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Cercati al mare
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E-book214 pagine3 ore

Cercati al mare

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"Cercati al mare" narra di Emma, una giovane donna che, aiutata da una nuova amica, comincia un viaggio per ritrovarsi. Affronta così il suo passato e si accorge pian piano che tutti i sensi di colpa che si porta dietro da tempo sono frutto della violenza psicologica che subisce da parte dell'uomo che ha sposato. Grazie alla sua nuova confidente, la protagonista si rende conto che l'amore per l'altro è importante quanto l'amore per se stessi, che l'amore non è rinunciare alla propria libertà. Che l'amore non è mai una violenza di cui ci si accorge spesso troppo tardi.
LinguaItaliano
Data di uscita3 nov 2023
ISBN9788832816686
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    Anteprima del libro

    Cercati al mare - Elena Mezzotero

    Introduzione

    Vivo in un paesino della Calabria. Si chiama Corigliano-Rossano. Non è poi così piccolo e in realtà nasce dalla recente fusione di due paesi vicini, appunto Corigliano Calabro e Rossano. Si trova a pochi chilometri dalla Sila ed è costeggiato dal mare. Amo il mare. Ogni volta che posso, vado a fare una passeggiata sulla spiaggia o, semplicemente, mi siedo sulla sabbia e ascolto il rumore delle onde. Il mare ha sempre una storia da raccontare, io lo guardo e ritrovo i miei ricordi, i miei sogni. Mi aiuta a pensare. Il periodo più bello per viverlo è settembre, subito dopo la stagione estiva. I lidi chiudono, le spiagge si svuotano, i turisti vanno via. Restano solo i ricordi di un’estate appena finita e i sogni per l’estate che verrà. Non posso negare che in alcuni momenti mi renda malinconica, ma io so che il mare è sempre vicino e posso andarci ogni volta che ne ho bisogno. Durante le passeggiate di quest’ultimo settembre, ho notato una donna. Sedeva su un piccolo molo, distante dal porto, nella frazione di Fabrizio. È lungo pochi metri e lei stava seduta proprio alla fine, il punto in cui sembra quasi di essere in acqua, con le spalle rivolte alla strada. Si crea una sorta di pace dei sensi. Si resta soli con il mare, distanti da tutto ciò che c’è intorno. Anch’io ci vado spesso. Osservandola, mi resi conto che aveva più o meno la mia età. La vedevo ogni giorno, sempre nello stesso posto. Se il molo era occupato dai pescatori, si spostava sulla spiaggia adiacente. Fissava il mare e stava lì per ore. Ero curiosa. Decisi di avvicinarmi senza apparire inopportuna. Mi sedetti poco distante da lei e cercai di studiarla, di capire. Era una donna semplice, in jeans e scarpe da ginnastica. Stava seduta sulla sabbia, rannicchiata, con le braccia che le raccoglievano le gambe piegate. Il suo mento sembrava essere sostenuto dalle ginocchia mentre guardava dritta avanti a sé. Di tanto in tanto, quando si alzava la brezza marina, chiudeva gli occhi e si lasciava carezzare dal vento. Mi ero resa conto che il suo sguardo rivolto verso il mare, in realtà, non si posava sull’orizzonte. I suoi occhi erano vuoti e quell’abbraccio che si dava da sola, mostrava un senso di solitudine. Diventai sempre più curiosa. Iniziai a frequentare quel pezzo di spiaggia ogni giorno, sperando di incontrarla e lei era sempre lì, nello stesso punto, nella stessa posizione. Cercai di avvicinarmi ogni volta un pochino di più. Lei mi notò. All’inizio mi guardava un istante, poi si girava e continuava a fissare il vuoto. Non sono certa mi vedesse realmente. I suoi occhi erano vuoti, spenti. Pian piano cominciammo a salutarci con un piccolo cenno della testa, poi con la mano, fino a rivolgerci un saluto verbale. Eravamo due esseri sconosciuti, che si scrutavano a distanza, si analizzavano, incuriositi da quel loro spazio in comune, il mare. Diventammo amiche. Ci incontravamo sempre nel nostro posto. Prendemmo fiducia l’una nell’altra.

    Emma è una donna giovane, con un passato alle spalle sicuramente non semplice. Riuscire a parlare con lei di cose importanti è stato difficile. Non l’ho mai forzata a dirmi niente. Non le facevo domande. Lei mi raccontava ciò che pensava in quel momento, mentre ascoltavamo le onde del mare. Provava a nascondere il suo stato d’animo. Mi resi conto, nei giorni a seguire, che preferiva sempre non caricare gli altri dei suoi problemi, della sua sofferenza, ma prova a trasformarla in momenti di divertimento. Tuttavia i suoi occhi castani sono così puri, che parlano al suo posto. Le feci notare questo suo atteggiamento. Lo definì il suo momento di sclero. Usava questo modo di fare per camuffare il suo vero stato d’animo. La pandemia, ma soprattutto l’estate appena trascorsa, l’avevano segnata profondamente. D’un tratto si era sentita impotente, bloccata su una strada sterrata, di quelle con il cartello attenzione caduta massi. Ogni masso era un dolore che aveva accantonato, non aveva affrontato. Un giorno mi disse: «Sai perché resto qui per ore a osservare il mare? Il continuo andirivieni delle onde mi ricorda che, alla fine, quello che ritorna a galla deve essere messo al suo posto per evitare che resti lì per sempre» si era resa conto fosse arrivato il momento di fare un lavoro interiore che l’aiutasse a ripulire la sua strada dai macigni e le permettesse di andare avanti. Le nostre conversazioni divennero sempre più intime e personali. Aveva tanto da dire. Mi colpì una sua frase: «Non voglio assolutamente dimenticare ciò che è stato, voglio ricordare tutto, gioie e dolori della mia vita, anche se cercare di ricordare tutto mi logora. Devo trovare un modo per rammentare e mettere al sicuro i miei ricordi, senza aver paura di perderne qualcuno. Io voglio vivere ogni momento, ogni profumo, ogni immagine, ogni rumore che mi circonda e trovare il modo di ascoltarli senza dover per forza associarli al passato. Vorrei che il passato restasse tale e possa ritornare nei miei pensieri solo se ne ho davvero voglia». Quel giorno capii di poterla aiutare. Sentivo la sua forte solitudine, il senso di vuoto, si vedeva nella profondità dei suoi occhi, da quel sorriso appena accennato e da quel suo stringersi forte lo stomaco per tamponare una ferita invisibile. «Perché non proviamo a scriverli i tuoi ricordi? Affrontali in modo definitivo, cosicché dopo non avrai più bisogno di ricordarli per forza. Saranno al sicuro e tu potrai riprenderli quando ne sentirai la necessità o lasciarli lì per sempre».

    Ci pensò su qualche giorno.

    Quella mattina mi aspettava in piedi, guardava verso la strada, mi cercava. Appena la raggiunsi mi disse: «Ho pensato alle tue parole e voglio farlo, voglio scrivere la mia storia, ma tu devi aiutarmi». Così ci incontrammo una prima volta, poi una seconda ed è continuata così, per qualche mese. Non è stato un racconto scorrevole, dall’inizio alla fine, ma è dipeso sempre dall’umore e soprattutto dallo stato d’animo di ogni giorno. Emma mi raccontò la sua storia spesso in terza persona, come se volesse estraniarsi da quello che diceva. Ho voluto mantenere il racconto tale.

    Tante volte abbiamo abbandonato il racconto e in altre occasioni siamo rimaste sveglie tutta la notte. Spesso abbiamo mollato e ci siamo dedicate a ciò che ci piace di più: il mare.

    1.

    Emma mi raccontò subito di un giorno speciale. Anche se era il mese di dicembre, il sole era alto, la temperatura gradevole e tutti erano puntuali. Emma era molto emozionata, sin da bambina aveva aspettato questo momento. Probabilmente quasi ogni donna immagina e sogna la prova dell’abito da sposa. «Appuntamento alle ore undici, mi raccomando, puntuali» disse Emma alle amiche di tutta la vita, Benedetta e Cristina, perché, come da tradizione – e lei tiene particolarmente alle tradizioni –, non possono mancare le persone più importanti alla scelta dell’abito da sposa: mamma, nonna, cognata, suocera e la mamma di Bene e Cri, che per lei è come una seconda madre. Emma cerca sempre di rendere partecipi della sua vita le persone che ama, persino nelle piccolezze, ascolta i loro consigli, anche se, alla fine, fa di testa sua.

    Finalmente entrarono nell’atelier dei suoi sogni. Furono ricevute da una bellissima commessa alta con i capelli lunghi e ricci, una meravigliosa pantera in abito nero, molto elegante, le salutò con un sorriso e le fece accomodare alla loro destra. Tutto ben preparato. I muri erano nascosti da abiti appesi, lunghi, vaporosi, stretti, s’intravedevano paillettes, perline, strass. Davanti a loro si presentarono dei divanetti bianchi, posizionati in semicerchio, pronti per lo spettacolo che a breve sarebbe iniziato. Tutte furono invitate a sedersi ed Emma rimase in piedi di fronte a loro. C’era un piccolo palco di forma rotonda e una tendina, tutto rigorosamente bianco. La commessa, Valeria, che Emma conosceva da anni – andavano in palestra insieme –, si posizionò alla sua destra e, rivolgendosi alla platea fece un breve discorso: «Questo è sempre un momento emozionante per tutti, vi chiedo di non fare foto, in primis perché sono collezioni con pezzi unici, e poi perché la sposa tenderebbe a guardare e far vedere la foto e così facendo perderebbe l’effetto meraviglia durante le prove successive». Poi si rivolse verso la sposa: «Emma, fra poco ti farò vedere degli abiti, mi dirai se ti piacciono, se vorresti qualcosa di diverso e insieme arriveremo alla scelta giusta. Sei alta e hai una figura snella, questo vuol dire che quasi tutti gli stili ti staranno bene. Hai già un’idea di cosa ti piace e cosa no?». Emma aveva il cuore in gola, ma le idee chiare sull’abito dei suoi sogni: «So di essere alta, ma ho i fianchi larghi, un fisico a pera, per questo motivo non voglio un abito stretto che vada ad accentuare questo difetto. Non mi piacciono neanche gli abiti troppo ampi, non voglio sembrare una principessa, non voglio un matrimonio fiabesco. M’immagino in un abito morbido con la schiena scoperta». Valeria annuì, si vedeva dal suo sguardo sicuro che sapesse già cosa fare. «Bene, allora comincio a farti vedere qualcosa». Le due commesse iniziarono a prendere gli abiti appesi. «So che non vuoi un abito ampio, ma questo provalo, perché non sai poi che effetto ti fa vedendolo indossato». Nello stesso tempo la famiglia riunita dava pareri dai divani: «Questo sì, questo no, questo lo devi provare…».

    «Bene, cominciamo da questi» annunciò Valeria, finalmente iniziava la vera prova dell’abito. Fece cenno a Emma di salire sul palchetto, poi chiuse la tendina e l’aiutò a indossare il primo abito. Si vedeva e sentiva quanto amasse il suo lavoro, era emozionata anche lei, non solo perché con Emma si conoscevano già, ma nei suoi occhi si vedeva la passione di chi vuole far realizzare i sogni. Vestito indossato, le infilò un paio di décolleté bianche ai piedi e le passò un finto bouquet di fiori: «Pronta?» e, mentre la guardava entusiasta, aprì la tendina. Emma guardò negli occhi ogni donna seduta di fronte a lei, voleva vivere fino in fondo quell’emozione e ricordarla per sempre. Erano tutte emozionate, Bene e Susy, sua cognata, naturalmente iniziarono a piangere. Loro son fatte così, lacrime per ogni cosa. Cristina ed Emma stessa, cominciarono a prenderle in giro, perché è nelle loro corde sdrammatizzare un po’ le situazioni. La mamma e la nonna, donne fiere, avevano l’occhio lucido, ma cercavano di restare impassibili dando dei pareri: «Questo è bello, ma non credo sia quello giusto». Tutte diedero ragione alla madre e anche Emma confermò di non sentirsi a suo agio in quell’abito. La prova continuò. Un abito la colpì particolarmente, era semi-ampio, manica a giro piatta, con la scollatura a V che terminava a metà dei seni e dietro la stessa apertura finiva poco sopra il sedere. Era completamente tempestato di strass verticali, che lo rendevano color ghiaccio, sul corpetto molto vicini, più distanti sulla gonna fino a sparire. «Wow… wow… ma quanto costa?» chiese Emma sottovoce a Valeria mentre l’aiutava a indossarlo. «Tremila euro, ma non pensare al prezzo ora». Già le piaceva meno. Troppo costoso, rifletté e lei non voleva far spendere tanti soldi per un abito.

    Nel suo paese la tradizione vuole che l’abito della sposa sia regalato dalla famiglia dello sposo. Sicuramente era una spesa destinata al giorno più importante, ma poi sarebbe stato riposto in un armadio senza più speranza di rivedere la luce.

    La tenda si aprì, tutte restarono a bocca aperta. Era davvero bello, ma era tanto: la faceva sentire troppo principessa e lei non voleva questo. Non sono una ragazza romantica in cerca della favola, pensava fra sé e sé, ma non poteva negare che quell’abito fosse oggettivamente meraviglioso. Tutte restarono incantate, Susy annuiva in modo euforico, Emma fece segno con la mano per far notare il prezzo dell’abito, tutte si calmarono, mentre lei rideva osservando le loro facce. La prova finì quando Emma, guardandosi allo specchio, ancor prima di farsi vedere, disse semplicemente: «Eccolo». Era stato creato per lei, schiena scoperta, corpetto ricamato, manica corta e gonna semplicissima che scendeva morbida lungo il corpo. La faceva sembrare più alta. Valeria prese una mantiglia che richiamava il pizzo del vestito e gliela pose sulla testa. Era meraviglioso. Capì da come la guardavano in viso che era quello giusto. Non era più la ricerca dell’abito giusto, ma come l’abito l’avesse trovata e all’unisono le presenti confermavano. Tutte uscirono dall’atelier tranne Susy e la suocera, erano le portavoce della famiglia dello sposo ed erano rimaste all’interno per sapere i prezzi di capo e accessori. In Calabria le tradizioni sono rispettate e la suocera di Emma ci teneva molto. Quando ne parlò con Edoardo, il futuro marito, si rese conto che anche quell’abito era costoso, lui le ricordò di quante spese avevano ancora da affrontare per la casa. La suocera insistette tanto nel non rinunciare all’abito dei suoi sogni: «Ci si sposa una sola volta nella vita, non pensare alle altre spese, i soldi per l’abito ci sono». Emma alla fine decise di optare per un abito di sartoria, che le avrebbe permesso di averne uno simile a quello, ma meno costoso.

    Più di una volta Emma sottolineò, durante il racconto, quanto quell’abito l’avesse fatta sentire speciale e di quanto ci fosse rimasta male per la reazione del suo futuro marito. «Intanto aveva ragione, le spese per la casa c’erano e alla fine con i soldi risparmiati eravamo riusciti a fare altri acquisti utili» come a giustificarsi per aver rinunciato a quel sogno per una giusta causa in cui probabilmente non credeva più. Come se quel dolce che aveva assaggiato, in realtà, le avesse lasciato l’amaro in bocca.

    2.

    Il matrimonio era una boccata d’aria fresca dopo mesi veramente difficili. L’anno prima del matrimonio voleva dimenticarlo Emma. I suoi genitori avevano passato tutto l’anno a Genova per i gravi problemi di salute di suo padre. Aspettava un cuore nuovo. Fu tutto un susseguirsi di eventi e umori altalenanti. Con Edoardo ci furono forti discussioni. Emma dovette operarsi per un nodulo al collo e sua madre era riuscita a scendere solo per qualche giorno. Per fortuna era un intervento leggero e la ripresa fu veloce. In mezzo a tanto marasma, Emma era riuscita anche a terminare la stesura della tesi di laurea e a giugno era riuscita a laurearsi. Fu una giornata particolare. I suoi genitori, complici con suo fratello, avevano organizzato una piccola festa a sorpresa con le persone a loro più vicine. Sua madre ci teneva in modo particolare, perché il padre di Emma continuava a peggiorare e voleva fargli trascorrere momenti felici insieme. Ci riuscì perché fu una serata speciale. Emma quel giorno aveva raggiunto un traguardo notevole, costato tanta fatica e la cena con le persone più importanti aveva dato uno spiraglio di serenità. Sua madre aveva scelto quella sala ricevimenti, perché piaceva tanto a Emma e, poiché lei ama tanto i dolci, le era stato preparato un enorme buffet di pasticcini a bordo piscina. Proprio lì Emma assaporò ogni attimo insieme alla sua famiglia, sapeva che dopo quella sera si sarebbe dovuta preparare a tutto.

    Qualche settimana dopo il nonno paterno si sentì male. Fu ricoverato in ospedale per un infarto. Andavano a trovarlo ogni giorno, la sua situazione fisica era delicata. Una sera, intorno alle sette di quel caldo luglio, Emma e i suoi genitori erano in macchina, tornavano dalla visita al nonno, quando il telefono del padre squillò. «Signor Giovanni, la chiamo dall’ospedale. Abbiamo un cuore compatibile». L’infermiera gli raccomandò di stare calmo, gli fece qualche domanda per organizzare il trasporto dalla Calabria a Genova e gli indicò cosa mangiare prima di partire: «Signor Giovanni, la richiamerò dopo per comunicarle tutte le informazioni per la partenza». Tornarono a casa, Emma era diventata parte integrante dell’arredo, cercava di mantenere la calma e non essere d’intralcio. La mamma andò subito a preparare una valigia con le prime cose che le capitarono in mano. Era scettica. Era la terza volta che erano stati contattati. Le prime due volte che suo marito era stato chiamato per il trapianto erano già in ospedale e non andarono a buon fine. Semplicemente non voleva illudersi che questa fosse la volta buona. Il telefono squillò di nuovo. «Signor Giovanni, a breve verrà a prenderla un’ambulanza che la porterà a Lamezia da dove partirà con un aereo militare e atterrerà direttamente qui. I militari hanno bisogno di un certificato che attesti che lei non soffre di malattie virali e che può tranquillamente viaggiare». Emma si stava agitando, ma non voleva darlo a vedere, anche perché vedeva sua madre calma e non desiderava farla

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