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Stanze
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E-book371 pagine4 ore

Stanze

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Info su questo ebook

Ci sono stanze senza pareti e altre chiuse nella memoria, stanze piene e stanze vuote, stanze affacciate su una piazza, altre su un precipizio, stanze segrete di cui non si sapeva l'esistenza. Questo libro di racconti è un'immaginaria galleria di opere figurative, suddivisa in otto stanze: disegni, schizzi, bozzetti, paesaggi, paesaggi urbani, acquerelli, affreschi, ritratti. E' un'antologia personale costituita da 80 racconti brevi scritti fra il 1990 e il 2023, posti sulla sottile linea di confine tra il reale e l'irreale. Non prende le mosse da fatti vissuti, ma è una collezione di stati d'animo, di atmosfere, una fuga di stanze visitate da personaggi che vi entrano ed escono in punta di piedi: una sconosciuta che si aggira per Milano con la sua valigia degli errori, un professore che non riesce a far lezione quando entra in classe una farfalla, un tizio che bussa alle porte per chiedere alla gente se è felice, una passeggiatrice notturna che sogna il principe azzurro, Dio che dall'alto della sua terrazza non ricorda più perché ha creato la terra, un cimitero dove i defunti organizzano una festa notturna.
LinguaItaliano
Data di uscita27 nov 2023
ISBN9791222703497
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    Anteprima del libro

    Stanze - Raffaele Olivieri

    DISEGNI

    Qualcosa di bianco

    A Felice Casorati

    Un giorno - saranno state le cinque, cinque e mezza del pomeriggio - nella casa del commendator Linetti, e più precisamente dietro la tenda del salotto, comparve qualcosa di bianco. Il commendatore, col suo giornale davanti, fumava la pipa e non si era accorto di nulla. La moglie era uscita per delle compere, i nipotini schiamazzavano nel cortile, le ore scivolavano tranquille come in un qualunque pomeriggio d’inverno.

    A un certo punto notò il piccolo annuvolamento dietro la tenda, opaca foschia simile a quelle che salgono dai fossi di campagna.

    Si alzò dalla poltrona e si avvicinò in punta di piedi.

    Lì per lì pensò di aver visto male (era alquanto miope e portava occhiali spessi, al punto che un giorno diede una manata sul muro scambiando un chiodo per una zanzara).

    Poiché il chiarore non si dileguava, pensò a un ristagno del fumo di pipa.

    Aprì allora la finestra. Niente. La strana miscela gassosa non si spostava di un millimetro.

    Quale fosse la sua natura proprio non si capiva: l’addensamento aveva l’instabilità della nuvola, l’opacità della macchia, ma non era né macchia né nuvola: sembrava piuttosto un vuoto, un’assenza. Ma il fatto più incredibile era che quella macchia bianca aveva il potere di farlo sentire improvvisamente triste: man mano che la guardava ecco che un senso di vuoto si impadroniva di lui, come se lo avessero derubato di qualcosa di importante. Era come un rimpianto sordo, una piccola colpa, una macchiolina che minacciava di allargarsi.

    Decise, almeno per il momento, di non avvicinarsi troppo. Che fosse radioattiva? Prese un cannocchiale e decise di osservare il fenomeno a distanza.

    Dopo qualche minuto si fece coraggio, provò ad allungare una mano. La piccola nube si lasciava attraversare senza scomporsi. Provò ad annusarla: niente. Avvicinò l’orecchio: silenzio assoluto.

    Ci si può trovare di fronte a una presenza, non a un’assenza. L’essere non può non essere. Come è possibile che io mi trovi al cospetto di un’assenza? - pensò il commendator Linetti – Se avesse un colore, un odore o una voce, sarebbe qualcosa che esiste. Se fosse un fantasma mi parlerebbe, mi spaventerebbe, farebbe qualcosa insomma. Questa niente: se ne sta lì con la sua aria acquitrinosa, sospesa a mezz’aria dietro la mia tenda, capace soltanto di trasmetter tristezze. Non dice niente, non ha un pensiero, un’opinione sua: non esiste insomma.

    Prese a perlustrare la zona. Un silenzio tombale lo circondava, non un rumore intorno, non uno scricchiolio di tarlo. I mobili erano al suo posto, tutto sembrava normale, ma aveva la precisa sensazione che quella zona non esistesse. Era come se quel pezzo di pavimento, quella porzione di vetrata non ci fossero mai stati, come se nessun architetto li avesse mai progettati. Si prese la testa fra le mani. Ora era lui a sentirsi improvvisamente vuoto, senza ricordi, come se per tutto quel tempo – sessantatré anni suonati per la precisione - non fosse mai esistito nessun commendator Leonida Linetti, come se fosse tutta una montatura. Ma per ingannare chi? e a quale scopo?

    Distolse lo sguardo. Sciocchezze, si disse. Sorrise e guardò fuori. Tutto era come prima. I bambini giocavano beati, il garzone del lattaio passava con una bottiglia sotto il braccio.

    E se poi quella strana nebbia si fosse ingrandita? Se da quell’angolo si fosse propagata al salotto, dal salotto alla casa, dalla casa a tutto il quartiere?

    Di fronte a un simile scenario si sentì mancare. Sarebbe scoppiato uno scandalo. Era in gioco l’onore della famiglia e la casa non poteva permetterselo.

    Ora è nervoso. Non sa che fare.

    Segue per qualche istante il volo di una mosca, poi con scatto fulmineo la schiaccia con la paletta.

    Trae un respiro, si mette a sedere sulla sua poltrona, la mano sinistra poggiata sul cuore. Devo stare calmo – si ripromette - non devo dire nulla a Letizia né tanto meno ai nipotini.

    A un certo punto avvertì un vociare indistinto che saliva dalla tromba delle scale che s’impennava come un vento forte, una burrasca. La porta si spalancò e i nipotini entrarono di corsa per infilarsi sotto le tende.

    Aggrappato ai braccioli come un naufrago, lì per lì cercò di disporsi tra poltrona e nuvola cercando di nasconderla.

    Che fai, nonno? Sposti la poltrona? chiese il piccolo Luigino, curioso e terribile.

    Io? Ah sì. Provavo a cambiare la disposizione del salotto. Devi sapere che col tempo anche l’occhio si stanca.

    Il commendator Linetti cercava, in altre parole, di controllare la situazione, ma la situazione precipitò. Un drappello compatto di marmocchi avanzava pericolosamente; il gatto, che era entrato nel presepe, portava in giro per casa la beata Vergine come fosse una lucertola. Non si capiva più niente. Chi gridava, chi rideva, chi si arrampicava sulla credenza come una bertuccia. Alcuni si nascondevano sotto le poltrone, un nipotino osò dirigersi verso la tenda.

    Al commendator Linetti sembrava di impazzire. Si alzò di scatto. Adesso basta! Fuori! Andate a giocare! Vedrete quando arriva la nonna!

    Tutto sembrava essersi calmato di colpo, quando Letizia varcò la porta di casa. Il commendatore fu lesto a pararsi davanti alla tenda.

    Cosa fai, Leonida? È successo qualcosa? Mi sembri agitato chiese Letizia.

    No, non è niente, guardavo fuori. Mi hanno fatto arrabbiare questi mocciosi.

    Non è vero! - piagnucolò Luigino - Noi non abbiamo fatto niente, nonna, davvero, non credergli. È lui che è nervoso. È arrabbiato e sposta i mobili.

    Sposta i mobili?! Perché ti salta in mente di spostare i mobili, Leonida? esclamò la moglie toccata proprio nel suo punto debole, il salotto buono. Ma no, ma no, - la rassicurò il commendator Linetti - volevo semplicemente vedere, cara, come starebbe la mia poltrona davanti alla finestra. Tutto qui.

    La poltrona sta male davanti alla finestra, lo sai, abbiamo già provato.

    Già. Infatti. Infatti sta male, Letizia, hai ragione. Volevo solo provare. Chiuso l’incidente. Com’è andata la spesa? Hai trovato le braciole di vitello?.

    Passa del tempo. Il commendator Linetti cerca di non pensarci più. Si siede nuovamente in poltrona, riaccende la pipa. Sottili effluvi si spandono per il salotto. Si guarda intorno. Pericolo passato. Nessuno si è accorto di nulla. Tutto è tranquillo. Il gatto Gigi dorme sprofondato in un guanciale, la moglie è in cucina, i nipotini sono nuovamente in cortile. C’è qualcosa che lo innervosisce. La tivù. La sigla del telegiornale.

    Salta in piedi e in un balzo la spegne. Scende poi nell’atrio del condominio, scruta con terrore la cassetta delle lettere, ignobile ricettacolo di bollette e contravvenzioni. Vuota. Tira un respiro di sollievo. Risale.

    Ora può finalmente dedicarsi al suo hobby preferito: la meditazione.

    C’è qualcosa però che lo assilla, che gli impedisce di concentrarsi. Non è più la curiosità di scoprire cosa c’è dietro la tenda, ma un vuoto sottile che si sente crescere dentro. La raffigurazione di un rimpianto? Qualcosa che gli è venuto a mancare? E se fosse l’assenza di qualcuno, di una felicità che non riesce a mettere a fuoco? Felicità, che parola enorme.

    Diciamo serenità, piccola gioia. Si prende il mento nella mano, comincia a interrogarsi. Non è sereno forse? Com’è la sua vita? Non è precisamente un vuoto, il suo, ma un anelito, una nostalgia di ritorno. Guarda gli oggetti che lo circondano. Una patina d’indifferenza ricopre i mobili, il divano, le sedie. I bicchieri di cristallo perdono la loro lucentezza, le argenterie si imbruniscono.

    È avvenuto quel che temeva? La macchia bianca si è forse estesa a tutto il salotto? Si avvicina per scostare la tenda di lino, ma avverte come una paralisi al petto. Le forze gli mancano all’improvviso, si sente addosso un’indolenza vischiosa, come quando si ha la febbre.

    Una luce lattiginosa esce dallo specchio della sala. Si guarda con attenzione. Il viso è sfocato, sbiadito come quello di una vecchia fotografia.

    L’occhio stanco, due rughe marcate sopra la fronte. Gli passano davanti bagliori improvvisi, echi lontanissimi di uccelli, gocciolii che risuonano in una caverna.

    Il tempo si ferma, o meglio sembra che non sia mai esistito. E lo spazio? Anche lo spazio scompare, è diventato un concetto senza senso: le mattonelle del selciato potrebbero appartenere indifferentemente a una via di Milano come di Roma, Göteborg, New York.

    Prende in mano lo specchio, lo stacca dal muro.

    Non c’è niente di strano, là dietro. È come tutti gli altri specchi: una superficie riflettente davanti, una plastica nera sul retro, un gancio per appenderlo al muro. Per un attimo pensa che potrebbe trattarsi di una strana diavoleria che gli apre un passaggio per un’altra dimensione, una specie di oblò metafisico. Comincia a riflettere. Ciò che conta non è lo spazio o il tempo, - si dice - ma l’Essere, la sua esistenza come parte del Tutto. Mai prima d’ora si è sentito così filosofico, e si stupisce di se stesso.

    La cosa strana è che Leonida Linetti, solitamente così devoto all’ordine e alle abitudini, da tutto questo non è minimamente disorientato. Al contrario avverte una lucidità nuova, una serenità senza legami con la sua casa, la pensione sicura, i nipotini che gli ronzano intorno. Sale in camera, si affaccia alla finestra. Una nebbia soffusa sfuma il contorno delle cose. Potrebbe entrargli in casa, ingrossare ancora di più la macchia bianca. Abbassa la tapparella, va alla finestra che sta dalla parte opposta. Prende il binocolo e passa in rassegna i marciapiedi, i giardini. Esamina uno a uno tutti gli alberi per scorgervi eventuali segni di fioritura. È autunno? primavera? Ma non era forse Natale? I lampioni si sono accesi da poco, il garzone del lattaio ripassa davanti alla casa. Fischietta un motivo allegro, alza la testa verso il commendatore e lo fissa enigmatico. Poi riprende a fischiare pedalando piano, come chi fa finta di niente.

    Leonida rientra e scorge i suoi scarponi da montagna in un angolo dell’armadio.

    All’improvviso gli torna in mente un episodio di alcuni anni prima.

    Lo sai Leonida che non hai più l’età per andare in montagna, con tutti i pericoli che si incontrano... - diceva sua moglie - Metti che ti succeda qualcosa, che so, un malore, una piccola caduta... E non raccontarmi che c’è sempre qualcuno con te, perché non ci credo. Tu sei specializzato per andarti a cercare sempre i posti più pericolosi, quelli dove non ci va mai nessuno, ti conosco.

    Ogni volta, al ritorno di lui, Letizia si rincantucciava accanto alla stufa sferruzzando e ripetendo sempre le stesse cose. Lui la guardava appena con uno sguardo lontano che andava oltre la figura di lei, oltrepassava il suo scialle, la stufa e la pentola sul fuoco e andava a perdersi nel gruppo delle Tre Cime, negli spazi immensi e bianchi di quei fuoripista che al solo pensiero gli illucidivano gli occhi e gli facevano venire le labbra screpolate. Tornava a casa ogni volta con grandi rossori sulle guance, il segno bianco degli occhiali e, una volta a casa, andava avanti e indietro dal giardino sempre più taciturno e assente.

    Anche i nipotini, che a volte gli si rivolgevano per chiedergli qualcosa, rimanevano quasi sempre senza risposta e fuggivano via come pulcini a cercare un po’ di caldo nei pressi delle madre che a sua volta cercava un po’ di caldo nei pressi della stufa.

    Dopo alcuni mesi moglie, scialle, nipotini e stufa erano diventati ormai un tutt’uno, un piccolo esercito compatto con cui Leonida doveva fare i conti ad ogni suo rientro: dispetti, piccole rispostine graffianti, persino assalti ferini del gatto, cose che tutte quante insieme riuscivano insomma a rendergli la vita insopportabile.

    Siamo stufi di stare in pensiero, vedrai, vedrai Leonida che cosa ti succederà se non ti metti in testa una buona volta che hai sessant’anni suonati e non sei più un ragazzino, l’ha detto anche il dottore.

    Lui niente, caricava imperterrito il baule con sci, giacca a vento e piccozza e partiva da solo verso le alte cime.

    Guarda che quest’oggi c’è Giovancarlo con me, non preoccuparti le diceva per tenerla tranquilla, e sgusciava veloce fuori dalla porta, senza che ci fosse nessun Giovancarlo.

    I mesi passavano, venne la primavera e le nevi, nonostante i primi tepori, stentavano a sciogliersi. Leonida raggiungeva luoghi sempre più impervi e inaccessibili, sfiorava alti dirupi e scopriva ogni volta nuove angolazioni da cui ammirare paesaggi incantevoli.

    Si può dire che dopo un po’ di tempo era ormai entrato a far parte del naturale ciclo di vita di quelle montagne: respirava come uno dei tantissimi abeti che popolavano i boschi, si divertiva guardando gli scoiattoli che si arrampicavano sui rami, fotografava le marmotte che uscivano dalla tana, seguiva in volo il salto dello stambecco da un masso all’altro.

    Si sentiva felice.

    Una domenica sera tornò a casa come sempre e come sempre, dopo lunghe titubanze, si decise ad aprire la porta di casa per affrontare i rivoltosi. Si aspettava come ogni volta i soliti lamenti, le solite frasi, il solito fuggi-fuggi dei figli verso la stufa, l’agguato del gatto dalla seggiola.

    Nulla di tutto questo. Non un gesto, non un saluto, solo una strana aria un po’ mesta che girava per l’appartamento.

    Nessuno, né i vicini che lo avevano incontrato per le scale né la moglie né i nipotini sembravano essersi accorti minimamente di lui. Come se fosse diventato invisibile.

    Giorgino cambia l’acqua ai fiori disse la madre con un sospiro lungo, mentre tutti se ne stavano con gli occhi bassi.

    Io gliel’avevo detto, a quell’incosciente… e solo allora Leonida vide, posato sulla credenza di ciliegio, ciò che mai e poi mai si sarebbe aspettato: il suo ritratto in una cornice d’argento.

    Davanti alla fotografia un mazzolino di stelle alpine con la scritta:

    Al nostro caro estinto

    Racconto di Natale

    Giovanni e Margherita erano talmente poveri che dormivano a turno in un letto solo: lui lavorava di notte, lei di giorno. Quando uno si alzava, l’altra si infilava sotto le lenzuola trovandole già calde. D’inverno, per risparmiare sulla bolletta, tenevano le vivande sul davanzale e stavano con il cappotto addosso, rintanati in cucina accanto alla stufa. La legna buona costava troppo, così Giovanni comprava quella più economica che non era mai completamente asciutta e faceva tanto fumo.

    Fuori la neve ricopriva di bianco la squallida corte interna della palazzina, che negli occhi dell’immaginazione diventava il parco di una grande villa. Tante volte Giovanni e Margherita avevano sognato di vivere in una di quelle grandi case dei signori, con tutte le aiuole intorno e gli scoiattoli nel parco, ma poi si dicevano che era inutile pensarci: non avevano certo i soldi per comprare il biglietto della lotteria.

    Certe domeniche lei metteva una bancarella al mercatino delle cose usate, ma al suo banchetto non si fermava mai nessuno, così lei raccoglieva le sue povere cose e se ne tornava a casa. A casa lo aspettava il suo Giovanni che la adorava tanto, e questo le bastava: Giovanni e Margherita erano proprio quella che si definirebbe una coppia da presepe. Certe notti, mentre lui perlustrava la città infilando bigliettini sotto le porte, Margherita si svegliava di soprassalto e andava in cucina. Accendeva la stufa, scostava la tenda e si metteva di vedetta alla finestra. Non era certo l’ora in cui Giovanni finiva il secondo turno, ma chissà, sperava sempre che tornasse in anticipo. Di biciclette ne passavano poche.

    A ogni ronzio di raggi Margherita credeva di riconoscere la magra figura di lui. Dapprima faceva grandi gesti con la mano; poi, delusa, lasciava ricadere le braccia lungo i fianchi e tornava a sedersi. Restava così, in attesa, i gomiti puntati sulle ginocchia, lo sguardo perso nella foresta dei fumaioli, fissava i fiocchi di neve e pensava.

    Pensava di fargli trovare qualcosa di caldo, così toglieva lo stenditoio che era sopra la cucina economica e gli preparava qualcosa.

    Il latte a Giovanni non piaceva, e così il più delle volte, siccome in casa non c’era mai niente, gli cucinava un brodo con le ossa di maiale che il macellaio le regalava per il cane pur sapendo bene che non avevano nessun cane, e sotto Natale le lasciava sempre attaccato qualche pezzo di carne più grosso del solito. Giovanni e Margherita non avevano il telefono e nemmeno il frigorifero che, destinato ad essere sempre vuoto, era una spesa inutile. Non avevano nemmeno la televisione. La sera, prima che lui partisse per il solito giro notturno, se ne stavano mano nella mano a guardarsi negli occhi. Lui le raccontava storielle talmente spassose che una sera lei cadde per terra dal ridere rompendo una delle due uniche sedie. Da quella sera Giovanni e Margherita rimasero con una seggiola sola, e nelle poche ore passate insieme lei gli si sedeva in braccio. Da un lato questo fatto li rese più felici, dall’altro creò grossi inconvenienti quando era il momento di mangiare. Così si industriarono per infilzare la forchetta a turno nello stesso piatto; prima iniziava lei, poi gli lasciava spazio, infilzava lui e così via. Dopo cena lei gli cucinava qualcosa di caldo da portarsi via: un uovo sodo, una carota, qualche aluccia di pollo. Giovanni legava la pietanziera sul portapacchi della bici e andava al lavoro.

    Passarono gli anni, a Giovanni e Margherita cominciarono a spuntare i primi capelli bianchi. La situazione non era cambiata: ogni due o tre mesi lei perdeva il lavoro e Giovanni rimaneva l’unico a guadagnare qualcosa. Una sera di dicembre, mentre allestivano l’albero di Natale, bussarono alla porta.

    Chi sarà a quest’ora? (Giovanni e Margherita non avevano parenti in città e gli amici erano un lusso che non si potevano permettere).

    Sarà qualche malintenzionato - disse Margherita tutta tremante - Giovanni, ti prego, fallo per me, Giovanni se mi ami, non andare ad aprire.

    Pur amandola Giovanni andò ad aprire.

    Sul pianerottolo gli apparve un signore di una sessantina d’anni, portamento piuttosto distinto, cappello in testa.

    Buonasera. Cercavo il Signor Giovanni e la sua gentile consorte.

    Sono io. E questa è la mia consorte. Dica pure disse Giovanni con un occhio allo sconosciuto e l’altro all’unica sedia rimasta. Silenzio d’attesa. Il signore, immobile sulla soglia, si schiarì la voce.

    Giovanni lo guardò interdetto.

    Sono il Caso. Non si tratta, come lei crederà, del mio nome, e non sono nemmeno uno che passava di qui per caso. Sono il Caso. Posso entrare?.

    Prego, venga. Da questa parte - balbettò Giovanni, colto alla sprovvista - Si metta, si metta pure a sedere (Margherita intanto si era alzata con la scusa di andare al lavello e aveva liberato il posto). Se non le spiace rimango in piedi; sa, faccio un lavoro che mi costringe a stare sempre seduto. Non appena mi è possibile faccio un po’ di moto in casa. Non è necessario fare chilometri, sa? Basta un po’ di movimento, qualche flessione, magari una bella respirazione a pieni polmoni...Ma lei? Mi dica, in che cosa posso esserle...

    Si dà il caso che, come le dicevo poc’anzi, io sia il Caso, ripeté lo sconosciuto senz’altro aggiungere. Si mise a sedere e posò il cappello sul tavolo.

    Nella stanza si fece un silenzio granuloso, stagnante. Giovanni guardò Margherita che dava le spalle al lavandino ed era rimasta immobile con il detersivo in mano.

    Permettete ch’io mi versi un po’ della vostra grappa bianca? disse lo strano personaggio indicando la bottiglia con la scritta sul cerotto. Giovanni non sapeva che cosa rispondere. Quello si servì.

    Altro silenzio.

    Sorseggiato mezzo bicchierino d’acquavite, lo sconosciuto tirò un sospiro e disse:

    Io sono colui che vi ha fatti incontrare, sedici anni fa, in quel pomeriggio, nella sala da ballo, ricordate?.

    Giovanni e Margherita a quelle parole subito si illuminarono. Ogni diffidenza si sciolse di colpo, ogni paura scivolò via d’incanto e si guardarono intensamente negli occhi, mentre lo strano sconosciuto chinava leggermente la testa.

    La neve scendeva a grandi falde, soffice sul davanzale.

    Conversazione (si fa per dire)

    Due mamme ai giardini.

    Mio figlio fa così.

    Il mio invece fa cosà.

    Io di solito faccio questo.

    Io invece faccio quest’altro.

    La gente oggi non si parla, esattamente come quelle mamme. Due rette parallele che non si incontrano mai. Spesso nemmeno ci si riunisce. Ognuno naviga in un mondo a parte, affacciato alla finestra del suo display. Le rare volte in cui ci si guarda negli occhi, pochi hanno la pazienza di ascoltare. Molti si distraggono; altri, per tagliare il discorso, dispensano consigli non richiesti. Poiché non ci si sente capiti, si preferisce tacere, oppure tenere distanze di sicurezza, come in automobile. Non si parla. Al massimo si scrive, si mandano foto. Mi piace, non mi piace. Faccine. Cuoricini. Orsetti e tutta l’iconografia dell’infanzia.

    E poi la velocità. Le crocette. Le spunte. Si comunica solo per sigle, si schiacciano solo pulsanti. I ragazzini scrivono + per dire più, x per dire per. Presto gli innamorati si scambieranno questionari del tipo: mi ami?

    a) vero

    b) parzialmente vero

    c) falso. d) non so.

    Siamo tornati alla preistoria della scrittura, agli ideogrammi, al tempo in cui gli analfabeti si firmavano con una croce, e analfabeti stiamo nuovamente diventando. Tutti illetterati ma scrittori.

    Quando si sta con gli altri, ci si colloca in una ubiquità che ci fa catapultare in un altrove. Come se ci fosse sempre bisogno di estraniarsi, di evadere dalla situazione.

    Quando si dice ‘Ho sentitoTizio’ significa ‘Tizio mi ha scritto’, e così la facilità del pulsante incide le emozioni sulla pietra, come fossero epigrafi.

    Così le vicinanze diventano distanze, i confronti scontri, gli equivoci risse.

    Dovete sapere che gestisco un hotel con ristorante.

    Non ho mai avuto la pretesa di cambiare il mondo, ma nel mio piccolo ho pensato di fare qualcosa. Ho appeso all’ingresso un cartello:

    SI PREGA DI SPEGNERE I CELLULARI E DI PARLARSI

    L’iniziativa ha riscosso successo. Molti hanno raccolto l’invito. Il cameriere, prima delle ordinazioni, passa fra i tavoli e controlla che gli smartphone siano spenti. Ci sono però due strani clienti dell’hotel a cui l’invito non è bastato. I due uomini sono riusciti a non parlarsi pur conversando tra loro. Ho orecchiato i loro dialoghi a distanza, poi, con un pizzico di immaginazione, ho provato a indovinare i loro pensieri e ne ho fatto un racconto. Lo trascriverò per intero.

    Che cosa stai facendo?.

    Niente, e tu?.

    Neanch’io.

    Lunga pausa.

    Però, adesso che ci penso, non è vero. Ti stavo facendo una domanda.

    Ah sì? E quale domanda?.

    Ti stavo chiedendo cosa facevi.

    E io che cosa ti ho risposto? .

    Mi hai risposto: Niente.

    Allora non è vero. Ritiro. Ti stavo rispondendo.

    Altra pausa, più lunga della prima. Ciascuno dei due è immerso nei suoi pensieri.

    Che cosa stai pensando?.

    Niente. O meglio, sto pensando che non so a cosa pensare. E tu?. Arriva il cameriere con il tovagliolo sul braccio. Posa il vassoio. I due fanno per servirsi, poi si fermano. Finalmente è arrivata la colazione; - pensa uno - non ce la facevo più. Adesso comincio. Ma se poi quello mi rifà la stessa domanda? Se gli rispondo che sto facendo colazione quello mica si accontenta, lo conosco. Mi toccherebbe specificargli per filo e per segno che sto versandomi il caffè latte, mescolando con il cucchiaino in senso antiorario approssimandomi con la bocca alla tazza fino a trovare un angolo di 45 gradi. Non ne ho voglia. Troppa fatica, troppo caldo, meglio non muoversi.

    Adesso io rimango fermo - pensa l’altro - e faccio in modo che sia lui ad iniziare la colazione; poi lo lascio andare avanti, senza fare il minimo movimento. Ad un certo punto, quando meno se lo aspetta, mi giro di scatto verso di lui e zac, gli chiedo che cosa sta facendo. Rimanendo immobile fino a quel momento sarò riuscito a conquistare una posizione di vantaggio: sarà lui a raccontarmi ogni cosa nei minimi particolari mentre io, nell’eventualità che lui dovesse girarmi la domanda, potrei cavarmela con due o tre paroline al massimo. In questo modo risparmio fiato, e in più, invece di parlare del tempo che fa, si discorrerà di qualcosa di diverso, di più interessante, di più personale. E che non mi venga a dire che non abbiamo argomenti, e che a venire in vacanza con me ci si stufa.

    Così, tutti presi da queste algebriche congetture, non si azzardano a sfiorare nemmeno un cucchiaino, ad aprire un solo tovagliolo, e si guardano fissi con lo sguardo perso.

    Gli altri clienti hanno ormai terminato la colazione, si alzano dai tavoli, procedono in fila verso la spiaggia riservata.

    Il caffe

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