Kajin e la tenda sotto la luna. Storie di rifugiati siriani in territorio greco
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Info su questo ebook
Un’esperienza di tale natura meritava di essere raccontata e divulgata, per diventare monito, riflessione, denuncia. Questa la percezione immediata di Tania Paolino, coautrice, questo l’obiettivo del libro, il quale si configura come una miscellanea di vite vere e verosimili. I due autori si sono confrontati e raccontati, perché anche in questo, come in ogni scritto, ci sono immancabilmente spunti autobiografici, insieme hanno guardato e decifrato ogni singola foto o video, raccogliendo il grido di dolore ma anche di speranza di quelle persone, facendosene interpreti e mediatori. Sullo sfondo, sono inseriti la guerra in Siria, il complesso scenario medio orientale, le vicende politiche europee degli ultimi anni. Gli autori si soffermano su questi aspetti, non accessori benché in secondo piano, nel tentativo di fare chiarezza e offrire al lettore un punto di vista differente da quello dato dalla maggioranza dei media occidentali, troppo spesso lontani dalla realtà effettiva, testimoniata da chi da quell’area invece proviene o l’ha semplicemente conosciuta.
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Anteprima del libro
Kajin e la tenda sotto la luna. Storie di rifugiati siriani in territorio greco - Enzo Infantino
Collana
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ENZO INFANTINO - TANIA PAOLINO
Kajin
e la tenda sotto la luna
Storie di rifugiati siriani in territorio greco
Presentazione di Arcangelo Badolati
Prefazione di Gioacchino Criaco
Contenuti speciali
Il ricavato sarà devoluto a progetti di ricostruzione postbellica in Siria
Proprietà letteraria riservata
by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy
Edizione eBook 2018
ISBN: 978-88-6822-664-0
Via Camposano, 41 (ex Via De Rada) - 87100 Cosenza
Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672
Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinieditore.it
E-mail: info@pellegrinieditore.it
I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
A Kajin, a Masum
e a tutti i bambini in fuga dalla guerra,
a chi ha provato a ridare loro
ciò che era stato sottratto.
Presentazione
Gli occhi di un bambino. Nascosti dietro le spesse lenti di occhiali da vista rimediati in un paese in guerra. Un bambino speciale che ha imparato l’inglese, il greco e qualche parola di italiano vivendo nei campi di accoglienza tra i profughi e la disperazione, tra la fame e il freddo, dietro le reti ed il filo spinato. Un bambino senza età, perché la vita gli ha impedito di giocare e divertirsi, di sognare e dondolarsi tra le nuvole, di studiare e avere una classe, dei compagni, una casa, una stanza piena di giochi, un letto caldo e rassicurante.
È il bambino che ha incontrato Enzo in una delle sue missioni umanitarie compiute in giro per l’Europa balcanica e il Medioriente. Un bambino che gli ha cambiato la vita, addolcendone il suo già grande cuore, trasformandone persino il carattere e la mimica.
Enzo, battagliero e irruento, audace culturalmente e fisicamente, negli occhi di quel bambino ha riconosciuto l’altra parte di sé, quella che teneva nascosta ai più (non a me). Una parte che racconta d’un uomo dai sentimenti altissimi, dalla bontà innata, dalla generosità quasi invasiva. Una parte custodita gelosamente, che è diventata, grazie a quel bambino, preponderante, prorompente, travolgente e visibile finalmente agli altri.
Tutti incontreranno un’altra persona: capace di emozionarsi pubblicamente (come mai era accaduto prima) fino a sciogliersi in pianto; di abbracciare, di battersi con ferma dolcezza per le cause giuste; di pronunciare parole di solidale amore come farebbe un missionario; di chiedere sostegno per il prossimo; di raccogliere indumenti, cibo, giocattoli fino a riempire interi camion.
Ecco, il libro che state per leggere, scritto a quattro mani con la straordinaria Tania Paolino, racconta questo del mio più caro amico e svela un mondo, quello dei profughi, che teniamo lontano dalla nostra quotidianità ma che, al contrario, ci è vicinissimo. Uomini, donne, bambini, sopportano stenti d’ogni sorta per colpe non loro mentre noi gozzovigliamo tra le mille comodità d’una esistenza normale
.
Fosse per Enzo porterebbe con sé quanta più gente possibile trasformando la sua casa di Palmi in un luogo di comune felicità. Vorrebbe far sentire ai suoi amici dei campi e della diaspora curdo-siriana i profumi di zagara e di gelsomino che caratterizzano i luoghi che più ama; vorrebbe confonderli in un girotondo allegro e speciale di sapori e di colori. Il sapore dei fichi dolci che crescono ovunque e del melograno che penzola dai rami lungo quel magico percorso che porta al golfo della Marinella. Vorrebbe appanciarli di more selvatiche e pomodori del tempo d’estate. Vorrebbe donar loro la sua terra e il suo mare per nutrirli d’una energia che è nelle cose e nei luoghi e che senti come parte viva di te masticando il finocchio nato tra le pietre e i ruscelli sfidando le ortiche.
Enzo è figlio d’una terra che ha pagato e paga un prezzo altissimo all’emigrazione. Una terra connotata da una cultura forte e superba – quella contadina – che non s’arrende ai disagi ed alle calamità naturali ma lotta con dignitosa coerenza perché le piogge non abbiano la meglio sulle coltivazioni; i torrenti impetuosi sulle costruzioni; le saette ed i venti sugli alberi centenari; le malattie e le disgrazie sugli uomini.
Una cultura che insegna il valore della fatica e del lavoro e lascia sempre spazio alla speranza. Volti rugosi, schiene piegate, mani callose e occhi sempre ardenti come le scintille del braciere che riscaldava alla sera le abitazioni più umili: così era la nostra gente. Così erano i nonni ed i bisnonni di quanti hanno poi preso la strada verso altri luoghi in cerca di fortuna e di successo serbando però sempre nel cuore il talento delle radici.
Quell’antica forza e quella stessa dignità Enzo ha visto negli occhi di quel bambino conosciuto ad Idomeni. E lo stesso coraggio dei nostri padri ha riconosciuto nelle parole e nei gesti della gente partita dalla Siria per cercare una vita lontana dalla guerra. Al loro coraggio ha unito il suo imboccando con spericolato amore la strada della condivisione. Una strada luminosa, ricca solo d’interiorità, che porta lontano e corre parallela alle tante vie sfarzosamente illuminate e fredde delle nostre opulente città.
Una strada condivisa letterariamente con Tania, una donna colta e sensibile, emotivamente romantica e appassionata come lui. Una scrittrice talentuosa capace di esplorare l’animo umano, mostrando pure ciò che non si vede. Un’autrice che svela con garbo e dolcezza un universo di sofferenze piccole e grandi senza mai cedere il passo alla retorica e al banale pietismo.
Enzo e Tania, uniti insomma dall’amore verso il prossimo.
Prefazione
Ad occhi chiusi, risucchi forte con naso e bocca: mirto, cappero, oleandro, gelsomino, eucalipto, liquerizia. Ti entra in petto un universo profumato che non puoi frammentare. A occhi aperti, sgrani l’iride, dilati le pupille: ulivo, leccio, agave, rododendro, lentisco, limone. La mente si lascia invadere da un mondo multicolore indivisibile. E una mano fantasma ti può spostare di chilometri, a migliaia, ed è inutile che annusi e sbirci, puoi stare in una qualunque delle sponde del Mediterraneo senza indovinare il paese. Le divisioni sono state un’invenzione umana; chi lo fece, Dio, Dei, Fato o Caso, il bacino intorno al mare Antico lo costruì come un unico paradiso per darlo in dono a un’unica razza, quella umana. Il male ce lo siamo fatti da noi, e ce lo continuiamo a fare.
E non c’è bisogno di tenerli aperti gli occhi, quando il fuoco puzza stai in mezzo al dolore; se le fiamme danno morsi deboli al gelo dell’inverno, le alimenta la disperazione di ciocchi inventati, legni improbabili: plastica, carta, truciolato, cherosene. Il fuoco dei campi profughi è un falò di fortuna, fatto con quel che capita, che prende calore ai fiati che gli stanno intorno più che darglielo. Serve a segnare un punto per costruirci un cerchio d’umanità in cui nutrire le speranze di ognuno.
E anche se sembra strano, anch’io, occidentale, ci sono nato in un campo profughi, dentro le baracche donate da un paese straniero per dare rifugio agli esuli della montagna. Io, e tanti altri, siamo stati stranieri in casa nostra. E forse continuiamo a esserlo.
A Idomeni si sono rifugiati i nostri, stranieri in casa nostra. Hanno i nostri stessi capelli, uguali gli occhi, stesso l’odore della pelle e stessa figlianza mediterranea. E a Idomeni ci sono andati i nostri a dargli speranza, sì i nostri, i figli delle zagare di Calabria, quelli che respirano ancora e hanno ancora occhi per annusare e vedere l’indivisibilità del nostro mondo. I figli delle zagare per i quali continua a esserci un’unica razza umana.
Ci sono stato col meglio della nostra gente a Idomeni, la loro anima mi ha dato occhi, orecchie e mani. Mi ha fatto versare temporali di lacrime sui lutti che la gente si è portata dietro, ho visto musicisti, medici, calzolai, contadini, uomini, donne, piccoli; un popolo che ha provato a essere normale, che tante volte il male se lo è fatto da solo e molte altre se lo è visto imporre da un Occidente egoista, cinico. Un popolo che paga le logiche dell’affarismo è il popolo che tutti i popoli a giro sono stati. E nessuno le avrebbe superate le proprie sofferenze se a giro, i migliori fra gli uomini non fossero accorsi a portargli la loro umanità. Chi soffre ha bisogno di sentirsi fratelli accanto, molto più che di beni materiali.
Masum, Masum, Masum è il nome che davvero mi ha spezzato il cuore; corrisponde a un maglione a righe di quelli che si usavano negli anni ottanta, a un paio di occhiali con la montatura troppo grande, anche quella di una moda passata, dentro ci dondola un corpo gracile, una voce rauca. Un essere minuscolo, ma acceso da un’anima fiammeggiante che lo fa volare verso una zagara di Calabria, in una corsa sfrenata, un salto e un abbraccio al collo, stretto, bruciante. Masum è un bambino siriano, il dottore lo chiamano, per lui i nostri si sono fatti speranza, e io non riesco a non piangere ogni volta che me lo rivedo in mente. Dentro questa storia ci troverete la sua storia, quella di tanti altri; ci troverete un fuoco grande che vi scalderà il cuore più dei falò di Natale, e li vedrete i fiori calabresi, tirati su ad aria mediterranea.
Gioacchino Criaco
Introduzione
Idomeni non si dimentica più. Non lo faranno le migliaia di profughi né i numerosi volontari internazionali, che nei mesi in cui il campo era aperto hanno provato a manifestare, insieme, il dissenso contro le gravi ingiustizie subite da quei popoli, a portare la solidarietà a chi fuggiva dalla guerra, a provare a colmare l’inefficienza delle risposte europee in tema di accoglienza.
Quando il Mediterraneo divenne poco sicuro e le morti in mare raggiunsero un numero moralmente insostenibile, le vittime delle guerre in Medio Oriente presero la rotta balcanica, attraverso la quale tentavano di arrivare in Europa occidentale. Ma, a un certo punto, anche questa possibilità fu loro preclusa da politiche di esclusione e da misure sorde alle sofferenze e alle richieste dei tanti rifugiati. A migliaia di donne, uomini e bambini non rimase altro che stazionare in territori di confine, come Idomeni o Salonicco, in attesa di una soluzione europea al loro problema.
L’Europa divenne un miraggio e una fortezza. Al profugo, privo della tutela della cittadinanza, fu difficile essere considerato soggetto di diritti e, in quanto tale, persona con una sua dignità. Il binomio pluralità e libertà, retaggio di una tradizione culturale europea secolare, entrò in crisi, e il concetto di giustizia venne sempre più escluso dalla sfera comunitaria per diventare appannaggio dei singoli.
L’azione dei volontari, quindi, si concretizzò proprio là dove falliva quella istituzionale, ma naturalmente fu insufficiente a sanare una situazione che col passare dei mesi si incancreniva. Occorrevano risposte forti, mentre si ottenevano approssimazione, inefficienza e chiusura. L’Europa dei popoli non stava dando una bella immagine di sé; non era quello lo spirito che a Ventotene aveva spinto i suoi Padri a sognarla, memori della triste lezione dei totalitarismi e delle guerre mondiali, e di quella felice dei movimenti di liberazione. Un nuovo Manifesto alle soglie del Terzo millennio, scritto con le parole della xenofobia, del più becero dei nazionalismi, dello sfruttamento, metteva in crisi quanti in quegli antichi ideali si erano riconosciuti e per questo credevano nella giustizia sociale, nella cooperazione e la pace. A Idomeni quel sogno si era infranto ancora una volta, portando nel cuore del vecchio continente passate paure e spaventosi fantasmi.
Ma c’era anche dell’altro ad averci spinto verso quel posto, prima, e convinti a parlarne, dopo, qualcosa che ci sfuggiva, che non combaciava con la nostra visione razionalistica delle cose, una sorta di attrazione di cui non controllavamo le motivazioni e la previsione degli esiti: Calabria e Medio Oriente si erano già incontrati e, in qualche misura, fusi. Volevamo seguirne il tracciato, capire le relazioni tra i popoli del Mediterraneo e quelli più lontani, individuarne i tratti comuni al di là delle mescolanze, motivare le ragioni della chiusura e del rifiuto reciproco successivi.
A Idomeni, a partire da Idomeni questo approccio ci sembrava possibile. Quel campo era davvero un microcosmo, che raffigurava in piccolo le molteplici modalità di rapporti interpersonali, diversi modi di contatto al problema vissuto e condiviso.
Attraverso queste persone e le loro storie, si sono potute rafforzare convinzioni rispetto a quanto si andava consumando da troppi anni in Medio Oriente e, di conseguenza, rispetto alle scelte miopi o complici dell’Europa. Ciò che accadeva realmente in Siria o in Iraq e Afghanistan, infatti, era ben lungi dalla lettura che ne faceva la maggior parte dei media, mentre aveva trovato riscontro nell’informazione libera e imparziale e, soprattutto, nei racconti dei profughi, che provenivano da quegli Stati soggetti da anni al fuoco incrociato.
Quelle persone in fuga a un certo punto erano diventate il fardello che nessuno voleva più, un peso di cui era meglio liberarsi bene e presto, perché rappresentavano la cattiva coscienza di anni e anni di sfruttamento coloniale, di mancato riconoscimento del principio di nazionalità e rispetto delle minoranze, di attacco prepotente a Stati e a governi legittimi, in nome di una presunta e discutibile idea di democrazia. La civile Europa e il suo partner americano erano falliti proprio in quella parte del mondo, che era stata la