aspro còmpito, e quando l’Inghilterra, dopo un tragico eccidio, desistè dal suo disegno, si ricadde nell’irresolutezza avviliente. Si lesinarono i mezzi, si lasciarono uomini quasi indifesi, si preparò Dogali.

    Con Dogali ebbe principio una tragedia ed un’alba. Da allora si iniziarono le conseguenze inevitabili della timidezza nostra ma si dimostrò anche il nerbo delle nostre genti.

    Ciò che fu guardato a vergogna ci doveva insuperbire. Non si perde quando una gente muore come morirono gli uomini di De Cristoforis.

    Ricordiamo il rapporto del capitano Tanturi: ".... Dietro la cresta del monticello superiore vidi l’immensa catastrofe. Tutti giacevano in ordine come fossero allineati.„

    Se l’inettitudine dei governanti procacciava la sventura dell’Italia, i suoi soldati le accrescevan fierezza. Ma altro doveva sopraggiungere. Avemmo nemici di fronte e nemici nell’ombra, questi forse più temibili di quelli perchè il loro giuoco era subdolo e colpivano alle spalle. Ancora non ci sapemmo destreggiare. La nostra impresa si imbattè in un nuovo ostacolo ogni giorno. Mentre per raggiungere il fine necessario sarebbe occorsa la maggiore concordia, il paese era dilaniato dalle fazioni. I soldati partivano fra il silenzio e le grida sediziose; l’anima del popolo non li accompagnava. E si giunse ad Adua. Ma la vergogna non fu nella fatale disfatta, fu nell’atteggiamento che ne seguì. Raumiliati ci imponemmo il silenzio e si lasciò crescere la leggenda della nostra viltà. Di questa si valsero i demagoghi all’interno, gli ipocriti amici e gli aperti avversari all’estero. Nessuno più ci temette e fummo vassalli nelle alleanze, schiavi nelle amicizie. Pareva la compiuta rovina e, per una gente d’altra tempra, forse non vi sarebbe stato riparo; ma nessuno sapeva il cuore delle stirpi italiche.

    Come non si parlò più di Adua e si temette di sentirla menzionare dimenticando tutti gli eroi che anche nel disastro avevano tenuto alto il nome della loro patria, così non si badò all’umile, al paziente, al tenace lavorio del popolo che veniva preparando un’êra nuova. Il settentrione con le industrie, il mezzogiorno con l’emigrazione risollevarono l’Italia. Si compì nel silenzio un’impresa colossale. Le gigantesche colonne furono risollevate a sostenere le nuove arcate; turbe macilente vi si adoprarono notte e giorno; tutti dal primo all’ultimo figlio di questa terra benedetta, dettero un poco del loro sangue; fu un’opera anonima ed insigne; un popolo antichissimo e nuovissimo lavorando e morendo, ricreava il suo Tempio e il suo Nume. L’opera volle le sue vittime, e furono migliaia. Dietro il Tempio fu il campo dei morti. Unico sacerdote, il silenzio. Sempre il Silenzio; ma i popoli sani non cianciano, creano. E dall’operoso mare delle turbe non aggallarono che le scorie; su le spiagge non si videro che i rifiuti, dal raccoglimento taciturno non si levò che lo strido dei nibbî. E chi ascoltò si illuse ancora. Chi ascoltò vide un’Italia dilaniata dalle fazioni, immemore, scettica, spiritualmente impoverita, trattenuta da mille pastoie, incapace di un’azione concorde. La parte migliore del popolo sfuggiva all’analisi. Il sentimento nuovo, serpeggiante per le anime, non si appalesava se non per rade e inascoltate voci. La gente che avrebbe mirato a un apogeo era uscita appena dagli ipogei; ma quando dalla torre millenaria suonò l’ora storica, il rombo fu seguito da un grido inusitato. Il popolo multanime rompeva il suo silenzio, si faceva innanzi, si scagliava alla luce. Il Tempio, se non compiuto, era giunto a’ suoi fastigi. E la lotta incominciò.

    *

    Ora della guerra che segna nel nostro cammino un assurgere dello spirito collettivo e il formarsi di una individualità nazionale io ho raccolto qui qualche aspetto.

    Se l’arte è mancata mi valga il grande amore che mi costrinse all’opera.

    Adoratore di ogni forma di energia, ho cercato di esprimere la potenza energetica degli uomini e dei fatti. Ho osservato ed ho amato, serrandomi entro una severa misura.

    Certo non è qui che un pallido soffio delle ore del magnifico entusiasmo. Queste ebbero il loro Grande che le cantò. Ricordo il commovimento ineffabile che passava, alle trincee, pei crocchi intenti alla lettura di una nuova Canzone. Erano volti di fanciulli e di eroi, cuori incorrotti, anime di fede. Si protendevano ad ascoltare con negli occhi una smarrita letizia. Sentivano la grande voce della Patria attraverso l’anima del suo Poeta. Forse la bellezza di questa compiuta unità di un popolo non si intende tuttavia. Il genio della stirpe accomunò allora il più grande al più umile e non vi fu disarmonia nessuna. Ogni cosa meschina: gli odî, i livori, le basse brutture non furono più, parve non fossero state mai. L’Italia non aveva che il suo destino. Era sorta e camminava.

    Ma è appunto l’antitesi violenta fra l’oggi e l’ieri che non deve farci dimenticare. Vi sono altre tombe lungo la via, sulle quali non è stato mai il fior di un ricordo.

    Rivolgiamoci; qualcuno parlò che non fu inteso. Riapro il libro. È un soldato che narra: Nicola D’Amato. Ascoltiamo:

    "Penso a quel giorno fatale.... Rivedo i miracoli di quei soldati degni di miglior fortuna; rivedo il generale Dabormida, il colonnello Airaghi, il capitano Mottini. Lasciarono sul campo di Adua il loro nome scritto col sangue.

    "Era il momento supremo e gli ultimi sforzi, gli estremi prodigi di valore si compivano dalla brigata, per coronare quella giornata con la vittoria.

    "Dopo un combattimento come quello sostenuto dalla brigata Dabormida, non si poteva perdere: il grido di vittoria, che, già entusiasta, saliva lungo le creste del monte Mariam-Sciavitù, pareva che, insistente, chiedesse nella valle una eco nel grido: Italia! Savoia!... I petti ansavano forte, le palle non si temevano più, quando un fremito ci corse per le vene: la tromba batteva la ritirata!

    E più oltre:

    "Muta, ansante, disperata saliva la colonna dei vinti su per l’altura ed io ero alla coda di essa. Fu su quell’erta che la brigata combattè l’ultima volta, mentre gli eroi ricevevano il battesimo del sangue dall’angelo della morte. Fu quella una battaglia accanita, selvaggia: quattro pezzi di artiglieria vomitavano mitraglia, seminando il campo di morti: quattro pezzi più in su, con tiri precisi, proteggevano dall’assalto i cannoni sottostanti che prendevano frattanto posizione salendo, tratti su a forza di braccia. Più in alto ancora, il fuoco ben nutrito dei fucili si manteneva ordinato come in piazza d’armi. Tutto era un finimondo. La coda della brigata si batteva calma contro i nemici vicini, tanto che potei servirmi della rivoltella ottenendo buon risultato. I neri, impassibili innanzi alla morte, venivano come il destino a strapparci l’ultimo brandello della vittoria.

    ".... Ho ancora presente, con un ricordo lucidissimo, il capitano Mottini, il quale, dopo aver ridotto al silenzio i cannoni abissini, guardava col cannocchiale l’effetto prodotto da’ suoi colpi che sfollavano il nemico. Notavo con meraviglia l’impassibilità di quell’ufficiale.

    Mottini, suonata la ritirata, cessò il fuoco esclamando:

    "— Se perdo la batteria non torno più in Italia!

    "Poco dopo cadde, riverso tra i suoi cannoni.

    ".... Saliva affannosamente per l’erta un tenente con la sua ordinanza. Il soldato era un siciliano. Il tenente, ferito, cercava afferrarsi alla roccia e il soldato lo spingeva, lo strappava, lo contendeva al pericolo; e, mentre l’uno si fermava un istante per acquistare lena e riposare, l’altro caricava il fucile e faceva fuoco. Poi, chinava sul ferito uno sguardo fraterno come per incoraggiarlo. Piangevano! Il tenente, affranto, con la destra sul cuore e l’occhio velato, pregava il soldato perchè si salvasse.

    "— Non voglio! — rispose costui scrollando la testa.

    "— Vattene! — gli ingiunse il superiore.

    "— No, — rispose l’altro risoluto.

    "— Ma.... io non posso andare avanti!

    "— Moriremo insieme; ma uno con me me lo porto!

    "L’ufficiale ristette un momento.

    "— Allora mi siedo, — disse in tono reciso, e sedette.

    "— Siedo anch’io, — ripigliò l’ordinanza, e, calmo, al fianco di lui, imitò l’esempio.

    "Erano rivolti dalla parte d’onde il nemico saliva; restavano tranquilli in mezzo all’imperversare delle palle. Il soldato continuava a far fuoco, ed il tenente, con la sinistra sul capo di lui, come per proteggerlo, abbassava lentamente la testa sul petto. Li vidi l’ultima volta, distesi tutti e due, l’uno a fianco dell’altro, con un sorriso sulle labbra, reso ancora più bello dagli ultimi raggi del sole che li salutava mentre spariva dietro i monti di Axum.

    ".... Ad una svolta della via una scena di orrore si presentò a’ miei occhi. Ferito e sanguinante in tutte e due le gambe era il colonnello Airaghi, e, accanto a lui, un sergente incolume attendeva il supplizio.

    "Il colonnello faceva sforzi sovrumani per impedire lo sfregio; aveva i pugni serrati e si mordeva a sangue le labbra. Invano, che il coltello inesorabilmente tagliava, mentre il volto del martire si torceva in un riso convulso e diabolico.

    "— Coraggio dottore, — mi disse Airaghi, — sono questi gli eventi della guerra!

    "— Cammini, signor colonnello, pensi per lei che è ferito alle gambe, — risposi, e lo salutai militarmente, ciò che mi guadagnò dal mio aguzzino una sciabolata al polso sinistro. Tirai oltre senza

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