Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Post mortem: Qualcuno cammina
Post mortem: Qualcuno cammina
Post mortem: Qualcuno cammina
E-book283 pagine4 ore

Post mortem: Qualcuno cammina

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Dieci racconti che condurranno il lettore nei territori della paura e dell'incubo, uno stile visionario ed evocativo. "Sono qui per te" racconta la mutazione genetica, nel seminterrato di un ospedale, incubatrice per morti viventi; in "Soldato grigio verso soldato blu" il leader di una band heavy metal si sveglia dentro una bara; "Bloody Hellborn" unisce in modo inedito i temi della scrittura e del vampirismo; "Quattro zero zero" racconta la vicenda di un elettricista, di un folle e di una bomba a orologeria; il protagonista di "Al tredicesimo piano della ventitreesima strada", durante una seduta di psicoanalisi, rielabora un incidente attraverso uno schock allucinatorio. Ne "All'ora della morte" un clown è in un limbo, tra la vita e la morte. Anche la mente lucida di un giornalista può fare brutti scherzi, come in "Replay"; ne "I riflessi dell'ambra" un uomo, vedovo e disperato, riceve un messaggio che lo metterà in contatto con una realtà esoterica. "Moon Down" è un ospedale psichiatrico che nasconde un terribile segreto. In "Una vecchia stretta di mano" un bibliotecario incontra un essere attraente e misterioso con cui dovrà affrontare la minaccia più grande per il genere umano.
LinguaItaliano
Data di uscita5 feb 2020
ISBN9788894966640
Post mortem: Qualcuno cammina

Correlato a Post mortem

Ebook correlati

Suspense per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Post mortem

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Post mortem - Daniela Estrafallaces

    Daniela Estrafallaces -  Post Mortem. Qualcuno cammina

    Musicaos Editore, 2019 - Le Citrine, 4

    Progetto grafico -   Bookground

    Illustrazione di copertina -     Luca Arcuti

    Ogni riferimento a fatti, cose, persone, è da ritenersi puramente casuale.

    Musicaos Editore

    Via Arciprete Roberto Napoli, 82

    Neviano (Le) – tel. 0836.618.232

    www.musicaos.org

    info@musicaos.it

    Isbn del cartaceo 978-88-94966-312

    INTRODUZIONE

    a mio padre

    Penso che una raccolta di racconti nasca dal bisogno di risolvere una questione percettiva, da una necessità di interpretare segnali che producono rumore (si muove lentamente, sottopelle, ma c’è). Sono segnali che per     essere    hanno bisogno di venir fuori. Hanno bisogno di spazio. L’interpretazione di un segnale di questo genere è interpretazione di quella stessa urgenza creativa che gli ha permesso di manifestarsi attraverso il pensiero e che chiede di essere riversata in un canale comunicativo, in un naturale rapporto di causa-effetto. Già, ma come ci si comporta quando si percepisce (e qui il pensiero cosciente cambia del tutto modalità e frequenza trasformandosi in qualcosa di più sottile) qualcosa che chiede di     essere    e di indossare per l’occasione il proprio abito su misura? È come fissare per un tempo indefinibile una scatola (nera) con dentro qualcosa che si agita. Si deve pensare all’approccio giusto per sollevare il coperchio. L’approccio ideale è suggerito spesso dalla materia del contendere. Qui si è trattato di un metaforico giro di tasti di pianoforte, un’alternanza di bianchi e neri in cui il bianco non è solo luce ed il nero non è solo buio. Nelle storie della raccolta avrebbe perciò dovuto esserci una prepotente ingerenza di mondi, una battaglia da un polo all’altro dell’universo creativo.

    Sono qui per te    è una storia esemplificativa in questo senso. In ordine temporale, si tratta del primo racconto concepito in questa raccolta. Ho voluto che si muovesse in un mondo di bianco, dal piano di calpestio non troppo sicuro, com’è quello dei corridoi di un ospedale e di tutta l’immondizia che può scorrerci sotto. (Il cinema ce lo insegna. Mai fidarsi di una cantina con un interruttore rotto che scatta a vuoto. Mai fidarsi di un sotterraneo. Ci sono sempre cose immonde, da quelle parti). Vic Diamond è il tirocinante di pronto soccorso che dovrà suo malgrado riconoscere l’esistenza della     longa manus    di un mondo di tenebra, qualcosa che andrà ben oltre le beghe quotidiane con antagonisti/burocrati come Stan Douglas e Kurt Connor, figure archetipiche ancorate all’apparente stabilità di un tessuto sociale corrotto che va lasciandosi poco alla volta.

    Se si volesse fare un salto indietro alla scatola che fa rumore, Soldato grigio verso soldato blu    ha fatto davvero un gran chiasso. È una storia di quelle in cui il suono prende il timone della narrazione ed interpreta, guida, canalizza l’insieme degli effetti stilistici. C’era una stanza in un vecchio motel lungo un’interstatale americana. La città dov’era la stanza del motel, non si chiamava ancora New York (per dirla in altri termini, il suo abito su misura non era ancora pronto). C’era però uno specchio esagonale attaccato ad una parete tinta di rosso. Si tratta di un dettaglio minimo nel contesto della narrazione ma sul piano elaborativo quel che interessa è ciò che lo specchio avrebbe potuto riflettere. Un assoluto nulla, un vuoto di volontà e intenti, un liquame interiore in cui i pensieri sono respinti e poi trattenuti in un pantano vischioso. Dal punto di vista narrativo quello specchio è poco o più di una metafora, ma allo stesso tempo strumento interpretativo interessante nella fase di raccolta delle informazioni, indispensabile a costruire un personaggio che deve prendere vita su carta. Nella camera del motel c’era Bruce Garner, un musicista rock prodigo di informazioni su quel mondo sommerso dal vuoto interiore che va riempito di colori sgargianti e deformanti, per l’effetto deleterio dello sguardo fisso sui ricordi che si agitano sotto veli troppo sottili.    

    Dal punto di vista della costruzione narrativa di quella storia, lo specchio rappresenta una modalità visiva silente che si affianca alla prevalenza dei suoni forti, un testimone di staticità in cui può essere riflesso solo ciò che può riflettersi. Ne è esempio emblematico la storia gotico-vampirica di     Bloody Hellborn    in cui realtà e fiction romanzesca si scambiano volentieri il ruolo, come il lettore vedrà, riflettendosi ora nell’una ora nell’altra. Ora smettendo di riflettersi.    

    È questa realtà sospesa, un mondo palpabile-impalpabile che racchiude in sé il vero ed il suo rovescio (più ruvido, certo. Ma si devono pur mettere le mani anche nel vuoto per averne un’idea) a tracciare sottili linee di confine fra un racconto e un altro, linee che possono essere facilmente attraversate per vedere cosa c’è dall’altra parte perché il contenuto di questa raccolta è una mappa onirica di angosce che si annidano in uno spazio subcosciente, non abbastanza lontano dai livelli percettivi sensoriali per non essere captato. L’idea della narrazione come spazio labirintico in cui orientarsi senza neppure una torcia è la proposta e colonna portante della raccolta. La metafora del buio, in senso di perdizione, di oscurità, di tenebre, di reclusione si propone di guidare i lettori per contrasto, attraverso canali percettivi che coinvolgono i sensi e, soprattutto, le sensazioni primordiali, le paure antiche depositate nel subconscio come polvere di anni, come polvere di archivi, sotterranei, vecchie cantine e obitori in cui le cose accadono     alla rovescia. Nel mondo selettivo dei racconti, in cui la luce illumina le cose che sarebbe meglio non vedere, si muovono i protagonisti alla scoperta, come il lettore, di quello che ci sarà dall’altra parte.    

    Nelle pagine successive, il testimone passa a loro. Sarà la loro visione, libera dei filtri del     deus ex machina, a provare a fornire un’idea di quello che succede là dove non si tocca, in quegli spazi di buio/luce che nel contesto della narrazione diventano spazi vissuti nella loro interezza, spazi magmatici in cui le storie e gli interpreti emergono con profili personalizzati, insoliti, talvolta spiazzanti anche per lo stesso autore.

    Quegli spazi, veri e propri siti gestazionali della narrazione, si agitano a quei livelli di profondità che raggiungono la coscienza ma non abbandonano la guida delle modalità inconsce, perché il loro obiettivo è quello di toccare e scuotere le paure come stracci, rendendole materia intellegibile nello stadio della consapevolezza. Un passaggio che, nella prospettiva della narrazione, fonde i livelli di realtà con i loro piani paralleli, i mondi surreali, quegli spazi bui, poco esplorati, carichi di insidie che non hanno forma eppure hanno la presa (forte) di dita invisibili. Sono quelle sensazioni radicate nell’inconscio primordiale a creare una realtà che è minaccia alla percezione cognitiva e al tempo stesso suggerimento consapevole di esistenza inarrestabile nel quotidiano. Le paure non si uccidono, perché sono creature di altri mondi che vengono spesso in pellegrinaggio nel nostro. Dietro ad una porta, sotto il letto, in cantina, in una fetta di mondo onirico portato alle estreme conseguenze tanto da non voler mollare la presa sul reale. Sono presenti e si muovono agevolmente alla luce del sole e al calare delle tenebre. Sono sottili ma invincibili e vogliono essere guardate in faccia. E quando ci decidiamo a guardarle vediamo noi stessi. Perché loro sono noi e noi siamo loro. I frutti del bizzarro costume magmatico della luce. E del buio.

    Lecce, 5 aprile 2019

    Daniela Estrafallaces

    SONO QUI PER TE

    Lucy, a piedi nudi in corridoio, scivolava leggera e silenziosa. «Ce la sbrighiamo in pochi minuti, Vic». Un sussurro di voce, piglio da vamp. Andava come una foglia sul pelo dell’acqua. Al decimo piano del     Mercy Soul Hospital    di Chicago. Vic Diamond simpatizzava da sempre per     Mercy Soul. Classe primo ‘900. Gli sapeva di fresco, quel nome. Un secolo di vita e non sentirlo. Era la sensazione nitida delle cose che si apprezzano d’istinto solo se si è capaci di     sentire.     Per tutti quelli che vedono il consenso come un alibi di comodo con indosso il vestito della domenica. È il genere di convinzione che ti fa stare fermo lì, in attesa di un segnale da parte di     Lucy. Finché, al capo opposto del corridoio, la vide agitare una mano e sorridergli: «Okay!», gli gridò. Con un secondo cenno, gli chiedeva di restare lì e guardare. Strizzava un occhio verso di lui e sorrideva di nuovo. Somigliava a Judith in modo incredibile. Persino identica, nel sorriso. «Okay, Lucy. Sono pronto…». La risposta fu un tossicchiare caparbio.     Le cose importanti per i bambini sono le stesse che per gli adulti hanno smesso di avere senso da un pezzo.

    Lucy aprì le danze con un passo strascicato, braccia che fendevano alla rinfusa lo spazio, gli occhi puntati al soffitto a sforzarsi più che potevano di mostrare il bianco. Vic palleggiò le cartelle cliniche da una mano all’altra e sorrise: «Mi sa che dovrò sequestrarti quei fumetti sul comodino, baby…».

    Lucy sfoderò una risatina gorgogliante, senza abbassare la testa. Puntava su di lui, a meno di mezzo metro. Vic si piegò e se la prese sulle ginocchia. «Devo pensare che ci sia di nuovo qualcosa che non va in questa bella testolina?».

    Lucy fece segno di no. Le scostò i capelli dal viso un po’ accaldato, le fece seguire l’indice, in su e giù, destra e sinistra. Le sentì il polso carotideo. Tutto in ordine. Lei intanto parlava, intrecciando le mani. «Ho visto un uomo nel seminterrato… Camminava come ti ho fatto vedere. Aveva gli occhi lucidi e faceva dei versi con la bocca, ma non diceva niente. Poi mi ha morso…». Tirò su la manica sinistra e gli mostrò il polso. Era gonfio e tumefatto.

    Vic ebbe un flash. Si rivide a cinque anni, al funerale della sorella, il vento freddo sulla faccia, la bara coperta. Judith era lì dentro. La fantasticheria infantile aveva minacciato più volte di friggergli il cervello, quel giorno. Qualcosa sotto le dita, e il ricordo si accartocciò e scomparve rapido. Lucy gli stava guidando la mano lì     dentro. Era un tre per due in centimetri, lunghezza verso profondità. Il morso di un animale… Sicuro! Cos’altro avrebbe potuto essere?

    «È una brutta ferita. Mi dici come te la sei fatta     sul serio, Lucy?».

    «Te l’ho detto! Quello lì mi ha morso…».

    Le tirò giù la manica. «Va bene, tesoro. Ti credo. Ora, però, andiamo a mettere qualche punto».

    Alla risposta, si accompagnò una deglutizione a sorpresa. Non gli piacque il modo in cui lo fece. Soprattutto, non gli piacque il motivo. Era qualcosa che sapeva di delirio. Mentre premeva il pulsante di chiamata dell’ascensore, gli venne in mente il giardino. Aveva visto due cani di grossa taglia girovagare nelle aiuole. Che diavolo, gli animali sono la corsia preferenziale delle malattie infettive. Il tempo di suturare la ferita di Lucy e l’avrebbero sentito, giù in amministrazione.     Ti ci vuole un capro espiatorio, non è vero, Vic? Ma falla finita! Quello non è il morso di un cane…    Le funzioni cerebrali dei suoi cinque anni si rispolveravano da cima a fondo senza alcuna richiesta formale.

    «Io sono scappata» insistette Lucy mentre le porte dell’ascensore si aprivano. «Ma lui mi ha seguito e mi ha morso. Sono riuscita a seminarlo solo perché era lento come una lumaca!».

    «Chi è che avresti seminato, Lucy?». Kurt Connor, vice primario di psichiatria, arrivava sempre alle spalle, voce grassa inconfondibile.

    «Nessuno» rispose Vic. «Lucy mi stava solo raccontando un sogno».

    «Non l’ho chiesto a te, dottor Vic…». Sorrideva mostrando i denti, che erano la parte migliore di lui. Victor si strinse nelle spalle. «Fa lo stesso. Lucy è un po’ stanca e non ha voglia di parlare, non è vero piccola?». Lei gli strinse la mano e annuì, gli occhi dritti nell’ascensore. «Ora, se il dottor Connor vuole scusarci, abbiamo da fare un salto in sala suture…».

    Connor gli bloccò l’ascensore con un piede quand’erano già dentro. «Dove credi di andare, dottore? Questo è il     mio    reparto e si dà il caso che sia l’ora del giro visite».

    Vic schioccò le labbra. Poi si chinò all’orecchio di Lucy. «Mostragli il braccio, tesoro. Sta tranquilla…».

    Lucy sollevò la manica. Era appena a metà strada quando Kurt Connor cominciò a saltare come un canguro. «Ma che roba è?!?».

    Vic simulò uno sgomento cameratesco. «Stando alla profondità e alla forma della lacerazione, penserei ad un morso. Ci sono anche i segni dei denti, vedi? Non mi sembra un caso psichiatrico, però… Ed ora, cowboy, ci lasci passare? Ti riporterò la fanciulla fra una mezz’ora al più tardi. Le faccio un rammendo come si deve e te la riporto in tempo per il tuo prezioso giro visite, okay?». Connor ritirò il piede dall’ascensore senza una parola. Alla prova dei fatti, il suo giro visite non aveva importanza più che tanto.

    Una bella vacanza non fa mai male. Prenditi una vacanza, Vic. Trascini i nervi tesi davanti allo specchio e metti ordine.    Parola di Stan Douglas, direttore sanitario del     Mercy Soul. Non è che la buttasse lì per dire. No. C’era passato anche lui. Tre giorni a casa e passava tutto, con i buoni, vecchi rimedi della nonna. Il razzolare beato dei pittbull in giardino avrebbe riacquistato la giusta prospettiva di innocuità, pur senza arrischiarsi nel campo minato dei vezzeggiativi di Connor: I miei angioletti…, come li chiamava. Kurt si ritagliava la pezza a colore per sbatterlo fuori. E bravo Kurt. Roba da prima pagina. Chissà com’era gasato, in quel momento.     Misero tirocinante di pronto soccorso contro navigato psichiatra subdolo e bastardo. Subdolo e bastardo, ma navigato. E il problema stava tutto lì. Vic era stato costretto a segnare un macroscopico punto in ribasso in una settimana che stava iniziando male e prometteva di finire peggio.

    Ellen ci stava mettendo del suo, farfugliando di matrimonio da almeno cinque minuti, un braccio piegato sul cuscino e un’espressione suadente al momento sbagliato. Vic le rispondeva guardandola in faccia giusto lo stretto necessario. C’erano problemi seri, in ospedale. Una piccola paziente di psichiatria aveva fatto la conoscenza non proprio entusiasmante di un tizio che trascina i piedi e fa dei versi invece delle parole. Secondo il racconto di una ragazzina affetta da disturbo bipolare precoce, uno zombie scorrazza libero e selvaggio nel seminterrato. Cosa ne pensava la sua bella giornalista? Ellen Morrison s’era messa a strillare, a quel punto, con un tono appena un po’ più stridulo del suo mezzo busto durante il notiziario locale, sezione cronaca nera. Un déjà vu nudo e crudo.

    «Dillo chiaramente, Vic! Tu vuoi scoparmi e basta! Dimmelo chiaro e smettila con queste stronzate…». Dieci minuti più tardi, gli mollava un bacio freddo sulla guancia e usciva frettolosamente, i capelli bagnati per la doccia e la camicetta abbottonata male. L’aspettavano in redazione per montare un pezzo. Avrebbe richiamato lei più tardi.

    «Questo, però, non era malvagio, Ellen! Era un vero scoop, se vogliamo…». E il suo discretissimo monolocale vuoto, naturalmente, non rispose. Andava bene così. L’unica risposta che serviva adesso era     caffè.    Un buon caffè per far schizzare in alto l’agitazione.     È il momento di sentirsi     intenzionalmente peggio. Era irrazionale, ma aveva sete di qualcosa che non avesse il minimo senso.     Diresti che è inutile, ma a volte è proprio quello che serve. Lo stava pensando mentre mandava giù a velocità i primi tre o quattro sorsi. Quando cominciò a tossire, aveva ancora la tazza vicino alle labbra. Gli era     venuta    in mente mentre beveva. Era una     cosa    assurda, priva di senso, per l’appunto. Da morire soffocati. Ma l’avrebbe fatta lo stesso. Sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto da lì a due giorni, non appena avesse rimesso piede in ospedale.

    Una buona metà del     Mercy Soul    puntava l’indice contro Vic. E Johnny, il buon vecchio Johnny Miles, compagno di studi e di tirocinio, era uno che aveva paura di essere messo alle corde proprio alla fine del     match.     Procurarsi le chiavi non sarà esattamente un gioco da ragazzi, Vic. È questo il prezzo quando il solo amico che hai è un vigliacco globale e un fan dichiarato dei puntini sulle i.    Lucy stava peggio, gli aveva spiegato John. E in ospedale era tutto un coro di:

    «Vic ha sbagliato la sutura, la ferita è infetta». Oppure: «Ma cosa diavolo è questa roba, filo spinato?».     Decimo piano, camera 206, primo letto a sinistra. Ci puoi anche andare subito, se ti va. Ma le chiavi? Quel mazzo di ferraglia minuta appeso all’indice di John? Davvero non le voleva?     Niente domande, Vic. Meglio non farsi domande, quando ti portano il conto. Non è una cosa carina. Soprattutto, è fuorviante, se non pericolosa.

    «Chiuditi dentro, se vuoi…» suggerì John. Doveva essergli costato una fortuna. Lo si     vedeva dalla faccia bianca che gli era venuta mentre articolava le parole. Johnny gli ricordò poi che esisteva un graziosissimo e formalissimo permesso di mezz’ora sulla scrivania del direttore sanitario. E la faccia gli si fece più bianca. Di un bianco slavato che gli ispirava l’odore dell’alcool. Allungò la mano sulle chiavi. Una fitta di imbarazzo gli affondò in gola. Fu come un pezzo di ferro freddo dritto e sparato lungo la trachea.     Non stai ballando da solo, Vic. Tu lo credi, ma non è così. John fece ugualmente qualche passo indietro per permettergli di chiudere la porta. In uno spazio d’apertura di un paio di dita, lo vide battersi l’indice sul polso. Vic gli rispose con un pollice all’insù. Chiuse la porta dell’archivio. Giusto un giro, per la privacy. La sezione di cartelle 1995-2005 era la prima, in basso a destra, quella corrente. Più in alto, ne vide una con l’iscrizione 1985-1995. Restava da fare un mezzo giro a sinistra. Un giro piccolo piccolo da anello mancante in una combinazione numerica. E arrivò lo scatto, il     clic, seguito dalla scossa allo stomaco, effetto macchia arcobaleno da TV appena spenta. Prese la scala. I primi quattro gradini stridettero. Vic allungò le mani e scorse velocemente i fascicoli della sezione 1975-1985. Indietro, indietro… Un fascicolo via l’altro, dieci secondi a scorrimento convulso ed ecco là in fondo la cartella di Judith, area ‘75, rivestita d’un giallo epatite calzante con l’annata post Vietnam.

    Le dita gli formicolarono in modo bestiale. Dovette scioglierle con un paio di scatti prima di afferrare la cartella. Ridiscese i gradini tenendo il fascicolo contro il petto, riempiendosi le narici con gli odori dell’ospedale anni ‘70. Rivide Judith seduta a gambe incrociate al centro del letto, le spalle alla porta. Provò a immaginarla voltarsi a guardare verso di lui. Il corpo ruotava su se stesso cigolando e mostrava il profilo immobile, grigio e rappreso. Qualcosa nella sua testa aveva messo il profilo in pausa. Gli venne da urlare, ma non ci riuscì. Si morse la lingua, invece. Sentì il sapore del sangue scivolare insieme a lui sul pavimento.    

    Uno, due, tre. Toc, toc, toc da parte di Johnny… Te lo ricordi, il patto, Vic? Uno, due, tre. Vieni fuori adesso. Con l’indice all’altezza dell’orecchio, Vic Diamond fece segno di no, senza staccare gli occhi dal fascicolo, ultima pagina in fondo.     Vieni fuori da quella cazzo di stanza o sei morto. Gli arrivò un brusio sommesso dal corridoio. Voci     dentro    e voci     fuori.     Fa lo stesso, ora non si esce. È la puntata finale dello show     Il     Caffè della Provvidenza.     Il proiettore corteggia i titoli di coda. Siamo in dirittura d’arrivo. Non si può uscire. Non adesso. L’attenzione è tutta sull’ultimo fotogramma. Sulla     scritta rossa in basso a destra. Causa della morte: ignota,     si legge. Poi di nuovo:     Ti mettono sulla graticola, se non esci. Questa volta, si fece all’altezza dell’orecchio un segno con tutta la mano.     Un minuto, pensò. Johnny Miles disapprovava in pieno, con le nocche delle dita attaccate alla porta come al pulsante di un campanello.     Mezz’ora tonda tonda. I puntini sulle i sgomitano per entrare in scena. Così sia.    Strofinò il camice con una mano (il sangue che gli era colato giù dalla bocca formò sul tessuto una breve via lattea color vermiglio), la cartella di Judith stretta nell’altra, col rosso fuoco che pulsava dietro la fronte. E Johnny sempre lì, attaccato alla porta a dire la sua. Bussava e picchiava. Con una mano, prima. Poi con due. Poi con qualcosa che produsse un rumore più ampio. Le voci ringhiavano intorno alla porta. Sentì il fascicolo scivolargli dalla mano come un pugno di sabbia in una giornata di vento.

    Pensò di gridare qualcosa di stupido come: «Va bene, mi arrendo!», alla maniera di indiani contro cowboys. Non voleva che sfondassero la porta prima che potesse uscire da una stanza con un’unica finestra sospesa all’undicesimo piano. Allungò una mano sulla chiave e lì, prima ancora che potesse girarla, ci fu l’ultimo colpo. Un suono di uova spiaccicate. Poi, qualcosa che scivola verso terra. Vic restò lì davanti, le dita della mano aperte, ad una decina di centimetri dalla chiave. Il resto del mazzo attaccato all’anello oscillava come la coda di un gatto. La chiave si muoveva verso l’interno. Si staccò dalla serratura in meno di trenta secondi e cadde in un tintinnio sordo. Il pomo della porta fece un mezzo giro a destra e la porta si aprì. Il corpo di John si proiettò nella stanza, intestini intorno al collo e la testa a pezzetti, un po’ qua, un po’ là. Lucy era a cavalcioni sul cadavere. Gli occhi grandi, cerchiati di nero ridevano striduli:     Sono qui per te. La voce di Victor assemblò meccanicamente il nome della     cosa    che gli sorrideva. Nella risposta, un secondo sorriso, bocca rossa e gonfia da clown. Grondante sangue. Vic immaginò le parole:     Lucy? È bello, Lucy! Un nuovo nome… Mi piace…    Riuscì persino a vederle, una per una, mentre uscivano dalla bocca larga come anelli di fumo di sigaretta. La scritta rosso fuoco pulsò. Vide distintamente lo spazio vuoto dopo i due punti e lo riempì senza remore.     Mutazione. Le dita fredde di Judith gli sfioravano il collo.     Mutazione. La bocca a mezzo millimetro dalla gola. Poi lo strappo. Doloroso e stupefacente. Come il significato reale di qualcosa che credi stupido. Judith e i     suoi    avevano preso Lucy.     La riscossa del pianeta del non senso. Un sussurro deforme. Uno strascico di coscienza umana. Mutazione.    

    SOLDATO GRIGIO VERSO SOLDATO BLU

    Bruce Garner non ha mai sofferto di claustrofobia. L’espressione gli parve convincente. Quasi rassicurante. La terza persona singolare come sinonimo di un primitivo meccanismo di sopravvivenza.     Ma andiamo con ordine, Bruce, si era detto.     Soprattutto fino a che la testa risponde. Andare con ordine significava, ad occhio e croce, tornare indietro di un mesetto. Nella fattispecie, alla giornata che decise su due piedi di battezzare come     Anteprima di stupidità. Non ricordava nemmeno perché avesse deciso di cominciare. Sta di fatto, però, che in un giorno non meglio identificato di fine novembre si sparò la sua prima dose di coca sotto lo sguardo atono di Dave Harrison, nemico-amico d’infanzia e vicino di casa, da sempre.     Sono i rapporti di causa-effetto. Ognuno di noi ha i propri, dice la terza persona. Parole sante da saggezza post-traumatica. Quel giorno, Bruce stava sgranocchiando un cracker che se lo prendevi per il verso giusto ti mostrava i suoi innumerevoli talenti.     Cioccolato, caramello e vaniglia… E i colori? Un fiume in piena. Un fiume fresco e gorgogliante. Quello era l’aspetto più simpatico dell’intera faccenda, secondo Bruce. Che cos’è, in fondo, il sapore, per quanto irresistibile, senza il colore? Dave gli aveva lanciato lo sguardo del distacco impenitente e aveva sorriso come al solito, tirando dentro le labbra. Quello era il suo modo di sorridere nove volte su dieci. Era anche il sorriso del     Mi stai prendendo per il culo da una vita.    

    Ma non è vero!    Avrebbe voluto urlare Bruce.     I colori li vedo sul serio. Per esempio: tu, in questo momento, hai la faccia puntellata di stelle. E dire che là fuori viene giù il finimondo! Non è fantastico?

    Ma a che     pro    farlo notare a Dave? Quelli come lui fanno storia a sé da prima di nascere, quando se ne stanno immersi per nove mesi nel    

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1