Il doppio
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Anteprima del libro
Il doppio - Bruno Pasquero
1
Testimonianza n. 1
ELIZABETH
Cosa furono, in fondo, quei pochi momenti passati con Elizabeth, in confronto a tutti i momenti e a tutti i giorni della mia vita?
Un episodio.
Un attimo sfuggevole di tempo.
Un soffio di vento.
Un granello di sabbia su una spiaggia deserta.
Un solo capello perso in una folta chioma.
Null’altro che una pochezza, quindi. Poco. Poco o niente. Ma non sempre il poco è niente. Non sempre il poco è così insignificante da essere invisibile. Anzi. Succede che quel nonnulla lasci un segno indelebile. Nelle nostre vite. Nel nostro futuro. Nelle nostre storie e nella storia.
E così accade che spesso il niente è più del tutto. Basta un attimo, una frazione di attimo, perché succedano cose che fanno cambiare intere vite. Basta un millimetrico intervallo perché si cambi destino delle cose. Basta un solo piccolo insignificante particolare per vedere grandi risultati stravolti.
E quindi anche quei pochi istanti, quel niente di tempo, quella frazione di secondo in cui vidi la luce dei suoi occhi riflessa nei miei, bastarono. Bastarono a scuotermi dal più profondo, come se rivivessi per la seconda volta una situazione già vissuta. Quello scintillio, che brillò dal tondo dell’iride di Elizabeth, era identico. Identico all’urlo muto di disperazione che avevo già conosciuto dal tondo di altri occhi, e che da anni mi impegnavo con tutte le mie forze di dimenticare, cercando a ogni costo di riporlo in un angolo buio della soffitta del mio cervello, coperto da un sacco di iuta scuro, in modo che si confondesse con la penombra della mia coscienza.
Sì, sembra incredibile come quel poco di tempo, quel niente di vita, bastò per far rivivere, come cani famelici destatisi improvvisamente da un lungo sonno, tutte le mie colpe; bastò per far rialzare il sacco dalle sue antiche polveri nascoste, lasciando che mi cospargessero e mi contaminassero da effluvi velenosi con il solo scopo di condannarmi a una perenne disperazione interna.
Non andavo mai molto volentieri alle conferenze. Troppo trambusto. Preparare le valigie. Cambiare i soldi. Controllare i documenti. Prenotare gli aerei. Spostare gli impegni. Troppa fatica. E poi la tensione. È vero, in materia ero un vero esperto, da altri esperti riconosciuto e ammirato. Consulente di influenti politici e capi di Stato. Chiamato per pareri da generali e alti ufficiali. Le mie pubblicazioni, peraltro, avevano avuto ampio consenso e successo a livello internazionale, tradotte in diverse lingue. Nonostante tutto ciò, le conferenze mi mettevano sempre e comunque una certa agitazione interiore, probabilmente proprio perché in quelle occasioni dovevo essere all’altezza della mia fama, e non potevo sbagliare. Un disagio che non traspariva agli altri, perché sapevo recitare bene la mia parte, ma che metteva sempre alla prova i miei nervi.
L’invito, questa volta, arrivò con grande anticipo. Atene.
Quell’università, di concerto con l’Organizzazione delle Nazioni Unite, aveva organizzato un simposio sul tema: Il riconoscimento giuridico del guerrigliero e dei movimenti eversivi nel moderno sistema di diritto internazionale.
Un argomento che conoscevo bene, e per questo non mi stupii dell’importante convocazione. Un argomento di scottante attualità e che aveva una rilevante risonanza mediatica per via dei palestinesi.
Sarebbero intervenuti autorità ed esperti di tutto il mondo, con tivù di ogni paese e primarie testate giornalistiche.
Avrei esposto davanti a una qualificata platea mondiale le mie tesi, e probabilmente avrei potuto svolgere una certa influenza politica sulle decisioni dei grandi della Terra.
D’altra parte, avevo alle spalle anni di studi e di ricerca, ero titolare di una cattedra di diritto internazionale in una delle più importanti università italiane, pubblicazioni e riconoscimenti. Un curriculum di tutto rispetto, accidenti.
La preparazione della relazione mi portò via qualche settimana e qualche notte in bianco. La notte la utilizzavo quando ero alla fase di rifinitura, perché mi potevo concentrare meglio, senza che nessuno mi interrompesse con stupide telefonate o altre robe del genere.
In poco tempo assemblavo il lavoro, lo rifinivo con le poche correzioni necessarie e lo rileggevo, pronto per la stampa.
In fin dei conti, preferivo scrivere la relazione che fare le valigie. Là dentro non sapevo mai bene cosa ficcarci, perché non sapevo mai quale tipo di ambiente mi avrebbe accolto. A volte era necessario portarmi dietro lo smoking per il ricevimento, previsto per la sera dopo la conferenza, in onore del sovrano o del capo di Stato del paese organizzatore. Parigi e New York erano maestre, in queste cose. Gli americani, specialmente, facevano sempre tutto in grande: abiti fin troppo eleganti, cerimonie sgargianti, vistose scenografie, pomposi adorni floreali. Mi divertiva quasi vedere questa cornice, quasi di dubbio gusto, proprio perché appariva agli occhi di noi europei francamente esagerata.
In Grecia, invece, non immaginavo proprio cosa mi sarebbe aspettato. Non conoscevo la Grecia, non conoscevo i greci, non conoscevo bene l’ambiente politico e intellettuale greco. Andreas Papandreou, esponente di spicco della politica greca e già primo ministro, era da poco stato eletto presidente del consiglio europeo, nel luglio del 1988, subentrando a un mostro sacro come Helmut Kohl, e forse per questo le iniziative di respiro europeo avevano ricevuto un maggiore impulso nel paese ellenico.
Cosa dovevo portare in valigia? Un vestito grigio o uno blu? O un completo più sportivo per un ricevimento informale? E il benedetto smoking, dovevo portarlo lo smoking? Queste scelte mi facevano venire mal di testa.
In certe frivolezze sono un eterno indeciso, fa parte del mio carattere.
Optai per due vestiti di lino, uno chiaro tinta panna e l’altro grigio scuro doppiopetto, due papillon - uno blu con piccole macchie rosse e l’altro nero -, un paio di camicie bianche, scarpe e cintura nere. Questa volta lo smoking non lo avrei portato. Mi sembrava troppo pesante, vista la stagione ancora estiva. Ad Atene, poi, la temperatura era ancora più calda in quel tardo settembre. Mi sarei vestito di chiaro per la conferenza e di scuro per il ricevimento programmato per la cena. Il doppiopetto elegante non avrebbe, pensavo, poi sfigurato assolutamente.
Per il viaggio la mia preferenza cadde su un simpatico completo a quadri marroni e blu, dalle tinte non forti e dalle tonalità che tutto sommato stavano bene insieme, anche se a dirlo non sembrerebbe. A me piaceva quel vestito, lo consideravo semplicemente amabile e deliziosamente intellettuale. Certo, un tipo bassino non avrebbe potuto indossare un completo così impegnativo, ma il mio metro e ottantacinque mi dava la sicurezza di una certa eleganza.
Fatta la valigia, ci girai un po’ intorno, sia con le gambe che con il cervello. E alla fine decisi di portarlo, quel maledetto smoking che continuava a ronzarmi in testa come una mosca autunnale. Era meglio essere previdenti. Meglio non sentirsi in imbarazzo all’ultimo momento. Non c’era nulla di peggio di trovarsi nel vivo di un ricevimento con tutte le donne in lungo e tutti gli uomini in smoking nero e io, solo pesce fuor d’acqua, con un banale vestito da pomeriggio. Mi era già successo, una sola volta, e giurai che non sarebbe più accaduto. Intendiamoci, non era un incidente diplomatico, ma il sentirsi a disagio era una cosa semplicemente fastidiosa, come la puntura delle zanzare o la radio a volume troppo elevato, e io di sentirmi a disagio non ne avevo voglia. Per questo, quasi con stizza, gettai lo smoking nella valigia, non pensandoci più. Incidente chiuso.
Successe a Lione. La storia del disagio, intendo. E chi mai se lo aspettava che in una città come Lione, neppure una capitale, si organizzasse una serata tanto elegante? Da competere con gli sfarzi newyorkesi. Cercai di cavarmela giustificandomi che mi avevano avvertito all’ultimo minuto, che ero arrivato appena in tempo con un volo charter, assecondando gli sguardi un po’ sdegnati di alcuni imborghesiti con la puzza sotto il naso. Forse era una gaffe non indossare il vestito imposto dalla circostanza, e pensai che, essendo la prima volta in cui partecipavo a una simile occasione, fosse anche l’ultima. Pensai che non mi avrebbero più chiamato. Invece fui invitato in seguito anche ad altri incontri simili, e fui contento che, nonostante tutto, fosse ancora il contenuto a trionfare sulla forma. Come dire che le mie relazioni giuridico-politologiche avevano avuto la meglio sul mio abbigliamento poco opportuno. Sembrerebbe ovvio, ma non è così.
Avevo avuto occasioni di constatare il trionfo dell’imbecillità sull’intelligenza.
Succede che la forma, la bellezza, l’aspetto, vincano su tutto. Come dire: vince il contenitore sul contenuto.
Avevo constatato di persona che avere una bella faccia e un convincente sorriso faceva più effetto di un ottimo cervello nascosto in un corpo poco piacevole.
Non sempre, ma troppe volte avevo visto premiata piuttosto la faccia da intelligente
o la faccia da intellettuale
che l’intelligente o l’intellettuale autentico.
Perché succedesse una cosa simile me lo ero in queste occasioni chiesto. E mi ero sforzato di fare un’indagine socioculturale.
Dopo lunghe osservazioni, meditazioni, congetture, diedi una risposta disarmante: mancava il tempo.
Il tempo di valutazione della persona, di approfondimento del profilo intellettuale, anzi dell’intero personaggio.
Mancava il tempo fisico per poter capire il pensiero di chi si proponeva, non c’era spazio per entrare nel più profondo delle sue idee e dei suoi ragionamenti. Scarseggiavano anche solo quei pochi momenti per poter capire come la pensasse davvero quella data persona, e se il suo intelletto era davvero sopra alle altre menti, con soluzioni nuove o ingegnose dei problemi, o con visioni innovative della realtà e del mondo.
La principale causa, tra le tante, pensavo fossero i mass media. Soffocati come erano dagli obblighi di rispetto dei tempi, obbligati a lasciare sempre più posto agli spazi pubblicitari, non potevano che concentrare i pensieri fino a farli diventare slogan. Il meccanismo era diventato perverso: di conseguenza anche i principi del pensiero umano, a loro modo, scimmiottavano gli stessi spot pubblicitari da cui traevano il loro sostentamento. Si spogliavano lentamente dalla sostanza per diventare quasi esclusivamente forma, condensata poi in una definitiva sterile apparenza.
Ecco, quindi, che anche i personaggi di cultura, di politica o di spettacolo dovevano sintetizzare la loro comunicazione in semplici e brevi messaggi da dare in pasto al pubblico affamato, non con cibo intellettualmente pesante, ma con piccole pillole di facile digestione.
Logica conseguenza che i tempi ridotti, dedicati al pubblico, permettevano più facilmente di dimostrare la propria intelligenza e la forza delle proprie idee con un aspetto intelligente, piuttosto che attraverso lunghe e difficili dimostrazioni delle proprie tesi. D’altra parte, non sempre e non tutto poteva svolgersi come all’università, con lunghe e circostanziate lezioni accademiche, ovvio.
Il pericolo vero di tutto ciò era che anche in politica poteva succedere la stessa cosa, anzi succedeva eccome. E il risultato poteva essere quello di ritrovare, in posti di enorme responsabilità politica, dei veri idioti eletti dopo aver sfoderato slogan da stadio. Non viene a tutti un brivido lungo la schiena nel vedere, in una cosiddetta stanza dei bottoni
, una mano appartenente a un autentico imbecille dall’aspetto estremamente intelligente? Se sembra intelligente, farà cose intelligenti, qualcuno potrebbe dire.
Ma con i morti e gli stermini di massa, le guerre atomiche, non si può tanto rischiare di sbagliare, affidandosi solo alle apparenze.
Eppure, la storia dell’aria intelligente aveva presa sulla gente. In altre parole, era come dire: "Ehi, ragazzi, visto che faccia? È una faccia da idiota, questa? È un sorriso da stupido, questo? No? Certo che no. E allora, se la mia faccia è intelligente, siete assicurati che quello che voglio fare sarà di sicuro intelligente. Che quello che dico e che faccio sarà al cento per cento estremamente intelligente. Il mio comportamento sarà intelligente, come anche mia moglie e il mio cane. Una first lady intelligente e una mascotte intelligente. Tutto a posto.
È intelligente il mio look? Sono furbe le quattro frasi che vi ho lanciato addosso dal palco e scritto sui manifesti elettorali? Ok, allora datemi il potere e io farò cose intelligenti, cioè gestirò il potere che voi mi avete dato in modo intelligente."
Io, pensando in questa delirante ottica, ero molto fortunato.
Avevo un aspetto intelligente. Precisamente un metro e ottantacinque di intelligenza con sopra una faccia intelligente. Ce ne stavano di robe intelligenti in un metro e ottantacinque. La mia faccia inoltre era il prototipo della faccia del genio. Vale a dire il prodotto tra una faccia intelligente e una faccia da intellettuale. I miei lineamenti erano regolari, capelli sul biondiccio e occhi profondi che ispiravano una spontanea fiducia, vera garanzia di affidabilità. Ma c’era dell’altro.
Come se non bastasse, oltre ad avere tutte le caratteristiche estetiche proprie di una persona intelligente, la cosa interessante era che io intelligente lo ero per davvero. E avevo l’aria anche per quel che basta
(come si dice in cucina) da intellettuale, anche quella possedevo.
Quindi, armato della mia intelligenza effettiva insieme a quella apparente, che più contava, ero praticamente un’arma da terza guerra mondiale. Avrei potuto diventare presidente degli Stati Uniti, o cose simili. Non uno scherzo.
La cosa, però, francamente non mi interessava. Mi bastava sguazzare nella mia pozzanghera, che amavo, ed essere riconosciuto come un luminare del diritto internazionale, partecipare a convegni e dare suggerimenti a persone di spicco.
In fondo, nessuno mi conosceva veramente. Se camminavo per strada nessuno mi fermava per chiedere un autografo, non avevo guardie del corpo, e i giornalisti neppure mi degnavano di attenzioni.
Ero pertanto un perfetto sconosciuto, un cittadino del mondo, che però viveva ogni tanto i suoi piccoli momenti di splendore autentico. Il mio cognome era sconosciuto ai più, e solo ricordato qualche volta in ambienti estremamente intellettuali e selezionati.
Per il momento mi piaceva fare quello che facevo, e mi bastava. A ben guardare ero ancora giovane: intorno ai quaranta, e qualsiasi obiettivo poteva essere alla mia portata.
Intelligente com’ero, poi, avrei sicuramente campato almeno fino a novant’anni. Se togliamo i primi venticinque circa di vita dedicati agli studi, era come se avessi avuto quindici anni, un ragazzino. Il futuro era ancora tutto davanti a me. E nei prossimi cinquant’anni avrei potuto fare grandi cose. Nulla mi era precluso. Ne avevo tutto il tempo.
Una volta preparate le valigie, guardai l’ora e mi ricordai che proprio quel giorno avrei dovuto passare dalla signora Elena.
Mancavano ormai tre giorni alla partenza e io amavo essere preparato a puntino almeno uno o due giorni prima. Gli inconvenienti dell’ultimo minuto sono sempre dietro l’angolo, ma se uno gioca di anticipo è più facile tenerli a bada e gestirli nel modo giusto, senza compromettere i programmi.
Perciò amavo avere tutto pronto in anticipo, salvo il tè da prendere a colazione prima di recarmi all’aeroporto.
La signora Elena era la persona che curava la traduzione delle mie relazioni in inglese. Io lo conoscevo, ovviamente, l’inglese, ma scrupoloso com’ero preferivo farmi controllare la relazione da una professionista specializzata. Una preparata, praticamente bilingue, il papà era italiano ma la madre nativa di Londra. Aveva studiato letteratura in una prestigiosa università di Cambridge e sapeva fare bene il suo mestiere. Lavorava con molti professori dell’università e tutti erano sempre stati molto soddisfatti delle sue consulenze, compreso il sottoscritto. Il suo lavoro era semplicemente perfetto. Come piaceva a me. Ovviamente le mie relazioni all’estero le facevo sempre in inglese. Alcune volte era successo di farle in inglese anche in Italia. Dipendeva dall’uditorio.
Solo se fossi andato in Francia o in un altro paese francofono avrei preferito tenere il discorso in francese. Lingua che conoscevo altrettanto bene.
La signora Elena non abitava, per pura coincidenza, lontano da casa mia. Cioè non così distante. Il percorso che separava la mia abitazione dalla sua, però, era abbastanza per potersi avviare a piedi senza tentennamenti.
Notoriamente, come tutti gli intellettuali, non ero un grande atleta.
Avrei potuto andarci in auto, quindi. Ma l’idea di tirare fuori l’auto dal garage mi vedeva allo stesso modo contrariato.
Il garage non era sotto casa, infatti, ma dalla parte opposta alla direzione dove mi aspettava la traduttrice, diciamo circa un chilometro. E la distanza che separava casa mia dal suo studio era di circa due. Non occorrevano grandi calcoli per capire che tra andare a prendere e riporre l’auto avrei dovuto percorre la medesima distanza che mi dovevo sorbire se avessi scelto di andarci a piedi direttamente da lei, ma per il solo gusto di andarci in macchina.
In più la scocciatura di apri il portone basculante e chiudi il portone basculante
, con serrature e lucchetti. Che noia. E poi, cosa non indifferente, una volta giunto a destinazione con l’auto, vai a trovare il parcheggio, visto che eravamo quasi in centro.
Potevo, è vero, ovviare al fatto di andare a piedi in garage prendendo il tram sotto casa, che mi portava diritto al deposito, e tagliare la testa al toro. Ma l’idea di dover fare tutta quella fatica di aspettare il tram per arrivare al garage… Se fossi stato fortunato lo avrei beccato al volo, ma se non lo fossi stato? Avrei dovuto aspettare. E io odio aspettare, fosse qualcosa o fosse qualcuno.
Anche per prendere il mezzo pubblico direttamente per la traduttrice, invece, avrei dovuto aspettare. E io odio dal profondo aspettare, specie qualcosa.
C’era poi la soluzione della metro, ma a ben pensare questa era la soluzione ancora più dispendiosa a livello di passi in quanto era troppo decentrata dalla mia abitazione ed era quindi ancora peggio di quella del tram.
Qualcuno potrebbe però obiettare che per fare bene i conti occorrerebbe contare anche il percorso di ritorno dalla professoressa di inglese a casa mia, totalizzandone quattro di chilometri. Il che vorrebbe dire quattro chilometri rispetto ai due dell’andare e venire dal garage. Ma qui è giusto sottolineare che sotto casa della signora Elena il tram fa il capolinea; pertanto non occorre aspettarlo, perché ce n’è sempre uno che attende la partenza e sempre dopo poco parte. In quel caso sì che lo prendevo volentieri il tram e senza attendere che qualche minuto, per di più seduto come in prima classe.
Al temine di questi complicati calcoli, da personaggio davvero intelligente dall’aspetto molto intelligente, presi la decisione.
Chiamai quindi un taxi, perché mi ero francamente rotto i coglioni di tutte quelle congetture. Alzai la cornetta del telefono facendo lamentare l’apparecchio e componendo il numero consueto. Bisbigliai quattro parole e corsi a infilarmi un giaccone, passai davanti allo specchio grande e colsi l’occasione per darmi una sistemata ai capelli. Per fare prima mi tirai dietro la porta, senza chiuderla a chiave.
Quando l’ascensore mi vomitò al pianterreno credevo che il taxista se ne fosse già andato pensando a uno scherzo: avevo rallentato le operazioni di espulsione dalla navicella condominiale, controllando in tutte le tasche possibili di aver preso le chiavi di casa. Avevo il terrore di chiudermi fuori.
Mentre salivo sussurrai l’indirizzo all’autista che fece una faccia perplessa. Infatti sembrò contrariato a farmi scendere solo un paio di chilometri più avanti. Per farmi perdonare gli lasciai una mancia uguale alla tariffa, ma non sembrò comunque entusiasta del premio. Per il ritorno cominciai a valutare l’ipotesi di tornare poi a piedi, non solo per spirito di contraddizione, ma anche perché non avevo voglia di rivedere la stessa espressione di disappunto da parte di un taxista.
La signora Elena abitava in un vecchio stabile, forse una volta di proprietà di