Più vicini al cielo
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Anteprima del libro
Più vicini al cielo - Rolando Lambiase
633/1941.
1
In the mood
Mi accodo nell'imbuto all'uscita della tangenziale. Dopo l'ingorgo svoltare a sinistra. La strada martoriata che costeggia la tangenziale mi condurrà dritto ai Moscani. Ci sono già stato da quando sono ritornato, non lo nego, ma sembro comunque imbranato come un ottantenne rincoglionito. Parcheggio davanti al Parco Moscani, un pretenzioso agglomerato di palazzine di tre e quattro piani blindate da un sinistro cancello automatico. M'incammino, sorpasso il cancello. Lancio uno sguardo velenoso alle palazzine del parco: l'ultima, verso il vallone, si erge più o meno sulla terra che fu degli Stanzione, dopo la quale c'era la nostra. La fontana del villaggio è sparita, spianata. Pochi passi e raggiungo la piccola aia-piazzetta sulla quale da marzo a settembre le vecchie recitavano il rosario e i moscanesi organizzavano feste da ballo. Di fronte c'è la casa dove sono nato e cresciuto, in coabitazione con cinque fratelli, due sorelle, papà mamma e nonna.
Non mi raccapezzo, è tutto cambiato. Hanno accorpato la mia casa e quella degli Stanzione (eterni confinanti, anche di terra): ora formano una insulsa L ad angolo quasi retto, lato mare. Le ristrutturazioni sono sommarie, pietre e tufi ricoperti di calcestruzzo dozzinale. Anche i colori esterni sono pugni nell'occhio, vivacemente pacchiani, incongrui. Mi fanno rabbia e pena.
Non c'è un'anima. Nemmeno un gatto. Che fine avranno fatto tutti i felini che allora si aggiravano paffuti e insolenti per le case?
Quando sentivo le note di In the mood, ovunque mi trovassi, rimanevo ipnotizzato dal ritmo travolgente di quella musica. Era l'orchestra di Benny Goodman, dal grammofono sull'aia, oppure quella di Carmine De Rosa dal vivo, insediata al piano terra dei Cerrato o degli Stanzione. In entrambi i casi voleva dire che si preparava o era in corso una festa da ballo. Allora piantavo la compagnia e schizzavo verso la fonte del suono, incurante degli anatemi che mi scagliavano alle spalle Oillòc, sent 'a musica e s''a svigna!
Uagliù, verite come scappa!
Ne aggio visto patiti, ma chill mett 'a copp a tutte quante!
Sì, ero un patito. Tenevo forse nove o dieci anni e la musica mi piaceva assai. In verità, non sapevo neppur'io se fosse la musica – le canzonette – o quello che capitava quando mi ci trovavo in mezzo. Cioè, quando si ballava. Mi sedevo in un angolo strategico e osservavo. Il cuore iniziava a martellare forte e veloce. Vedere i grandi ballare - charleston, boogie-woogie, foxtrot, cha cha cha - mi faceva uscire pazzo. Il movimento frenetico di gambe e braccia, lo svolazzamento di gonne larghe a campana, il sudore-fetore dei maschi, i pezzi di gambe scoperte, persino le mutande di donne che mai avrei immaginato potessero arrivare a tanta sfrontatezza. Ogni tanto capitava che qualcuno invitasse noi ragazzini a buttarci nella mischia, ma noi facevamo gli scurnusi. Pane troppo duro per i nostri denti da latte. E se proprio io vi venivo carriato dentro a forza, acchiappato per le braccia, recitavo la parte del tarantolato, mi lasciavo cadere per terra frignando come un criaturo. Da lì facevo il pieno di cosce e di mutandine da rivedere in solitaria intimità.
Ne avessi avuti quindici o sedici, di anni, i più grandi mi avrebbero etichettato rattuso, oppure pugnettaro indefesso. Chissà che non lo facessero comunque. Invece sembrava che nessuno ci facesse caso. Al massimo qualcuno lo spiattellava ai miei fratelli con locuzioni eufemistiche o battute bonarie: Uè, ma fràtete sta sempe 'ndririce!
Non c'era bisogno di una ricorrenza speciale per fare una festa ai Moscani. Bastava che un maschio lanciasse l'idea il venerdì, e la domenica sera erano tutti lì sull'aia o, se pioveva o faceva molto freddo, a casa Cerrato o dagli Stanzione. I Cerrato avevano il piano-terra più ballabile di tutti: un camerone irregolare completo di cucina in muratura e focolare. Tirati via tavolo e sedie, c'era più spazio là che sull'aia, addirittura. Se poi metti che Arturo e Ciro erano cumpare e cumpariello del Maestro De Rosa, ti spieghi come mai una domenica sì una no si ballava, da loro o altrove.
Carmine De Rosa, 'o Maestro, era valente fisarmonicista e aveva un'orchestrina che a Salerno impazzava. Batteria, chitarra d'accompagnamento e basso erano al servizio del virtuoso musicista. Qualche volta c'era pure il violino, per tanghi mazurche e roba del genere. Il violinista, don Cesare, era scheletrico, con il naso esageratamente appuntito e gli occhi neri infossati. Me lo sognavo sempre nei brutti sogni che mi visitavano puntualissimi quando avevo la febbre alta. Perciò pregavo il padreterno che il Maestro non lo portasse appresso.
Noi dei Moscani, un villaggio di poche anime, portavamo addosso l'invidia di molti salernitani per lo sfacciato favoritismo di cui godevamo; e lui, il Maestro, veniva pure a suonare gratis. Aveva un debole per me - no, non quello - Carminuccio De Rosa. Ed io mi mettevo sempre accovacciato sotto la sua fisarmonica, guance infuocate e orecchie rosse e assordate. Ne andavo orgoglioso, attizzavo la miria dei compagni.
Altri borghetti – ora tutti inglobati dalla città come i Moscani - erano sparsi per il retroterra cittadino, ma pochi di essi potevano vantare una tale veduta e vicinanza al mare. Le case erano tutte di pietra e di tufo, stinte dal tempo e dal sole. Oggi sono più variopinte, rimodellate secondo le necessità e i capricci dei nuovi abitanti, quasi tutti forestieri e ignari della vita che anni addietro palpitava dentro quei tufi vulcanici.
Avrò avuto 5 o 6 anni quando Carmela transitava in piena adolescenza. In carne com'erano i canoni in voga dettati da Sogno e Grand Hotel, non si poteva dire una bellezza travolgente. Le mancavano la grazia nei movimenti, lo sguardo innocente e malizioso, l'altezza adeguata. In compenso era simpatica ed esuberante - non solo in senso figurato - benvoluta da tutti. Credo che fosse stata lei la prima a introdurre i due settimanali tra le donne dei Moscani, bambine e mamme incluse. Quando le due riviste uscivano – forse lo stesso giorno – la vedevi spuntare all'ultima curva prima del villaggio, gongolante, con le gote più rosse del solito, stracarica di spesa. Le riviste erano ben in vista, in mezzo a bianchi filoni croccanti, fatti con farina bianca doppio zero di stampo americano, e ad azzurri pacchi di zitoni lunghi del pastificio Crudele di Pontecagnano. Bambine e mamme la attorniavano chiassose, con gli sguardi ansiosi rivolti ai fotoromanzi ancora vergini, che presto sarebbero stati tormentati dalle dita frementi di Carmela, musa lettrice della comunità femminile moscanese. Carmè Carmè! Che dicono Carmè?
La sorellina Maria era sempre in prima fila, seguita da Gilda, Raffaella, Margherita, adolescenti come lei, e mamme e zie che interrompevano i servizi per sentire se ‘Lei' avesse finalmente lasciato ‘Lui', o se ‘Lui' si fosse vendicato del tradimento di ‘Lei'. Carmela recitava, interpretava, coinvolgeva. La sentivi commentare, chiosare, sollecitare le reazioni delle astanti: Le sta bene! Le zoccole prima o poi fanno sempre na brutta fine
Puveriello, non l'ha uccisa per il bene d' 'a criatura. Che sant'ommo/L'ata sì ca tene 'o core. Speriamo che alla fine s' 'o mmarìta.
Quei proto-fotoromanzi a puntate - soap opera di carta - riuscivano a coinvolgere massaie e impiegate, studentesse e contadine dell'Italia post bellica, al punto di tenerle impegnate l'intera settimana, da sole in estasi alienante, o a coppie e in gruppo, in chiacchiericci estenuanti e infervorati.
Alfredo le faceva la corte, chi non lo sapeva. Noi lazzaroncelli ce n'eravamo accorti e la sera, quando riponeva pialla e sega dopo una giornata di lavoro alla bottega, gli roteavamo intorno per un poco, si fischiava, sghignazzava, poi lo lasciavamo al suo corteggio, che canticchiava e sfumacchiava sul muretto. Era timido e scorbutico, Alfredo, soprattutto con noi. Jatevenne si no vi piglio a curriate!
grugniva tra uno sbuffo e l'altro di sigaretta senza filtro.
Carmela gli dava poco spago. Non era l'innamorato per lei, il Lui di Sogno o Grand Hotel. E poi, le veniva pure cugino di un certo grado, ad essere precisi. Qualche annetto in più, non è che fosse un problema; ma il giovane non aveva, ai suoi occhi, neppure una delle virtù dell'eroe foto-romantico. Posava a fare l'uomo, a darsi arie di bel tenebroso, duro, scontroso. Inconsciamente, o forse no, tentava di emulare gli eroi di carta di cui,suo malgrado,sentiva dettagliate descrizioni e resoconti da Carmela stessa e dalle donne di casa. Lei però non ci cascava.
Una mattina, di ritorno dalla spesa, se lo vide sbucare dai fetenti che portava a mano la sua vecchia bicicletta nera.
Carmè, fermati un po' che ti debbo parlare
Si nu cretino. M' hai appaurata.
Se non mi dai retta m'arruolo in Marina. Faccio la domanda e parto volontario.
Il marinaio? Ma si nun sai manco nata'! E come ce l'hanno la divisa i marinai?
Nun 'o saccio. Nun l'aggio mai vista. Certamente è bella se assomiglia a quella degli americani. E si tu nun me scrivi, io mi raffermo.
E cioè? Ti fermi a fare il marinaio tutta la vita? Così ti levi dai piedi!
Ma che tieni dint' 'a capa? Quei giornali ti hanno rovinato il cervello.
"Sei meglio tu che leggi Buck Jones e Tex Willer."
Lo scherniva, lo feriva, offendeva come meglio poteva, anche se poi se ne dispiaceva.
Non era male Alfredo dopotutto. A parte l'altezza – ma doveva ancora crescere, si diceva – di faccia a volte assomigliava a Giorgio di Passione d'amore (Grand Hotel) e di profilo aveva qualcosa del Raimondo giovane di Pene d'amore (Sogno). Lui però non avrebbe mai saputo dirle le belle frasi appassionate dei fotoromanzi; ma su questo poteva soprassedere, dato che nemmeno lei ne sarebbe stata capace, quantunque le recitasse ad alta voce ogni settimana. Ah, come le sarebbe piaciuto sfogliare quelle pagine con un Lui che provasse le stesse emozioni, i medesimi languori! E ad ogni bacio della storia, riprodurlo tale e quale