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Un imprevisto chiamato amore
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E-book334 pagine4 ore

Un imprevisto chiamato amore

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Numero 1 in classifica in Italia

Il nuovo emozionante bestseller dall’autrice di Ti prego lasciati odiare

Jordan ha collezionato una serie di esperienze disastrose con gli uomini. Consapevole di avere una sola caratteristica positiva dalla sua parte, ovvero una bellezza appariscente e indiscutibile, è arrivata a New York intenzionata a darsi da fare per realizzare il suo geniale piano. Il primo vero progetto della sua vita, finora disorganizzata: sposare un medico di successo. Jordan ha studiato la questione in tutte le sue possibili sfaccettature e, preoccupata per le spese da sostenere per la madre malata, si è convinta di poter essere la perfetta terza moglie di un primario benestante piuttosto avanti con gli anni. Ma nel suo piano perfetto non era previsto di svenire, il primo giorno di lavoro nella caffetteria di fronte all’ospedale, ai piedi del dottor Rory Pittman. Ancora specializzando, per niente ricco, molto esigente e tutt’altro che adatto per raggiungere il suo obiettivo...

Un’autrice da mezzo milione di copie
Vincitrice del Premio Bancarella
Numero 1 in classifica

Jordan è arrivata a New York con l’obiettivo di sposare un medico benestante, poi ha incontrato un “imprevisto” di nome Rory sulla sua strada…

«Anna Premoli è capace di tuffare il genere del rosa nazionale in suggestioni internazionali e ben piantate nello spirito del nostro tempo.» 
la Repubblica

«Anna Premoli è uno spot vivente del self-publishing: dal web al Premio Bancarella con il suo romanzo d’esordio.»
Vanity Fair

«Il primo vero caso italiano di self-publishing fortunato.»
La Stampa
Anna Premoli
È nata nel 1980 in Croazia e vive a Milano, dove si è laureata alla Bocconi. Ha lavorato alla J.P. Morgan nell’Asset Management e per un lungo periodo in ambito Private Banking per una banca privata, prima di accettare una nuova sfida nel campo degli investimenti finanziari per una holding di partecipazioni. La scrittura è arrivata per caso, come “metodo antistress” durante la prima gravidanza. Ti prego lasciati odiare è stato il libro fenomeno del 2013: è stato per mesi ai primi posti nella classifica, i diritti cinematografici sono stati opzionati dalla Colorado Film e ha vinto il Premio Bancarella. I suoi romanzi sono tradotti in diversi Paesi. Con la Newton Compton ha pubblicato anche Come inciampare nel principe azzurro, Finché amore non ci separi, Tutti i difetti che amo di te, Un giorno perfetto per innamorarsi, L’amore non è mai una cosa semplice, È solo una storia d’amore, L’importanza di chiamarti amore e Un imprevisto chiamato amore.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2017
ISBN9788822706690
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    Anteprima del libro

    Un imprevisto chiamato amore - Anna Premoli

    Capitolo 1

    Qualche volta è bello essere presa per una balorda.

    Jordan

    Era se non altro comico che il dramma fosse dietro l’angolo, quando finalmente, e dico finalmente, avevo un piano.

    E per la prima volta nella mia vita, perché, in quanto a pianificazione, nessuno nella mia famiglia pareva eccellere particolarmente. Discendo infatti da generazioni e generazioni di gente che si è sempre barcamenata come meglio – o forse sarebbe il caso di dire peggio – poteva, a tal punto che ero piuttosto stupita di essere anche solo riuscita a congegnare un progetto così ben definito. Io. Il fallimento fatto persona.

    Prendiamo per esempio la caffetteria: la scelta era stata tutt’altro che casuale. Sì, cercavano una cameriera e sì, io di fatto ero solo capace di fare la cameriera, ma New York è piena di posti dove farsi assumere, se si è vagamente carine. E io non soltanto lo sono, ma in modo piuttosto spudorato.

    Perché non fingo maggiore modestia? Perché la bellezza esteriore è davvero l’unica cosa che possiedo e l’unica su cui ho potuto fare affidamento nella mia vita.

    Come mi ha ripetuto mia madre nei primi anni della sua malattia – quelli che all’epoca consideravo terribili, ma invece erano l’ultima boccata d’ossigeno dal momento che, se non altro, ancora riusciva a riconoscermi – la bellezza è una qualità destinata a svanire da un momento all’altro. Un attimo prima sei la donna più corteggiata e venerata dagli uomini e quello dopo solo una invecchiata male e presto. Pare, infatti, che la cronica mancanza di soldi prima o poi finisca con il segnare anche i lineamenti facciali. E no, non è la penuria di creme costose a base di collagene transgenico, ma le notti trascorse a rigirasi nel letto senza possibilità di chiudere occhio, corrucciando il volto per la preoccupazione. Mia madre, ex reginetta di bellezza e collezionista di corone senza arte né parte, lo sapeva meglio di chiunque altro perché c’era passata. E se mi ha insegnato qualcosa, è che gli uomini si interessano a te solo finché sei giovane e sorridente. Poi conta altro. Altro che nessuno, nella mia famiglia, ha mai avuto.

    Per esempio cervello.

    Oppure soldi.

    Ma sospetto che tra i due ci sia un legame molto stretto e che non sia un caso se nella nostra famiglia non si sia mai visto né l’uno né l’altro.

    Quindi, tornando al mio geniale piano, mi ero appena fatta assumere nella caffetteria di fronte al Presbyterian Weill Cornell Medical Center, luogo di pellegrinaggio di medici di ogni forma, colore e grado, tra un devastante turno e l’altro. Ospedali simili possiedono sempre una caffetteria interna, ma i medici, costretti a trascorrervi già buona parte della loro vita, sentono la necessità di tanto in tanto di fuggire dalle solite quattro mura. Non che vadano lontano, ovvio. Si accontentano di uscire e attraversare la strada. Per loro l’emergenza, si sa, è sempre dietro l’angolo.

    Avevo svolto con sorprendente attenzione la mia ricerca e quindi sapevo che al Presbyterian, uno degli ospedali più grandi del Paese, finivano dottori brillanti usciti per lo più dalla Columbia o dalla Weill Cornell. Per la legge dei grandi numeri, prima o poi ero destinata a incontrare un chirurgo sulla cinquantina o anche sessantina, che fosse alla ricerca di una seconda, terza o quarta moglie, no?

    La parola magica è moglie, perché nella mia vita ho rivestito il ruolo di soggetto non meglio identificato, ragazza, fidanzata e amante di uomini con più o meno capacità. Meno che più, se vogliamo proprio essere sinceri. Ed ero stufa marcia. Marcia come la mela di Biancaneve, con cui per mia sfortuna non condivido alcun tipo di somiglianza: di principi azzurri, sempre che esistano, dalle mie parti se ne sono visti ben pochi.

    Prima o poi la bellezza sarebbe svanita e per allora era fondamentale che io fossi diventata a tutti gli effetti la signora moglie di un uomo molto ricco e rispettato. Anzi, di un medico molto ricco e rispettato.

    Ovviamente avevo preso in considerazione altre professioni, ma nessuna corrispondeva meglio ai miei bisogni di quella medica: i gestori di hedge fund o private equity sono gente completamente fuori controllo, esaltati di adrenalina, bastardi senza scrupoli e con infinite donne ai propri piedi; gli avvocati sono quasi peggio, con la loro capacità di spogliarti di ogni singolo avere in caso di divorzio. Ma i medici… Diciamo che i medici devono possedere o almeno aver posseduto qualche istinto benevolo verso il prossimo nel momento in cui hanno optato per una simile carriera. E poi, detto con grande franchezza, è gente che ha cose ben più importanti da fare che badare alla propria moglie…

    Insomma, professione perfetta. Offro una bellezza accecante e in cambio chiedo solo un po’ di quella sicurezza emotiva che non ho mai avuto. E soldi, perché non si vive di sola aria, nonostante mia madre abbia passato anni a illudersi che fosse possibile. Salvo fallire miseramente.

    Ecco perché, forte della mia meticolosa e insperata programmazione, ero del tutto impreparata al dramma. La vita non si dovrebbe accanire contro chi sguazza già nella melma, no?

    Avevo da poco iniziato il turno delle sei, alzandomi alle quattro e mezzo del mattino, perché il posto che costa di meno è un buco di motel maleodorante e dall’igiene molto, molto discutibile a Coney Island, e raggiungere Manhattan aveva richiesto il suo tempo, quando, letteralmente al secondo caffè servito, ho sentito una fitta di dolore ai limiti del sovrumano sul fianco destro. Mi sono accasciata, praticamente priva di sensi, sul pavimento del locale. L’unica, magra, consolazione era la caraffa di caffè bollente: ho avuto abbastanza presenza di spirito da appoggiarla sul bancone prima di stramazzare peggio di un sacco di patate.

    Quindi eccomi qui, presumo a un passo dal tirare le cuoia, se non già andata. Io, che praticamente non mi sono mai ammalata in vita mia, e proprio ora che avevo un piano degno di questo nome. Voglio dire, devo essere morta per forza e gli angeli devono aver avuto compassione di me perché la testa scura e riccioluta che mi pare di intravedere è così ben proporzionata e così attraente da essere quella di un angelo. Nessun’altra spiegazione possibile. Aveva ragione la nonna, dopotutto, quando blaterava di un mondo ultraterreno…

    «Dove sente dolore?», mi sta chiedendo l’angelo con aria seria. Persino con il volto preoccupato, incarna quella che io definirei una bellezza celestiale.

    Ah, già, il dolore assurdo. Possibile che si senta così tanto male anche in paradiso? «Fianco… destro…», riesco in qualche modo a biascicare a fatica.

    L’angelo mi solleva la camicetta di nylon della mia orrenda divisa marrone – a proposito, se rinasco, devo scambiare due paroline con il proprietario – e inizia a tastarmi con mani esperte il fianco agonizzante. Il dolore, che già prima mi pareva insopportabile, aumenta a dismisura e questa volta non posso fare a meno di urlare. Sinceramente, pensavo che la morte fosse più sopportabile.

    L’angelo torna a sovrastarmi, avvicinandosi a pochi centimetri dal mio volto: ha due occhi così blu, ma così blu, che davvero non posso non notarli.

    Nonostante sia morta.

    Nonostante le mie condizioni non siano proprio ideali. Ma a quelle sono abituata: ho praticato per tutta la vita l’arte dell’arrangiarsi.

    «Ce l’ha un’assicurazione sanitaria degna di questo nome?», mi chiede con espressione allarmata il proprietario degli occhi più blu del paradiso.

    Scoppierei a ridere, se solo ne fossi capace. Mai avuta un’assicurazione sanitaria degna di questo nome in vita mia. Mai nemmeno avuto bisogno di una, a dire il vero. A ventisei anni non ci si aspetta che uno caschi morto il primo giorno di lavoro, no? E, giuro, avevo tutta l’intenzione di rimediare alla mia precaria situazione con il matrimonio, perché non sai mai quando l’Alzheimer precoce può colpire. Il problema è che quando uno ce l’ha, i soldi paiono non bastare mai. Medicare e Medicaid coprono solo una minima fetta delle spese mediche, e solo dopo che ti hanno effettivamente diagnosticato la malattia. Prima ci si trascina, si spera, si prega anche se non si è religiosi.

    Con mia madre relativamente giovane eppure malata, io sono del tutto passata in secondo piano. Anche perché, a quel punto, fossi anche stata capace di trovare in qualche modo i soldi per la sua assicurazione aggiuntiva, l’elenco di quelli disposti ad assicurarla davvero era piuttosto esiguo.

    Facciamo pure zero.

    Sì, sì, negli ultimi anni la legge impedisce alle assicurazioni di negarti la copertura nei casi di malattie diagnosticate prima, ma un conto è la legge e ben altro i fatti. Le assicurazioni – tema su cui sono piuttosto prevenuta, lo confesso – sono bravissime a inserire postille che tu pensi non siano importanti. E invece sono sempre fregature. Pure belle costose.

    E pensare che ho supplicato, che ho sopportato e che sono persino finita a letto con un dirigente di una delle principali compagnie assicurative del Paese. Esperienza da brivido, a proposito.

    Ma no, mia madre non si è mai vista recapitare un preventivo abbordabile perché, cito testualmente, «sarebbe una spesa folle e una scopata, per quanto un’ottima scopata, non vale quel tipo di soldi».

    Ecco, una no, ma infinite speravo proprio di sì. Con un anello luccicante al dito. O anche non luccicante: per quel che mi riguarda avrebbe potuto benissimo essere d’ottone, purché il marito in questione fosse stato un medico molto ricco e importante, avesse abbastanza agganci da sistemare una suocera fuori di testa in qualche struttura di livello e potesse garantirle assistenza sanitaria di prim’ordine. Dopotutto, sono mercenaria, ma con una morale.

    E poi ogni tanto li leggo persino io i giornali, perciò mi ero resa conto benissimo che con il cambio di amministrazione prima o poi sarebbe arrivata una nuova mazzata al sistema sanitario pubblico. E per allora volevo essere bella e sistemata.

    «Signorina, ce l’ha un’assicurazione sanitaria?», mi ripete l’angelo.

    Formalmente? Sì, come tanti altri poveri disgraziati.

    Nella pratica? È probabile che si degnerebbero di coprire una minima parte del costo del mio funerale. O magari mi farebbero cremare, giusto per tagliare le spese. In questo Paese la sanità è pur sempre business, no?

    Io ci provo ad aprire la bocca e rispondergli, ma l’operazione mi costa così tanta fatica che quando finalmente riesco a separare le labbra, mi manca del tutto la forza per emettere anche solo un suono.

    Il secondo dopo è tutto nero. E tutto sommato è molto meglio così.

    «Ehi? È tra noi?», mi chiede sempre la stessa voce.

    Il dolore è scomparso ma il buio permane, forse perché le mie palpebre pesano una tonnellata e aprirle comporterebbe una grande fatica. Uno passa la vita ad alzare e abbassare le palpebre senza nemmeno accorgersene e poi, d’improvviso, tutto cambia e anche l’operazione più banale al mondo ti sembra insormontabile.

    «Signorina Walsh? Mi sente?», insiste.

    Sospiro seccata: è ufficiale, non si può nemmeno morire in pace, di questi tempi.

    «Jordan? Dovrebbe essere sveglia a quest’ora. Potrebbe farmi un cenno, invece di stringere gli occhi?».

    Questa volta la voce è quasi divertita ed è davvero intrigante, per essere quella di un angelo. A meno che non sia finita all’inferno, cosa che avrebbe anche un senso. Io ho sempre cercato di vivere in modo corretto, ma qualche volta ho dovuto tapparmi il naso. Cause di forza maggiore, sia chiaro. La rettitudine è per gente che ha il pane in tavola.

    Facendomi forza, sollevo prima una palpebra e poi l’altra e rimango a fissare una di quelle classiche lampade da ospedale, che in questo momento è doppia, anzi tripla. Ma che diavolo mi hanno dato?

    Il viso angelico torna sopra di me e sorride. Vedo triplo anche lui, non che sia davvero un problema: è talmente bello che tre visi simili non possono che essere un bene.

    «Sono morta?», chiedo con un filo di voce.

    «Cosa? No!», esclama stupito. «Voglio dire, ci è andata molto vicina, ma io ho una regola», ci tiene a informarmi. Buon per lui. Le regole, che a me sono sempre mancate, mi affascinano più di quanto la gente normale possa comprendere. «Nessuno muore sul mio tavolo operatorio prima delle dieci del mattino. Mi rende di cattivo umore», conclude a effetto. Credo stia cercando di essere spiritoso. O almeno lo spero.

    Ora che la mia vista sta tornando normale e il volto che sto fissando è solo uno, inizio a capirci qualcosa di più: un medico. Non è un angelo, quindi, bensì un dottore. Mai visto un dottore così bello o così giovane. Che sia un prodotto della mia immaginazione?

    «Lei è un dottore, vero?», gli chiedo per scrupolo, non appena mi riprendo.

    Ancora un sorriso da parte sua. Potrebbe produrre elettricità con quel sorriso. «Così dicono…», risponde ironico.

    «Chi lo dice?», incalzo diffidente.

    «Quelli che mi hanno rilasciato il diploma di laurea».

    «Mai visto un medico così bello», replico con una strana ostinazione e un tono vagamente accusatorio. Non che io abbia una grande esperienza con la categoria, a eccezione di quelli frequentati negli ultimi anni a causa di mia madre, ma una cosa è certa: nessuno di loro era attraente. Nemmeno per sbaglio.

    Ai piedi del letto, un’infermiera che mi ha da poco cambiato la flebo, scoppia a ridere. «In effetti l’ho pensato anch’io, dottor Pittman, la prima volta che l’ho incontrata», mi dà ragione.

    Ecco, grazie, mi fa piacere scoprire di non essere l’unica sospettosa.

    I miei occhi scorrono sul camice dell’uomo, che continua a ridere. Sulla sua targhetta è inciso Dr. R. Pittman. Pur con la mente ancora un po’ annebbiata, riesco a elaborare l’informazione e a decidere in pochissimo tempo che il dottor Pittman è decisamente troppo giovane e bello per il mio piano.

    Quindi, scartato.

    Ci ho messo tre secondi secchi. Sono brava a eliminare la gente, a quanto pare.

    «Per sua fortuna, signorina Walsh, la bellezza non è d’impaccio quando si opera. E, prima che vada avanti, la devo avvertire che le abbiamo somministrato degli antidolorifici: è sotto morfina e potrebbe dire cose… sconvenienti. Ma non si preoccupi, io sono il suo medico e mi porterò i suoi segreti nella tomba».

    Lo osservo vagamente terrorizzata.

    «Sì, ha ragione. Tomba è stata una parola infelice, viste le circostanze… Involontario umorismo da medico», si giustifica. Poi passa a osservare il monitor e inizia a scrivere qualcosa sulla cartella che tiene in mano.

    La mia solita fortuna: svenire ai piedi dell’essere umano – per di più medico – esteticamente più appariscente del Paese.

    Lo so bene che le circostanze non sono esattamente ideali, ma sorrido mio malgrado pensando all’aggettivo che ha usato. Sconvenienti. Lui non può saperlo perché per sua fortuna non mi conosce, ma si dà il caso che io abbia detto cose ben più imbarazzanti nella mia vita. Chiaramente anche senza essere drogata.

    «Cosa mi è successo?», mi ricordo finalmente di chiedergli. Sospetto che l’aspetto fisico del dottore al mio fianco mi abbia rimbambito più della morfina che pare mi abbiano somministrato.

    «Attacco acuto di appendicite. Anzi, ormai era peritonite», mi spiega come se questo chiarisse in qualche modo la questione. Lo fisso dubbiosa. «Nel caso non fossimo intervenuti d’urgenza, avrebbe corso un bel rischio», è costretto a specificare, richiudendo per un attimo la cartellina. «Il suo intestino crasso era così malconcio che sospetto sia stata male per giorni e giorni. Possibile che non si sia accorta di niente, prima di accasciarsi ai miei piedi in caffetteria?».

    Ora che mi ci fa pensare, avevo avuto dei dolori. Qualche linea di febbre. Ma ero appena arrivata a New York, avevo un piano e nessuna assicurazione sanitaria seria. In tutta sincerità, non ho nemmeno fatto caso al mio malessere di questi giorni. È così, quando si è poveri. Quello che non uccide fortifica.

    Certo, a meno che non ti uccida sul serio…

    «Uhm, no. Non mi sono accorta di niente», mugugno imbarazzata.

    L’uomo sospira, insicuro su come continuare. «Che tipo di assicurazione sanitaria possiede, signorina Walsh? L’amministrazione lo vorrà sapere, prima di dimetterla domani».

    Ed ecco che il triste momento è arrivato… «Ecco, molto basilare», mi sforzo di pronunciare con apparente calma. «Una di quelle sciocche cose a basso costo che non coprono niente».

    «In che senso, niente?». Il dottore si è incupito, segno che la situazione è grave. Se fossi leggermente più padrona della situazione, la butterei a ridere e gli farei presente che per quelli come me la situazione è sempre grave. Nessun bisogno di preoccuparsi per cose che tanto non si possono risolvere.

    «Credo di ricordare che coprano in parte solo quelli che loro considerano essere i grandi interventi. Maledizione, invece di un’appendicite non poteva venirmi un attacco di cuore? O magari un ictus? Ecco, l’ictus dovrebbe essere coperto». Il dramma è che sto scherzando solo in parte.

    Il dottor Pittman mi scruta a disagio. La mia ilarità non l’ha affatto contagiato. «Dannazione…», mormora e si passa la mano tra quei suoi boccoli neri.

    La bellezza è una delle poche cose di cui mi intendo e questo dottore è senza ombra di dubbio uno degli esseri umani più belli su cui io abbia mai posato gli occhi. Avrebbe potuto fare il modello, o l’attore, o chissà cos’altro, e invece è un dottore. Salva la gente. Persino quella senza valore come me. Si tratta di una scelta che mi incuriosisce. Nel mio mondo, le persone tendono a sfruttare al massimo le carte immediatamente a loro disposizione. La bellezza esteriore è appunto una di quelle.

    Sei attraente? Usalo.

    L’intelligenza, anche la più acuta, richiede comunque impegno.

    Tempo.

    Fatica.

    Diventare un medico comporta anni e anni di università prima e di specializzazione dopo. E per quanto il dottor Pittman trasudi sicurezza e competenza, è semplicemente troppo giovane: sono infatti pronta a scommettere che è ancora uno specializzando o uno che ha finito da poco.

    Le università costano, le carriere da modello no. Io non ci avrei pensato due volte a sfilare, se non fosse che sono piuttosto bassa per l’ambiente – solo un metro e sessantacinque – e che a quelle come me viene offerta solo la possibilità di fare fotografie.

    In biancheria.

    O senza.

    Cosa che ho fatto quando ero più giovane, perché erano soldi facili che sono serviti a pagare le bollette per un po’. Ma ora è arrivato il momento di fare il grande salto e risolvere la questione una volta per tutte. Anche perché un conto era sopravvivere quando dovevo badare solo a me stessa, e ben altro occuparsi di mia madre.

    «Non si deve preoccupare…», cerco di rasserenarlo.

    I suoi occhi intensamente blu si posano su di me. «Può pagare la parcella?».

    Non so a quanto ammonti e preferisco non saperlo. «Be’, no, ma…».

    «La situazione era piuttosto grave», ripete ancora una volta. «Se non avessimo operato in quel momento, sarebbero insorte complicanze molto pericolose. Non c’è stato il tempo di portarla in un ospedale differente…».

    Credo che si stia scusando.

    Per avermi salvato.

    Che razza di mondo è diventato mai questo, se una maledetta assicurazione sancisce chi vive e chi muore?

    «Non si preoccupi, pagherò in qualche modo. Una volta sposata…». È evidente che mi abbiano dato parecchie droghe. E pure belle pesanti. Voglio dire, non è mia abitudine sbandierare in questo modo i miei piani segreti. Ma a questo dottore sto raccontando tutto, come se mi fosse impossibile farne a meno.

    «Ah, si sta per sposare? Auguri!», si congratula, rilassandosi all’istante. «Se mi dà i riferimenti del suo fidanzato, chiedo all’infermiera di farlo chiamare quanto prima. Purtroppo, oltre alle sue generalità, che abbiamo scoperto dal suo datore di lavoro, non abbiamo trovato altro. Nel sistema sanitario non ci sono referenti da contattare in caso di bisogno».

    No, chiaramente. Chi mai posso far chiamare? Mia madre, che nemmeno mi riconosce? Il mio ultimo amante, quello che mi ha fatto trovare le valigie fuori dalla porta dell’appartamento in cui mi teneva nascosta? Ci sono occasioni nella vita in cui uno deve bastare e avanzare a se stesso.

    «Non ho detto di avere un fidanzato», mi sento in dovere di precisare.

    Il medico mi osserva confuso. Chissà che orrore devo essere, in questo preciso istante.

    «Dottor Pittman, se non le serve altro, vado un secondo in infermeria», ci interrompe l’infermiera.

    «Certo, vada pure», la congeda lui. «Stava dicendo, signorina Walsh?». E torna a interessarsi a me.

    «Lo sa che ha gli occhi più blu che io abbia mai visto?», mi sfugge.

    Spero vivamente che le mie dichiarazioni scandalose si fermino agli occhi perché, ora che ci faccio caso, il signor dottore ha un fisico assolutamente statuario. È alto, con due spalle che quasi tirano la stoffa del suo camice. Sarà di certo un esaltato dello sport o qualcosa di simile.

    «È la morfina, signorina Walsh», mi rassicura benevolo.

    No, credo proprio che sia lui. La morfina è solo responsabile del fatto che io stia sorridendo nonostante abbia scoperto di essere stata appena operata, pur non potendomelo assolutamente permettere. «Mi chiami Jordan, la prego. Quando dice signorina Walsh, mi viene da pensare a mia madre».

    «Signorina e non signora?», chiede con tono cortese.

    «Esattamente quello che ho detto. Sono drogata, non pazza», ci tengo a informarlo.

    «Mai sospettato che fosse pazza».

    «Ah, no. Lo ha pensato. Quando ho detto che sto per sposarmi ma non ho un fidanzato», gli ricordo. Non so bene perché stia portando avanti una simile conversazione con un uomo che mi ha appena salvato la vita. Si meriterebbe di essere lasciato in pace, povera anima candida, e non di essere coinvolto nelle mie folli elucubrazioni.

    «In effetti, la storia del fidanzato immaginario mi incuriosisce», ammette.

    «L’avverto: non si tratta di chissà quale storia…».

    «Impossibile. Lei, signorina Walsh, ops, Jordan, ha una di quelle facce che nascondono una storia», mi spiega.

    Nessuno, prima d’ora, mi aveva detto qualcosa di simile. Sono toccata contro il mio stesso volere.

    «E invece no. Niente di interessante. Sono solo una bella ragazza. Punto», mi trovo a insistere.

    Lui mi osserva con un’espressione niente affatto convinta. «Nessuno di noi è solo apparenza. C’è sempre altro, oltre l’esteriorità».

    Non sono mai stata molto brava a discutere di pseudofilosofia, e di certo non mi sento in grado di farlo ora, nella mia precaria posizione. «E francamente dubito di essere granché attraente in un letto di ospedale. Le chiederei di passarmi la borsetta, dottor Pittman, se non fosse che per una volta ho paura di specchiarmi». Io e gli specchi siamo sempre andati d’accordo, ma immagino che ci sia una prima volta per tutto.

    Il medico scoppia a ridere e me la passa comunque, avvicinandosi ulteriormente per aiutarmi a mettermi seduta. Non faccio in tempo ad annusare un buon odore di pulito, probabilmente sapone di qualche tipo, che si è già riappropriato della distanza di sicurezza. Bello e saggio. Davvero, non poteva lasciare un po’ di raziocinio anche a noi altri?

    «Rory», mi dice dopo che mi sono sistemata.

    «Mi scusi?», chiedo un po’ inebetita. Non capisco se sia colpa sua o dell’operazione. Non so nemmeno cosa augurarmi.

    «Mi chiamo Rory. Se lei è Jordan, io sono Rory», mi spiega, azzardando un mezzo sorriso.

    «Ah no, dottor Pittman. Ognuno di noi ha il proprio ruolo, il proprio gradino nella scala sociale, e io ho tutte le intenzioni di rispettare le gerarchie». Così dicendo mi faccio forza e apro la cipria dotata di specchietto. Salvo richiuderla quasi subito con uno scatto deciso. «Oh cielo…», mormoro affranta. Sono verde. Davvero, davvero verde.

    «Cosa c’è? Si sente male?», mi domanda preoccupato.

    «Può dirlo forte e chiaro. Ho un aspetto terribile!», esclamo agitata.

    Il dottor Pittman mi scruta serio. «A costo di svelarle qualcosa di terribilmente ovvio, sono costretto a farle notare che tutti hanno un aspetto terribile dopo un’operazione. Anzi, lei è una delle persone che ne è uscita meglio, se proprio vuole saperlo».

    Non che la cosa mi rassicuri in qualche modo. Io non sono come tutti. Io ho un piano da portare a termine, ora che ho scoperto di non essere morta.

    Scuoto la testa. «Devo fare meglio di così. Decisamente meglio, se voglio sposarmi».

    Sto continuando a frugare nella mia borsetta, in cerca del pettine e del rossetto rosso fuoco – alle bionde platino il rosso sta sempre una favola – quando il suo sguardo penetrante mi costringe

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