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Udire con gli occhi, Adriano Giannotti tra neuropsichiatria infantile e psicanalisi
Udire con gli occhi, Adriano Giannotti tra neuropsichiatria infantile e psicanalisi
Udire con gli occhi, Adriano Giannotti tra neuropsichiatria infantile e psicanalisi
E-book520 pagine7 ore

Udire con gli occhi, Adriano Giannotti tra neuropsichiatria infantile e psicanalisi

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Info su questo ebook

A distanza di quindici anni dalla prematura scomparsa di Adriano Giannotti appare quanto mai necessario riconsiderare il ruolo che egli ha svolto nei più diversi settori, dalla psicoanalisi dei bambini a quella degli adulti. A tale scopo ci è sembrato opportuno proporre la realizzazione di un volume a più voci, che consenta di mettere a fuoco da diverse angolazioni la poliedrica personalità di uno psicoanalista che ha svolto compiti impegnativi in campi disparati, promuovendo progetti originali e coordinando gruppi di ricerca e di lavoro pionieristici in ambito psicoterapeutico. Uomo di frontiera, capace di armonizzare abilmente modelli psicoanalitici di diversa ispirazione, Giannotti si è mosso sempre con equilibrio, navigando con calma in mezzo a contrasti e difficoltà di ogni tipo. In un’epoca come questa, drammaticamente segnata da contrasti che sembrano insanabili, la sua lezione di modestia e saggezza è preziosa.
LinguaItaliano
Data di uscita28 lug 2014
ISBN9788878535541
Udire con gli occhi, Adriano Giannotti tra neuropsichiatria infantile e psicanalisi

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    Udire con gli occhi, Adriano Giannotti tra neuropsichiatria infantile e psicanalisi - De Simone

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    ​INTRODUZIONE

    La morte di Adriano Giannotti ha lasciato un profondo vuoto nella psicoanalisi italiana. A distanza di sedici anni dalla sua prematura scomparsa ed a venti anni dalla pubblicazione del suo volume più significativo (A. Giannotti, G. De Astis, Il diseguale, Roma, Borla, 1989) appare quanto mai necessario riconsiderare il ruolo che egli ha svolto nei più diversi settori, dalla psicoanalisi dei bambini a quella degli adulti. A tale scopo ci è sembrato opportuno proporre la realizzazione di un volume a più voci, per mettere a fuoco da diverse angolazioni la poliedrica personalità di un uomo che ha svolto, con inflessibile discrezione, compiti impegnativi e difficili in campi disparati, promuovendo di continuo progetti originali e coordinando gruppi di ricerca e di lavoro pionieristici in ambito psicoterapeutico. Il suo carattere schivo, la sua innata sobrietà e la sua capacità non comune di lavorare sempre insieme agli altri, dissimulandosi nel lavoro collettivo, hanno forse reso difficile mettere in evidenza l’impulso individuale che egli ha dato a iniziative di notevole importanza per la psicoanalisi italiana, condotte insieme a famosi psicoanalisti e personalmente caldeggiate e sostenute, come la creazione del Corso di psicoterapia psicoanalitica del bambino dell’adolescente e della coppia, la direzione della collana Orizzonti di Psicoanalisi presso l’editore Borla, la presidenza dell’AIPSI, la fondazione della rivista Richard e Piggle. Uomo di frontiera, capace di armonizzare modelli psicoanalitici di diversa ispirazione, traendo il meglio da ciascuno pur rispettandone le differenze, Giannotti si è mosso sempre con equilibrio, navigando con calma in mezzo a contrasti e difficoltà di ogni tipo.

    Il volume che proponiamo per ricordare il prof. Giannotti è una prima iniziativa che auspichiamo sia seguita da molte altre. Per inaugurare questa serie di progetti e di pubblicazioni ci è sembrato opportuno rivolgersi a chi ha conosciuto da vicino lo psicoanalista romano, i suoi più stretti collaboratori, gli allievi o quei colleghi che hanno avuto rapporti professionali significativi, chiedendo loro di partecipare liberamente al volume, con saggi e testimonianze di varia natura. Una simile scelta, dettata da motivi di spazio e di opportunità, non permette evidentemente di includere numerosissimi altri interventi che avrebbero pieno diritto ad essere pubblicati. Questo limite, che riconosciamo, deve servire da stimolo a tutti per intraprendere altre iniziative di tenore analogo, che prevedano una partecipazione più numerosa ed organica e lo sviluppo più approfondito di temi particolarmente cari al prof. Giannotti e di spunti che meritano di essere ampliati. Il nostro è solo un inizio. il volume che pubblichiamo non ha dunque un carattere definitivo e conclusivo: ambizione eccessiva, considerata la varietà degli interessi e delle attività di un uomo dall’energia inesauribile. Esso è solo un primo contributo, certamente parziale, per rievocare l’opera e la figura stessa di uno psicoanalista creativo, che ha lasciato un’impronta della sua personalità in molti campi e che ancora oggi fa riflettere. Per stimolare tale riflessione ci è sembrato utile ripubblicare qualche saggio significativo scritto dal prof. Giannotti, da solo o, com’era suo costume, insieme ad altri, cercando di fornire qualche esempio della sua produzione. Anche in questo caso la scelta non ha e non può avere carattere esaustivo e rappresenta solo una prima tappa per agevolare il cammino nella direzione proposta. Il lettore che volesse approfondire la conoscenza della produzione scientifica del prof. Giannotti può soddisfare la sua curiosità utilizzando la bibliografia dei suoi scritti, suddivisi tematicamente, pubblicata alla fine del volume.

    Virginia Giannotti

    Matteo De Simone

    Fabio Troncarelli

    ​Fabio Troncarelli, Il filo di Arianna. Adriano Giannotti nel labirinto delle malattie mentali

    Il labirinto come figura mitica sta alla base

    di ogni ricerca e come tale si presta a descrivere

    percorsi che spesso si mostrano chiusi

    o si aprono improvvisamente, che lasciano sperare

    o deludono ma che comunque vale sempre la pena di tentare.

    A. Giannotti-A. De Astis, Il diseguale, p. 6

    Interrogarsi oggi sulla figura e sull’opera di Adriano Giannotti significa porsi domande sul suo ruolo nell’ambito dello sviluppo complessivo della psicoanalisi italiana di orientamento freudiano. La storia della diffusione in Italia delle idee e dei metodi scoperti da Freud è stata complessa e singolare. Non è questa la sede per ripercorrerne le diverse fasi, più volte rievocate da saggi e volumi dedicati all’argomento[1]. Ci limiteremo a ricapitolare per sommi capi vicende ben note, sottolineando gli aspetti pertinenti al tema che cerchiamo di affrontare.

    L’avvenire di un’illusione

    La psicoanalisi freudiana si diffuse in Italia a partire dal primo decennio del Novecento, grazie a una serie di traduzioni e di articoli di diversi studiosi, tra cui spiccano i nomi di due combattivi psichiatri: Marco Levi Bianchini (1875-1961), direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Teramo ed Edoardo Weiss (1899-1971) che era stato in analisi con Federn ed era costantemente in contatto con Freud. La Società Psicoanalitica Italiana fu fondata a Teramo da Marco Levi Bianchini il 7 giugno 1925, insieme a Weiss e un piccolo gruppo di psichiatri sparsi nel territorio italiano come Alberto Rezza, Giovanni Dalma, Egisto De Nigris, Leonardo Claps, Raffaele Vitolo, ma non ebbe una vera attività. Allo stesso anno risale la presentazione ufficiale della psicoanalisi al mondo accademico italiano, durante il XVII Congresso della Società Freniatrica a Trieste: il compito di tracciare un’organica esposizione dei principi basilari della psicoanalisi fu svolto dallo psichiatra triestino Edoardo Weiss. La sua relazione, intitolata Psichiatria e psicoanalisi, si rivolgeva ai principali esponenti della psichiatria dell’epoca, incuriositi nei confronti della nuova disciplina. L’ accoglienza nei confronti di Weiss fu molto fredda: il convegno era stato organizzato da un celebre psichiatra, Enrico Morselli (1852-1929), profondamente ostile alla psicoanalisi e la sua ostilità era condivisa da molti dei suoi colleghi. Assolto il dovere d’ufficio di ascoltare l’apostolo di una nuova disciplina, il mondo accademico voltò clamorosamente le spalle al nuovo, seguendo l’esempio dello stesso Morselli, che pubblicò nel 1926, in gran fretta, subito dopo il congresso, una decisa confutazione della psicoanalisi[2], con il chiaro intento di liquidare una volta per tutte una questione cui era stato riservato fin troppo spazio. Del resto, oltre alla psicoanalisi, fu la psicologia stessa ad essere messa in discussione in quegli anni: nel 1923 essa era stata abolita dalle scuole e dall’università, per opera di un ministero della pubblica istruzione ispirato al fascismo, che riscuoteva un ampio consenso tra la schiera dei professori universitari di educazione positivista più retrivi, ostili a qualunque forma di vero o presunto spiritualismo, così come tra i seguaci dell’idealismo gentiliano, ostili a qualunque manifestazione vera o presunta dello Spirito umano che non fosse l’Atto puro teorizzato dal filosofo di Castelvetrano[3]. La psicologia sopravvisse stentatamente sotto forma di psicologia fisiologica, psicologia sperimentale e psicotecnica, appoggiata indirettamente da parte del mondo cattolico, in particolare dal padre Gemelli, che insegnava psicologia sperimentale all’Università cattolica di Milano, anche se non va dimenticato che la cultura cattolica nel suo complesso era naturalmente contraria a una psicologia ispirata dal positivisimo e contrarissima alla psicoanalisi.

    Sempre più isolato, nel 1929 Weiss fu costretto a dimettersi dal Frenocomio triestino in cui lavorava da dieci anni, ma continuò coraggiosamente la sua opera. Weiss ebbe pazienti illustri come il poeta Umberto Saba e l’intellettuale Bobi Bazlen e si creò a Trieste una piccola cerchia di ammiratori. Nel 1931, si trasferì a Roma e riunì intorno a sé un piccolo gruppo di discepoli rifondando ufficialmente il primo ottobre 1932 la Società Psicoanalitica Italiana (SPI). I membri effettivi erano: Ferruccio Banissoni, Giovanni Dalma, Cesare Musatti, Nicola Perrotti, Ettore Rieti, Emilio Servadio, Vanda Weiss. Ad essi si associarono come soci onorari Marco Levi Bianchini e un illustre studioso che aveva mostrato aperta simpatia per la psicoanalisi: Sante De Sanctis. Nel novembre 1933, la Società approvò uno Statuto nel quale venivano fissati i criteri della formazione personale del candidato secondo le direttive dell’IPA (l’International Psychoanalytical Association, fondata da Freud e dai suoi seguaci nel 1910).

    La Società incominciò a pubblicare dal 1932 la Rivista Italiana di Psicoanalisi, che ebbe vita breve. Le riunioni della Società e la pubblicazione della rivista si protrassero fino al 1934, fino a quando il fascismo pose fine ad ogni attività pubblica a carattere psicoanalitico. Nello stesso anno, tuttavia, poco prima di quest’infausto evento la Società Psicoanalitica Italiana era stata accettata dall’ IPA.

    Nonostante le restrizioni la psicoanalisi italiana non cessò del tutto. I membri della Società continuarono, in modo saltuario, ad operare sul piano privato, ottenendo qualche risultato: a qualcuno di loro, come ad esempio Weiss, toccò addirittura il destino paradossale di curare di nascosto esponenti del regime che vietava in pubblico la psicoanalisi. Nello steso tempo tra 1936 e 1938, le Edizioni Cremonese di Firenze pubblicarono alcune traduzioni italiane di opere di Sigmund Freud, Anna Freud ed Edoardo Weiss. Simili pubblicazioni cessarono dopo la promulgazione delle leggi razziali del 1938, che diedero il colpo di grazia alla Società, poiché molti dei suoi scarsi componenti, a cominciare dallo stesso Weiss, erano di origine ebraica e decisero di emigrare.

    Arrestiamoci per un attimo a questo punto e proviamo a interrogarci sul significato di questi incerti anni. Le prime iniziative degli originali precursori della psicoanalisi in Italia, a cominciare da quelli di Weiss, furono senza dubbio al passo coi tempi e non dissimili, nella sostanza, da quelle dei primi psicoanalisti attivi in altri paesi europei: tuttavia la pesante ostilità della cultura e delle istituzioni pubbliche nei confronti della psicoanalisi e soprattutto l’impossibilità di praticare apertamente la nuova disciplina determinarono, come spesso accade in Italia, una condizione di stallo e di paralisi che congelò le potenzialità trasformative e la vitalità stessa del movimento appena nato.

    Costretti a sopravvivere tra l’incudine e il martello di una censura opprimente e di una clandestinità autoreferenziale, i pochi, coraggiosi ammiratori di Freud furono prigionieri di una difficoltà paradossale, tipica dell’intellettuale italiano: essi furono obbligati a praticare la dissimulazione onesta, nascondendosi sotto la maschera di un Nicodemismo quanto mai incompatibile con i fondamenti stessi del metodo psicoanalitico. Inoltre, i primi psicoanalisti, eccetto Weiss, ebbero una formazione molto limitata: nel migliore dei casi un paio di anni di analisi a tappe forzate con lo stesso Weiss, che aveva contemporaneamente valore di analisi didattica e personale, senza ulteriori possibilità di maturare attraverso seminari o supervisioni e senza contatti con la comunità psicoanalitica europea, a parte gli incontri occasionali durante la rapsodica frequentazione di congressi internazionali.

    La difficoltà di un aggiornamento e di un approfondimento di temi e problemi psicoanalitici, rinchiuse sovente gli psicoanalisti italiani in un ghetto caratterizzato dalla difesa dell’ortodossia freudiana imparata sui libri. I primi discepoli di Freud in Italia, a parte Weiss, ebbero una conoscenza prevalentemente libresca delle dottrine freudiane: ciò contribuì certamente ad arricchire la loro cultura, ma non permise loro di accettare gli aggiornamenti del pensiero freudiano come quelle di Paul Federn, Karl Abraham o Anna Freud, per restare nell’ambito dell’ortodossia freudiana oppure, se vogliamo uscire da questi limiti, con le nuove proposte di personaggi come Sandor Ferenczi e Melanie Klein.

    L’associazione fu rifondata nel 1946 da alcuni dei suoi antichi membri ed ammessa nella Società Internazionale di Psicoanalisi, di cui accettò i principi fondamentali, compresi quelli relativi alla formazione mediante analisi didattica e al training. I primi analisti che ebbero funzioni di didatta furono Cesare Musatti (1897-1989), Emilio Servadio (1904-1994), Nicola Perrotti (1897-1970), Joachim Flescher (1906-1976), direttore della rivista Psicoanalisi che ebbe breve durata tra 1945 e 1946. Flescher emigrò presto negli Stati Uniti lasciando un vuoto spirituale e materiale. La SPI affrontò con impegno una vasta serie di problemi, confrontandosi con la cultura e la società contemporanee. Nello stesso tempo furono organizzati seminari di formazione degli scarsi ma combattivi aspiranti analisti della Società (nel 1950 c’erano nove candidati per il training). I pochi membri di diritto della Società si impegnarono in tutti i modi per allargare la sfera di influenza della psicoanalisi e per migliorare la formazione dei futuri analisti che crebbero considerevolmente di numero in pochi anni: se nel 1954 i membri ordinari della SPI erano 14, nel 1974 il loro numero era triplicato, così come era cresciuto notevolmente il numero degli associati (66) e dei candidati (108). Per coadiuvare la formazione dei giovani analisti furono costituiti tre istituti di training: il centro psicoanalitico di Roma, il centro di Psicoanalisi Romano e il Centro Milanese di psicoanalisi.

    Grazie all’influsso di personalità carismatiche come Perrotti, Musatti e Servadio, autori di testi brillanti a carattere psicoanalitico ed attivi in molti campi della cultura oltre che all’interno della Società psicoanalitica, la psicoanalisi riuscì a penetrare nella società e ad influenzare la cultura italiana, che nel passato era stata così riluttante ad accettarne i risultati e il metodo. Ma questo successo non deve farci dimenticare la dimensione parzialmente anacronistica del fenomeno. La psicoanalisi si affermava pienamente in Italia cinquanta anni dopo il resto dell’Europa e gli Stati Uniti e non aveva più il carattere dirompente, sul piano culturale, che aveva avuto all’inizio del secolo. D’altro canto, la divulgazione di Freud da parte degli psicoanalisti e la curiosità per Freud da parte di scrittori ed artisti erano già avvenute, sia pur in modo estremamente limitato, negli anni che avevano preceduto e seguito l’avvento del fascismo (basti pensare al caso di Saba e di Svevo): di conseguenza, la rivisitazione delle teorie freudiane del dopoguerra nella cultura e nell’arte (si pensi solo per fare un esempio ad autori come Berto o Moravia) era soprattutto uno sviluppo di temi già noti, anche se occultati e repressi, piuttosto che una novità in senso assoluto.

    La rinata Società di Psicoanalisi rimase attaccata per molti anni ai meccanismi claustrofilici che l’avevano caratterizzata sin dalle origini. Un aspetto tipico di tale mentalità fu la diffidenza nei confronti di qualunque impegno nelle istituzioni pubbliche. L’idea guida della prima e anche della seconda generazione dei componenti della nuova Società Psicoanalitica Italiana era questa: non è possibile praticare in modo adeguato la psicoanalisi se si lavora in istituzioni pubbliche, dall’università all’ospedale. Per questa ragione alcuni esponenti di spicco delle nuove generazioni, come ad esempio Eugenio Gaddini (1916-1985), preferirono lasciare posti di lavoro in ospedale, nei quali svolgevano con competenza la professione di medico, piuttosto che compromettere l’impegno in campo psicoanalitico[4]. Inutile dire che un simile atteggiamento impediva di arricchire l’esperienza stessa dell’analista, costretto a lavorare solo all’interno del proprio studio; che impediva di allargare la sfera di influenza della psicoanalisi stessa all’interno di campi nuovi; e soprattutto che volgeva le spalle a un dibattito internazionale sui rapporti, controversi ma fecondi, tra psicoanalisi e istituzioni, che era cominciato con Freud stesso e che si era sviluppato con passione soprattutto negli Stati Uniti.

    Tradizione e talento individuale

    Molti altri giovani, in diverse parti d’Italia, trovarono all’estero stimoli che arricchirono la loro esperienza. Alcuni, come ad esempio Fornari, Gaddini, Traversa, Muratori, Lussana svilupparono tali stimoli in senso teorico, approfondendo la riflessione su autori fino a quel momento poco noti, come la Klein, Winnicott, Bion e guadagnandosi una posizione di relativa indipendenza all’interno del conflittuale microcosmo della SPI[5]. Altri, come la Balconi, la Minervini, Bollea, unirono teoria e prassi alla ricerca di nuove possibilità di applicazioni terapeutiche della psicoanalisi, che estendeva così i suoi confini tradizionali al di là dei limiti stabiliti da Freud.

    Il lavoro del primo gruppo di psicoanalisti, autori di saggi di notevole spessore culturale, è stato studiato ed analizzato in diverse occasioni ed è sostanzialmente noto. Molto meno noto, invece, se non addirittura ostentatamente sottovalutato è il lavoro svolto dai giovani operatori che ricordavamo all’inizio, i quali, ispirandosi al modello psicoanalitico, cercavano di operare in ambiti diversi da quelli previsti dalla psicoanalisi classica; così come del resto è poco studiata, se non addirittura fraintesa e malvista, la tradizione scientifica che era alle spalle di simili scelte. Ed a torto.

    Questa tradizione, che aveva avuto ed aveva il suo epicentro a Roma (ma aveva avuto ed aveva anche importanti manifestazioni altrove, come ad esempio a Genova, Torino, Milano, Trieste) era né più né meno quella dell’ala più innovativa e radicale della psichiatria italiana del novecento. In apparenza si potrebbe pensare che la psichiatria italiana non abbia avuto un ruolo importante. Nella storiografia questa disciplina non gode di una buona fama. Come ha scritto Paolo Migone: "Si può dire che la psichiatria italiana storicamente abbia avuto una identità debole, che per certi versi l’ha costretta a dipendere da culture psichiatriche straniere (a grandi linee, la psichiatria tedesca in un primo periodo, poi quella nordamericana in un secondo momento) e a subire ripetute oscillazioni, o mode, in maniera abbastanza marcata se paragonata ad altri paesi. Queste oscillazioni, spesso accettate con la stessa rapidità e assenza di critica con cui sono state poi abbandonate, sono appunto rivelatrici di questa identità debole, che si è manifestata anche nella cultura clinica.

    La psichiatria italiana si è trovata a crescere in quella che si può chiamare una assenza di tradizione. Infatti una prestigiosa tradizione psichiatrica italiana che in un certo qual modo era emersa ai primi del ‘900 fu presto interrotta, per prendere una direzione prevalentemente neurologica ed organicista. La neurologia rappresentava la vera identità della disciplina, mentre la psichiatria veniva considerata una seconda scelta rispetto alla neurologia, tanto che coloro che andavano a dirigere gli ospedali psichiatrici spesso erano coloro che avevano fallito nella carriera neurologica. Le ragioni per cui la psichiatria perse rilevanza nei confronti della neurologia sono probabilmente attribuibili ai progressi scientifici che in quegli anni avevano caratterizzato la neurologia, conferendole maggiormente il prestigio di una disciplina scientifica ricca di prospettive e di possibili sviluppi. La psichiatria dunque, soffocata dai progressi della neurologia, non fece in tempo a radicarsi e a declinarsi pienamente in scuole e in una tradizione universitaria[6]".

    È senza dubbio vero che le tendenze conservative e moderate del positivismo italiano frenarono lo sviluppo dello studio della psiche e contribuirono a insabbiare lo slancio evolutivo delle discipline psichiatriche, con la conseguenza, indiretta ma coerente, di frenare anche le possibili, feconde contaminazioni tra psichiatria e la psicoanalisi: basti pensare al caso di Weiss, costretto a dimettersi dall’ospedale in cui operava oppure al ruolo esercitato da Enrico Morselli, il principale avversario della psicoanalisi, che si proclamava allievo di Cesare Lombroso (1835 - 1909) ma da Lombroso riprendeva soprattutto la dimensione più caduca e reazionaria, l’ossessione classificatoria, la grettezza del materialismo organicistico, piuttosto che lo spirito di ricerca scientifica della tradizione positivistica, antidogmatico per natura ed aperto programmaticamente ai risultati delle indagini nuove.

    Tuttavia, a dire la verità, il destino della psichiatria italiana fu meno triste di ciò che potremmo credere, poiché una parte non trascurabile della prestigiosa tradizione emersa ai primi del ‘ 900 riuscì a sopravvivere, nonostante tutto, grazie all’attività indefessa di alcuni grandi scienziati[7]. Di ciò è ben consapevole Migone stesso che ha giustamente sottolineato l’importanza della scuola romana di psichiatria, a cominciare dal suo fondatore Sante de Sanctis (1862-1935), autore di scoperte di grande importanza : Nel 1905 Sante de Sanctis in Italia definì il concetto di schizofrenia precocissima, poi chiamata anche schizofrenia infantile, seguito un anno dopo dal pedagogista austriaco Heller (demenza infantile di Heller) e dal tedesco Weygandt (1870-1939), che, seguendo l’impostazione kraepeliniana e adattandola all’età infantile, anch’egli individuò un tipo di demenza" nell’infanzia. I contributi italiani di inizio secolo erano all’avanguardia e i ricercatori si raccoglievano attorno alla prestigiosa rivista Infanzia Anormale[8], fondata a Roma nel 1907[9]". A dispetto della sua autorità sul piano internazionale, De Sanctis fu avversato dal mondo accademico dei primi del secolo e fu isolato e ostacolato in ogni modo in seguito sotto il fascismo, che aveva avversato sin dalle origini. Ciò nonostante, De Sanctis insegnò a Roma con piglio e intelligenza per più di trent’anni Psicologia e in seguito Clinica delle Malattie Nervose e Mentali, intervenendo a più riprese nell’organizzazione dell’assistenza ospedaliera della Clinica Universitaria (all’interno della quale creò un reparto di Neuropsichiatria infantile ) e formando generazioni di giovani e brillanti studiosi impegnati a sperimentare nuove forme di assistenza psicopedagogica, a cominciare dalla celeberrima Maria Montessori (1870-1952). Al suo fianco fu Giuseppe Montesano (1868-1951), che dopo un periodo di titubanza si schierò a favore della psicoanalisi, collaborando attivamente negli anni cinquanta con Levi Bianchini negli Annali di Neuropsichiatria e Psicoanalisi.

    I frutti di queste collaborazioni furono notevoli ed aprirono nuove strade alla ricerca neuropsichiatrica. Come ha scritto Paolo Migone: "Si può dire che in Italia i pionieri della psichiatria infantile siano stati Sante De Sanctis, Giuseppe F. Montesano e Maria Montessori, che diedero alla disciplina una doppia anima psichiatrica e pedagogica. È di Sante De Sanctis, a cui si è accennato per aver identificato la schizofrenia infantile già nel 1905, il volume Neuropsichiatria infantile del 1925, tra i primi trattati a livello internazionale; fu tra i maggiori sostenitori della individualità clinica della psichiatria infantile e del suo affrancamento dalla psichiatria adulta. Giuseppe Montesano, a differenza di De Sanctis, approfondì maggiormente l’aspetto psicopedagogico, cercando di sistematizzare scientificamente l’allora confuso campo delle oligofrenie e aprendo la prima classe differenziale a Roma nel 1909; nel 1911 Montesano fonda L’assistenza dei Minorenni Anormali, una rivista di pedagogia speciale. Maria Montessori, famosa per il metodo pedagogico che porta il suo nome, alla fine dell’Ottocento formulò inizialmente questo metodo per gli insufficienti mentali, prima che venisse esteso alla pedagogia generale".

    Non è strano se all’interno di questi orientamenti germinasse, spontaneamente, la pianta della psicoanalisi. Un illustre cattedratico come De Sanctis, rotto a tutte le avversità, forte dell’autorevolezza della sua posizione accademica, confortata da una brillante carriera di scoperte, scrisse testi di carattere psichiatrico nei quali, in un modo o nell’altro, alla psicoanalisi era assegnato un ruolo. Incoraggiò, inoltre, allievi e collaboratori come Banissoni (amico e sostenitore di Weiss) a sviluppare interessi psicoanalitici e a verificare le possibilità di applicazione del metodo psicoanalitico in ambito psichiatrico. Un simile atteggiamento non era dissimile, nella sostanza, da quello che avevano avuto Levi Bianchini e Weiss (che non a caso ebbero rapporti non occasionali con De Sanctis), anche se a differenza dei pionieri della psicoanalisi italiana, l’apertura nei confronti delle teorie di Freud era più moderata e riservata negli accenti. Sarebbe comunque un grossolano errore scambiare, come fa il David[10], questa moderazione e questa discrezione per insufficienza di informazione e di pathos: passione e cultura i neuropsichiatri italiani ne avevano da vendere; ma non potevano riservarle solo alle teorie di Freud, impegnati com’erano su ogni fronte per sviluppare la gloriosa tradizione positivista entro la quale si erano formati, per la quale si erano affermati e contro la quale tanti nemici operavano. La visione generale dell’essere umano dei personaggi come Sante De Sanctis era ispirata da un profondo slancio, di matrice liberale e democratica, a favore dei poveri, degli umili, dei diseredati: a favore della infanzia anormale, come De Sanctis stesso aveva intitolato la sua celebre rivista, cui si è già accennato; ma anche dei disadattati, dei presunti criminali, dei poveri di Spirito che hanno fame e sete di giustizia e che attendono sempre invano di essere riconsolati[11]. Questa mentalità aperta e questa attenzione verso problemi psicologici e sociali che altri studiosi giudicavano irrisolvibili, contraddistinse sin dagli inizi del secolo l’insegnamento della Psicologia e della Psichiatria a Roma e la sua pratica ospedaliera. De Sanctis creò una tradizione di rigore e coerenza nell’innovazione, che ispirò i suoi successori ed i suoi allievi. All’interno di questa tradizione la psicoanalisi aveva un ruolo, una funzione specifica che non poteva essere intaccata da nessuna censura istituzionale e che sopravvisse alla fine della società liberale ed all’avvento del fascismo. Senza dubbio la mentalità di De Sanctis era ispirata dal più puro positivismo e non può essere identificata con quella di Freud. E tuttavia De Sanctis aveva scritto un trattato sui sogni elogiato da Freud, con cui fu in corrispondenza e con cui intrattenne anche sul piano culturale un dialogo a distanza. De Sanctis non si occupò direttamente di psicoanalisi: tuttavia operò in modo che tale disciplina facesse parte della paideia dei suoi allievi e mostrò una curiosità attenta per i problemi della psiche degna di un compagno di strada degli psicoanalisti, che non a caso lo elessero presidente onorario della SPI al momento della sua costituzione nel 1932. Come scrisse sulla rivista Psicoanalisi lo psicoanalista Claudio Modigliani: De Sanctis fu psicologo e psichiatra ed alla psichiatria infuse l’alito fecondatore della psicologia dimostrando che per divenire buon psichiatra bisogna essere ottimo psicologo[12].

    Dopo la morte di De Sanctis nel 1935, fu chiamato a Roma a sostituirlo e a dirigere contemporaneamente la Clinica universitaria uno studioso che proveniva da rigorosi studi in campo psichiatrico ed aveva una personalità scientifica di prim’ordine: l’estroso Ugo Cerletti (1877-1963) che aveva studiato con Kraepelin e con Alzheimer ed aveva una lunga carriera universitaria costellata di solide pubblicazioni scientifiche[13]. Tra le sue numerose scoperte Cerletti vanta il merito dell’invenzione dell’elettroshock, concepito a Genova ma perfezionato e sperimentato per la prima volta proprio a Roma: un metodo che oggi viene visto con sfavore da molti, ma che all’epoca sembrò un mezzo rivoluzionario per aiutare i malati gravi. Cerletti si sentì sempre erede di De Sanctis ed intese continuarne l’opera[14]. Come il suo predecessore, apprezzava con entusiasmo i collaboratori innovativi ed originali, circondandosi di ingegni brillanti: molti di loro divennero psicoanalisti famosi sul piano internazionale, come Joachim Flescher, Renato Almansi, Arnaldo Novelletto, Adriano Ossicini e last but not least Amedeo Limentani (che non poté approfittare del rapporto con l’illustre cattedratico perché costretto a emigrare precocemente); altri, come il già ricordato Giovanni Bollea, ebbero un ruolo di spicco nell’applicazione dei metodi psicoanalitici in nuovi contesti. Simili sviluppi non erano casuali: Cerletti aveva un grande interesse per i problemi neurologici e psicologici ed affidava ai suoi collaboratori, più liberi di lui dai vincoli accademici e più giovani, il compito di esplorare i territori della psiche scoperti da Freud, così ostici alla mentalità scientifica italiana. Come ricorda, con commossa partecipazione, Flescher nella rivista Psicoanalisi, Cerletti gli affidò il compito di scrivere un compendio di teorie psicoanalitiche per i suoi studenti e fu il primo in Italia ad includere nel compendio delle sue lezioni...un intero capitolo sulla psicoanalisi[15]. Cerletti affidò proprio a Flescher il compito di verificare quali potessero essere gli effetti psicologici dell’elettroshock[16], preoccupato, con genuino spirito scientifico, delle ricadute negative di un’invenzione che pure gli procurava un grande successo. Curiosità non dissimili e interessi dello stesso tipo nutrì anche il successore di Cerletti, il torinese Mario Gozzano (1898-1986), che aveva studiato in Austria con Otto Marburg e Oskar Vogt ed aveva una ricca esperienza teorica e pratica. Gozzano si occupò di neuropsicologia, in particolare nei bambini, e delle patologie degenerative a carico del sistema nervoso fu inoltre uno dei pionieri in Italia dell’uso dell’elettroencefalografia come strumento diagnostico[17]. Giunto a Roma si inserì nel solco della tradizione di De Sanctis e Cerletti e permise alla tradizione scientifica inaugurata da De Sanctis di continuare, favorendo la nomina di Giovanni Bollea nella cattedra di Neuropsichiatria infantile nel 1960. Quest’iniziativa non era altro che la logica conclusione del processo di sviluppo della scuola romana di psichiatria nel dopoguerra.

    Citiamo a questo proposito ancora una volta un autore informato, equilibrato e puntuale come Paolo Migone, che scrive: "Dalla metà degli anni Trenta la psichiatria infantile in Italia subisce una battuta d’arresto, per poi riprendersi alla fine della seconda guerra mondiale. Nuove patologie infantili, anche dovute ai danni della guerra, si presentano all’attenzione, quali soprattutto le paralisi cerebrali infantili e le patologie del carattere. Gradualmente si nota l’innesto, sulla precedente tradizione culturale prevalentemente organicista, di nuovi modelli teorici provenienti dall’estero, basati sull’attenzione alla psicodinamica familiare, sull’uso di reattivi mentali o test proiettivi, sull’intervento sull’ambiente. In particolare all’inizio è molto sentita l’influenza svizzera: nel 1946 la Centrale Italo-Svizzera di Assistenza Sanitaria (CIAS) organizza un convegno a Milano con la partecipazione di Minkowski, Piaget e Rey; e pochi mesi dopo vi è il 1° Convegno Internazionale della Semaine Internationale d’Etudes pour l’Enfance de la Guerre (SEPEG) svizzera a Losanna, a cui parteciparono sei italiani (M. Berrini, G. Bollea, C. Busnelli, M.A. Manacorda, M. Tommolini, M. Venturini), ricevendo enormi stimoli dai colleghi di dodici paesi europei presenti. Un anno dopo, nel 1947, Bollea e Venturini organizzarono a Roma un convegno nazionale della SEPEG, dove si discusse la struttura dei Centri Medico-Psico-Pedagogici (CMPP), e l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia (ONMI) si impegnò a crearli in Italia. Nel 1947 sorgono infatti i primi due CMPP a Milano (con Porta e la Berrini) e a Roma (con Bollea, che chiamò a collaborare Bartoleschi, Ossicini, e Traversa); in un decennio diventeranno più di 200. Questi centri sono tipicamente caratterizzati dal lavoro in équipe (in genere costituite da un neuropsichiatra, uno psicologo, una assistente sociale, e/o un insegnante). Sempre nel 1947 Di Tullio fonda l’Ente Morale per il Fanciullo, con lo scopo di assistere il giovane delinquente. Nel 1948 Bollea e Venturini sollecitano la fondazione della Società Italiana per l’Assistenza Medico-Pedagogica ai Minorati fisici e psichici dell’Età evolutiva (SIAME), con Montesano come presidente e la M. Rovigatti come segretaria generale, che organizzerà vari congressi negli anni seguenti (Milano, Salerno, Napoli, Torino, Roma). Sempre nel 1948, nel Congresso di Venezia della Società Italiana di Psichiatria (SIP), viene fondato il Comitato Italiano di Psichiatria Infantile, con Carlo De Sanctis come presidente e Bollea come segretario generale. In quegli anni viene anche affrontato il problema della rieducazione psicomotoria della paralisi cerebrale infantile e nel 1954 i gruppi di Crema, Milano e Roma riescono a far approvare la legge sugli spastici. Nel 1956 si celebra in Italia un congresso della Società Italiana di Igiene Mentale, intitolato Irregolarità della condotta, che era praticamente un congresso nazionale di psichiatria infantile. Nel 1958 si ha il primo riconoscimento internazionale: Bollea a Lisbona viene eletto vicepresidente dell’Associazione Internazionale di Psichiatria Infantile. Due anni dopo, nel 1960, viene eletto anche presidente del Comitato Europeo di Psichiatria Infantile.

    Nel 1953 riprende la pubblicazione di Infanzia Anormale che rappresentò un po’ una palestra e un importante momento di incontro degli psichiatri infantili del tempo. Questa prestigiosa rivista, come si è accennato prima, era stata fondata nel 1907, i primi direttori furono Sante De Sanctis e Eugenio Medea, e tra i collaboratori figuravano Corberi, Albertini, Vergani, Vidoni, Tacconi, Ciampi. Già circolava da alcuni anni col nome di Bollettino dell’Associazione Romana per la cura medico-pedagogica dei fanciulli anormali e deficienti poveri, e fu preceduta dalla pubblicazione di alcuni numeri della rivista Ortofrenia da parte di Gonelli Cioni nel 1894, cui seguì L’educazione dei frenastenici pubblicata da F. Ferreri nel 1901. Infanzia Anormale fu sospesa nel 1930 e riprese le pubblicazioni nel 1953, dopo 21 anni: nel 1950 infatti il Comitato Italiano di Psichiatria Infantile della SIP aveva iniziato la pubblicazione, all’interno del Lavoro Neuropsichiatrico, della Rassegna di Neuropsicopatologia e Igiene Mentale Infantile, e l’interesse suscitato da questa iniziativa aveva reso necessario fondare una rivista autonoma, per cui si decise di riattivare Infanzia Anormale; nonostante si riconoscesse che il nome della rivista non fosse più attuale, si decise di mantenerlo per rispetto verso la tradizione, ma nel 1969 divenne Neuropsichiatria Infantile e nel 1984 prese definitivamente il nome, più appropriato e preciso, di Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza.

    Nel 1956 si assegnano libere docenze in Neuropsichiatria Infantile, e negli anni dal 1957 al 1963 a Roma, Genova e Pisa si formano le prime scuole di specializzazione universitarie, tra le quali spicca quella di Roma, una delle più prestigiose, diretta da Giovanni Bollea, che si può considerare il vero padre della moderna psichiatria infantile in Italia".

    Stephen hero

    Non fu solo Roma a contribuire allo sviluppo di discipline come la neuropsichiatria infantile e la psichiatria, favorendo indirettamente il radicamento di teorie psicoanalitiche nella tradizione medico-scientifica italiana: in molte altre città italiane, si manifestarono infatti, fino agli anni trenta orientamenti analoghi a quelli della scuola romana in sintonia con lo sviluppo complessivo della psichiatria italiana, che vantava sin dall’Ottocento posizioni d’avanguardia in Europa. Non è questa la sede per analizzare dettagliatamente il ruolo di singole istituzioni e singoli personaggi: in accordo con le nostre premesse, ci limiteremo per illuminare meglio il tema che abbiamo prescelto a soffermarci su una sola città, Genova. Il capoluogo ligure, in cui insegnarono Lombroso e Morselli, fu senza dubbio un bastione di resistenza alla psicoanalisi. Eppure, come sempre accade nelle situazioni più proibitive, all’interno del chiuso e compatto conservatorismo vetero-positivista dell’Università genovese nacquero germi di opposizione al materialismo imperante, che alimentarono un’insospettata e precocissima passione per la psicoanalisi. Sin dal 1907, si formò un piccolo gruppo di psichiatri, che gravitava intorno al dottor Terravagni, che mostrarono aperte simpatie nei confronti di Freud, al punto da tradurre e discutere collettivamente il suo saggio sulla Gradiva di Jensen. Il gruppo fu particolarmente attivo nel nuovo Ospedale psichiatrico di Cogoleto[18] e i suoi componenti ebbero per primi in Italia l’idea di fondare una società psicoanalitica, un progetto che poi non andò in porto.

    Tra gli ammiratori di Freud a Genova si distingueva un giovane assistente dell’Ospedale di Cogoleto, in rapporto con Levi Bianchini, che ritroveremo nel 1932 tra i soci fondatori della Società Psicoanalitica Italiana: Ettore Rieti. Lo psichiatra andò in America a causa delle persecuzioni razziali e negli anni 50 fu a capo dei servizi di neuropsichiatria infantile dello Stato di New York con il nome di Hector Ritey, lo stesso che usò abitualmente nelle numerose pubblicazioni di psicoanalisi che poi scrisse.

    Fino a quando fu vivo Morselli non ci fu spazio per le aspirazioni dei seguaci di Freud. Ma dopo la sua morte, nel 1926, le cose cambiarono. Al posto di Morselli fu scelto Ugo Cerletti, che più tardi sostituirà De Sanctis a Roma. Lo studioso mutò radicalmente l’orientamento della psichiatria a Genova, con una serie di iniziative che culminarono nell’invenzione della prima rudimentale macchina per l’elettroshock, i cui effetti, ancora poco controllabili, vennero provati su un cane. A sostituire Cerletti nel 1935 fu chiamato Leonardo De Lisi (1885-1957), un brillante neurologo che seppe superare i limiti angusti del positivismo più piatto, con aperture intellettuali anticonformiste e uno spicccato interesse per l’arte e le manifestazioni più inconsuete dell’ingegno umano. Amico di De Chirico e di molti artisti italiani, De Lisi creò una cerchia di discepoli che coltivavano interessi ben diversi da quelli degli epigoni di Morselli. Uno di loro divenne più tardi un importante psicoanalista: Stefano Fajrajzen.

    L’influenza di questo fine intellettuale sulla psicoanalisi italiana è a tutt’oggi misconosciuta ed invece è stata notevolissima.

    Fajrajzen nacque a Lodz, in Polonia, nel 1910. Il padre si chiamava Adolfo ed era nato nato a Lodz da una ricca famiglia ebrea, completamente laica, che si occupava del commercio del legno. La madre si chiamava Ewa Kupczyk ed apparteneva ad una ricca famiglia ebrea, anch’essa del tutto laica, che possedeva terre vicino a Cracovia, circostanza del tutto inusuale perché ciò era vietato agli ebrei[19]. Nel 1913 Adolfo, che aveva ormai due figli (Stefano ed Alessandro, che più tardi fece una brillante carriera nel teatro col nome di Alessandro Fersen), fu inviato a Genova per occuparsi della spedizione del legno che arrivava per mezzo di treni e doveva essere inviato su navi verso paesi d’oltre mare. I due fratelli Fajrajzen parlavano in polacco con i genitori, mentre tra di loro parlavano in italiano: passavano spesso l’estate presso i parenti della madre a Cracovia e talvolta presso quelli del padre a Lodz. Quando Stefano ebbe tredici anni, cioè l’età della maggiorità religiosa, il Bar Mizvà, i genitori rivelarono ai figli che erano ebrei. La scoperta non provocò apparenti conseguenze, anche se verosimilmente fu vissuta come un elemento di sconcerto e di squilibrio al senso di un’identità, già sentita come precaria.

    Taciturno e riservato, Fajrajzen crebbe in un ambiente culturalmente ricco e stimolante, leggendo appassionatamente Nietzche e Darwin[20]. Si iscrisse alla facoltà di medicina e seguì con interesse le lezioni di Cerletti e De Lisi. L’interesse per la psichiatria e la neurologia lo portarono inevitabilmente a leggere in francese i testi di un autore come Freud, che aveva aperto nuove frontiere allo studio della mente e come lui proveniva dall’intellighentsia ebraica mitteleuropea. Fu un colpo di fulmine che cambiò la sua vita, ispirandogli una decisione originale e coraggiosa: iniziò a studiare accanitamente il tedesco per poter fare un’analisi a Vienna. Il progetto poté realizzarsi nel 1934: il giovane studente in medicina si trasferì a Vienna, incontrò Paul Federn e fu da lui indirizzato ad una sua allieva, l’ungherese Rosa Walk (1893-1942), che pochi anni dopo sarebbe morta in Francia assassinata dalla Gestapo[21]. L’analisi con la Walk durò sei mesi, al ritmo di una seduta al giorno per sei giorni. Terminato questo ciclo, Farajzen tornò a Genova e riprese gli studi: nel 1937 si laureò in Psichiatria con De Lisi con una ponderosa tesi di 890 pagine sui problemi neurologici e psicologi posti dall’astinenza sessuale e dalla sessualità nel suo complesso. Negli stessi anni lesse con interesse molti testi di psicoanalisi, non solo quelli ortodossi dei seguaci più fedeli a Freud, come Otto Rank (1884-1939) e Karl Abraham (1877-1925), ma anche i testi di eretici, come Sandor Ferenczi (1873-1933), Wilhelm Reich (1897-1957) e Wilhelm Stekel (1868-1940)[22]. Benvoluto da De Lisi, Fajrajzen trascorse un anno di internato nella Clinica delle malattie nervosi e mentali della Università di Genova, avviandosi ad una brillante carriera universitaria: ma nel 1938 il suo destino ebbe una brusca svolta per effetto delle leggi razziali[23]. Costretto ad abbandonare l’ospedale e l’università, Fajrajzen emigrò in Svizzera e da lì si recò a Londra, con una lettera di presentazione per Ernst Jones scritta da Levi Bianchini, che era in contatto con De Lisi[24]. L’inserimento nella capitale britannica per un italiano che non sapeva bene l’inglese non fu facile[25], anche se la cordiale accoglienza di Jones e di Glover permise all’esule di partecipare alle attività dell’Istituto di Psicoanalisi, nel quale pullulavano gli psicoanalisti viennesi emigrati insieme a Freud. Con uno dei suoi più fidati collaboratori, il polacco Edward Bibring (1894-1959), che era stato analizzato da Federn, il giovane Fajrajzen iniziò una nuova analisi, facilitata dalla circostanza di potersi liberamente esprimere nella sua lingua madre[26]. La terapia durò due anni, ma fu bruscamente interrotta per cause belliche: come altri cittadini italiani che risiedevano in Inghilterra, Fajrajzen fu internato nel 1940, con l’entrata in guerra dell’Italia. La sua destinazione fu il campo di concentramento dell’Isola di Man, dove conobbe Amedeo Limentani, un giovane che aveva un curriculum simile al suo ed era destinato a divenire un brillante psicoanalista.

    Tornato a Londra dopo un anno di internamento, Fajrajzen ebbe l’amara sorpresa di non ritrovare il suo analista, emigrato negli Stati Uniti. Costretto a cercarsi un lavoro, riuscì ad avere un posto in un ospedale pediatrico grazie a Ernest Jones: deciso a guadagnarsi il suo magro stipendio, iniziò a studiare con sistematicità la pediatria e nello stesso tempo cominciò una nuova analisi in lingua italiana con la dottoressa Margaret Ruben, che aveva vissuto diversi anni in Italia ed era sposata a un cittadino italiano[27]. Furono anni oscuri di lavoro duro e di privazioni, in una città continuamente

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