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Accompagnare i condannati invisibili: come fare volontariato accanto alle persone condannate alle pene di comunità
Accompagnare i condannati invisibili: come fare volontariato accanto alle persone condannate alle pene di comunità
Accompagnare i condannati invisibili: come fare volontariato accanto alle persone condannate alle pene di comunità
E-book465 pagine6 ore

Accompagnare i condannati invisibili: come fare volontariato accanto alle persone condannate alle pene di comunità

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Info su questo ebook

Questo libro vuole essere uno strumento pratico per far crescere il volontariato penitenziario a servizio delle persone condannate alle Misure Alternative al carcere. Se da una parte lo Stato Italiano sta puntando sempre più a favorire le pene scontate sul territorio, d’altra parte diventa sempre più urgente che i volontari inizino ad occuparsi di questi condannati, sempre più numerosi, e che richiedono uno stile di servizio molto diverso da quello praticato in carcere, e sconosciuto ai più. Il testo nasce da oltre dieci anni di esperienza dei volontari di Sesta Opera San Fedele di Milano in stretta collaborazione con gli assistenti sociali dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (UEPE) del Ministero di Giustizia di Milano e Lodi. Da questo contesto sono tratte considerazioni teoriche e pratiche, e alcuni casi che possono aiutare i futuri volontari a conoscere questa realtà, ad acquisire gli strumenti più adatti per affrontarli, e a valutare le motivazioni per poter scegliere questo servizio.
Guido Chiaretti è Presidente di Sesta Opera San Fedele. Dal 2005 ha dato impulso alla formazione del nuovo volontariato a sostegno delle pene territoriali in collaborazione con l’UEPE di Milano e Lodi.
LinguaItaliano
Data di uscita8 feb 2019
ISBN9788894285413
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    Anteprima del libro

    Accompagnare i condannati invisibili - a cura di Guido Chiaretti

    autovalutazione

    PREFAZIONE

    Si può stare insieme discriminandosi, riconoscendosi, o combinando in varie percentuali queste due modalità. Si riconoscono i familiari e si discriminano gli estranei; si riconoscono gli appartenenti alla stessa religione e si discriminano gli altri; si riconoscono le persone dello stesso genere e si discriminano gli altri; si riconoscono i cittadini e si discriminano gli stranieri; si riconoscono le persone dello stesso censo e si discriminano gli altri; si riconoscono coloro che non hanno commesso delitti (o che non sono stati scoperti) e si discriminano gli altri; e così via.

    Per millenni la considerazione positiva della discriminazione è stata alla base dell’organizzazione sociale: in Egitto, in Grecia, a Roma, persino ai tempi della Rivoluzione francese (lì limitata al genere) la discriminazione era la conseguenza di una convinzione profonda: le persone hanno dignità diverse, e in conseguenza è giusto che chi ha maggior dignità abbia maggiori possibilità, e chi non ha dignità non abbia alcun potere ma solo carichi.

    In uno schema sociale del genere, nel quale il riconoscimento è limitato alle persone di dignità pari, e non sempre nemmeno tra quelle, la risposta alla trasgressione non può essere che l’esclusione: sia essa temporanea o definitiva, consista nell’eliminazione fisica o nel bando perpetuo, comunque realizzato, comunque la risposta alla trasgressione è l’esclusione, con una sola eccezione: il trasgressore è di dignità particolarmente elevata, succede che si eviti di accertarne la responsabilità, e di applicargli quindi la relativa sanzione.

    Proprio la pratica esperienza del sistema basato sulla discriminazione, reiterata per anni e culminata con i disastri della prima metà del secolo scorso, ha portato parte dell’umanità ad orientarsi verso un sistema nel quale fosse centrale il riconoscimento universale della dignità della persona. Così la Costituzione italiana afferma all’articolo 3 che tutti i cittadini hanno dignità pari, l’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani afferma che tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti e l’articolo 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali vieta la discriminazione.

    Sono conseguenza diretta dell’affermazione di pari dignità le disposizioni che riguardano la pena: essa non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, deve tendere alla rieducazione del condannato (articolo 27 Cost.), ed è vietata qualsiasi forma di violenza fisica e psicologica nei confronti di coloro la cui libertà personale sia comunque limitata (art. 13 Cost).

    Se si nota poi che la Costituzione non parla mai di carcere (se non riferendosi alla carcerazione preventiva, art. 13, termine che però nella legislazione ordinaria è stato sostituito con custodia cautelare, art. 11 l. 28.7.1984 n. 398), si può vedere come il sistema costituzionale non preveda la centralità del carcere come conseguenza della violazione.

    Perché sia effettivamente così, e le parole della legge non rimangano vuote espressioni fissate sulla carta, è necessario che le misure di comunità (come l’affidamento in prova ai servizi sociali, la messa alla prova, i lavori di pubblica utilità, la detenzione domiciliare), che consentirebbero in tante circostanze che sia evitato il carcere, siano effettive, e cioè funzionino. E perché funzionino è necessario che le persone che professionalmente lavorano perché ciò avvenga siano affiancate da volontari, non solo per sopperire alle purtroppo consolidate carenze strutturali del servizio pubblico, ma anche perché esistano effettivi contatti con la comunità che trascendano i rapporti istituzionalizzati.

    Credo sia ovvio che perché svolgano efficacemente e proficuamente il loro lavoro i volontari debbano essere formati: ecco il motivo per il quale è stato scritto questo libro.

    Gherardo Colombo

    INTRODUZIONE

    Guido Chiaretti

    Mai come nel nostro caso è necessaria una premessa per poter capire a fondo l’importanza e le sfide che abbiamo davanti nel proporre il testo che vi proponiamo. Esso intende offrire l’esperienza maturata in un decennio dai volontari di Sesta Opera San Fedele al fianco di condannati alle Misure Alternative, con lo scopo di aiutare la crescita di questo volontariato in grado di accompagnare i condannati che ben possiamo definire "invisibili". Esso non è primariamente un testo sulla condizione dei detenuti ¹, o sui condannati alle Misure Alternative ², o sul volontariato penitenziario in generale ³. Vuole piuttosto essere un manuale pratico con cui formare nuovi volontari che si dedichino al volontariato penitenziario nel nuovo settore dei condannati alle Misure Alternative, e alle pene di comunità più in generale, condanne che si scontano fuori dal carcere, sul territorio, tra le nostre case, un settore del volontariato penitenziario quasi del tutto sconosciuto e anch’esso invisibile per la società.

    La crescita del volontariato in questo campo è importante tanto più ora che lo Stato sta imboccando decisamente la via delle Misure Alternative e delle Misure e Sanzioni di comunità ⁴, come via maestra per contenere in limiti accettabili la popolazione carceraria, e ancor di più per fare della pena uno strumento utile al reinserimento dei condannati nella società, abbassandone la recidiva, riducendo i costi relativi, e dando sempre più attuazione al mandato riportato nel comma 3 dell’art. 27 della Costituzione italiana.

    Il contesto storico

    Perché nuovo? Per la verità l’argomento non è affatto nuovo. Già la riforma dell’Ordinamento Penitenziario del 1975 mise finalmente in pratica, dopo molti anni, una prescrizione del dettato costituzionale rimasto per molto tempo inattuato.

    Si legge nella Costituzione, art. 27, terzo comma:

    "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

    Principio basilare di questa concezione è che la pena possa e debba essere tendenzialmente rieducativa, e cioè debba includere una serie di attività e interventi di natura trattamentale, finalizzati al reinserimento sociale del detenuto. Le misure alternative alla detenzione, o, più in generale, le pene di comunità, rappresentano una delle più importanti innovazioni in funzione del concetto di flessibilità della pena nella fase esecutiva.

    Questo cambiamento ha portato all’attribuzione da parte di un organo della giurisdizione, il Tribunale di Sorveglianza, (introdotto con la legge 354/75, l’Ordinamento Penitenziario (O.P.)) della facoltà di modificare la quantità e la qualità della pena.

    La legge Gozzini già nel 1986 (legge 663) ripropose il concetto di flessibilità della pena, ma con una visione mirata a responsabilizzare il condannato e ad incentivare la sua collaborazione al trattamento rieducativo. La valutazione dei requisiti per accedere ai benefici penitenziari e alle misure alternative non si basò più su una valutazione statica della personalità, ma sull’interazione dinamica tra Istituzione e detenuto.

    Ma è sorprendente come l’area delle pene scontate fuori dal carcere, nota anche come ‘extra-muraria’, resti ancor oggi del tutto sconosciuta non solo a gran parte della opinione pubblica, ma anche a quei settori della società civile che possono essere considerati a ragione come gli addetti ai lavori in tema di detenzione quali di fatto sono tutte le associazioni, le cooperative sociali, o i tanti gruppi di volontariato penitenziario in Italia.

    Se guardiamo i numeri vediamo che oggi sono circa 10 mila i volontari che prestano la loro attività all’interno delle carceri italiane (di cui circa il 20% ex art. 78 O.P. e l’80% ex art. 17 O.P.)² ma solo poco più di cento si dedicano formalmente alla detenzione fuori dal carcere (ex art. 78 O.P.) in Italia ⁵.

    Da cosa dipende questa sproporzione di risorse tra il dentro e il fuori? Dipenderà forse dal fatto che i detenuti in misure alternative sono una frazione trascurabile rispetto ai detenuti in carcere? Per rispondere a questa domanda dobbiamo far riferimento ai dati del Ministero di Giustizia.

    Gli anni 1990-2010: dal wel-fare al prison-fare

    Chi è il soggetto sottoposto a misure penali? Sempre considerando i dati esposti, si tratta in misura maggiore di persone fragili, le più fragili, quelle che hanno meno strumenti per risolvere da sole i loro problemi.

    Le pene in generale colpiscono in minima parte situazioni di forte gravità e di pericolosità reale, mentre riguardano in misura enorme persone con scarso capitale sociale e/o culturale (ovvero con difficoltà lavorative, esigue reti relazionali, difficile accesso alle risorse del territorio e della comunità, stranieri, ecc.).

    Vediamo inoltre che il detenuto sottoposto a misura penale diversa dalla detenzione spesso è giovane, maschio, con caratteristiche culturali, lavorative esocio-economiche problematiche. Questa dato emerge soprattutto negli ultimi anni, indice che la pena viene comminata sempre più allo scopo di affrontare i problemi della povertà oltre che della criminalità, in quanto criminalità e povertà sono da sempre un binomio quasi inscindibile. In questi ultimi anni si è parlato, infatti, di carcere come di una discarica sociale.

    Proprio dagli anni Novanta, quando crebbe in modo vertiginoso il numero dei detenuti, venne a mancare la spinta – intesa come capacità di intervento e di motivazione all’intervento – verso il welfare sociale e previdenziale. Per una serie complessa di motivi, non solo di natura finanziaria, diminuì la spinta verso il welfare e crebbe il ricorso alle misure penali.

    Ci sono autori⁶ che hanno ipotizzato una specie di osmosi tra i sistemi penale e sociale, che arriverebbe alla sostituzione progressiva e totale di tutte le misure di aiuto economico e di servizio sociale alle persone, con il ricorso a misure retributive o di incapacitazione. Un cambiamento per identificare il quale si è coniato il neologismo prison-fare.

    Sembra che siano venute a mancare la voglia, le risorse, le capacità di intervenire sul territorio per ricucire gli strappi e i conflitti che si creano nelle comunità, per cercare soluzioni che, almeno in linea di principio, da una parte prevengano i crimini e, dall’altra, puniscano chi li compie. La realtà è invece molto più complessa.

    I preconcetti della nostra società

    L’intento che negli ultimi decenni spinse sempre più convintamente il legislatore verso le Misure Alternative, e oggi verso le Misure e Sanzioni di comunità, è quello di far sì che il carcere tenda ad essere sempre più l’extrema ratio, limitato a quei casi in cui non è possibile pensare a una forma diversa di esecuzione della pena.

    Tuttavia, il concetto che il carcere possa essere una misura residuale e che altri debbano essere gli interventi di gestione della pena, non incontra particolare favore nella nostra società. Il motivo razionale è che il carcere, da quando esiste, si è dimostrato una misura inefficace al raggiungimento degli obiettivi che ne giustificano l’esistenza.

    Già alla fine dell’Illuminismo e dell’Ottocento chi propose una riforma penitenziaria (ricordiamo, per tutti, Cesare Beccaria) denunciò che il carcere aveva troppi difetti e inefficienze per poter raggiungere l’obiettivo di restituire alla società una persona in grado di restarci senza più commettere i reati per i quali ne era stata allontanata ⁷.

    Gli attuali dati sulla recidiva dei detenuti confermano che ancora oggi è così mentre la recidiva di chi ha usufruito delle Misure Alternative è decisamente inferiore ⁸. La recidiva che, nella esecuzione in misura alternativa, dopo sette anni dalla conclusione delle misure (dall’inizio 1999 alla fine 2005), si colloca intorno al 19%, raggiunge invece il 68,4%, sempre dopo sette anni dalla conclusione della pena, quando la stessa è eseguita in carcere. Questi sono i dati risultanti all’Osservatorio delle misure alternative della Direzione generale della esecuzione penale esterna del Dipartimento della amministrazione penitenziaria (DAP)⁹.

    Nonostante l’evidenza di questo stato di fatto, l’opinione pubblica, i mass media e, quindi, la politica, sono fortemente contrari a fare del carcere una extrema ratio.

    Il sovraffollamento carcerario: l’evoluzione del problema

    Dopo oltre 30 anni di crescita continua¹⁰, con la sola eccezione degli anni dal 2005 al 2008 per effetto dell’indulto, la popolazione carceraria italiana è arrivata a sfiorare il tetto delle 68.000 presenze nel 2010.

    Da quel momento, un po’ per effetto delle pressioni del presidente Napolitano, ma soprattutto di quelle della Cedu, la Corte Europea per i Diritti Umani ¹¹, possiamo dire che l’Amministrazione Penitenziaria ha iniziato a voltare pagina.

    Per la prima volta, infatti, dopo il 2010 inizia una riduzione continua della presenza di detenuti nelle nostre carceri, come si vede nella figura che segue, cui corrisponde un aumento progressivo del ricorso alle Misure Alternative, che a fine 2016 toccano le 42.917 presenze in carico (vedi la Scheda 1) contro le 54.653 unità presenti in carcere.

    Queste cifre, tradotte in termini di sovraffollamento medio nazionale, corrispondono al passaggio dal 50,9% in più di presenze rispetto ai posti disponibili in carcere del 2010 all’attuale 8,8%. Nello stesso periodo la percentuale dei condannati alle Misure Alternative, calcolata rispetto alla popolazione carceraria, passa da circa il 21% all’attuale 78,5%.

    Queste le dimensioni numeriche della detenzione e dei condannati in Italia oggi. Il grafico che segue mostra l’evoluzione temporale delle due popolazioni.

    L’andamento storico dipende da una serie di fattori legislativi e politici che vanno al di là dello scopo di questa pubblicazione. Quello che ci interessa è vedere come la popolazione dei condannati alle misure alternative non sia affatto trascurabile, anzi già dal 2014 i casi trattati nell’anno (che sono molti di più di quelli in carico a fine anno) hanno superato il numero dei detenuti presenti. Quindi la popolazione dei condannati alle Misure Alternative non è affatto secondaria. Il fatto che il volontariato penitenziario non si sia dedicato a questa area non dipende quindi da una dimensione trascurabile del problema.

    I condannati alle Misure Alternative: una popolazione ‘invisibile’. Perché?

    La realtà dei condannati alle Misure Alternative è invisibile nell’immaginario collettivo italiano per almeno tre ragioni principali, che spiegano perché non esiste oggi una presenza significativa del volontariato in questo settore: una ragione prettamente legislativa, una ragione culturale e una ragione pratica.

    La prima risiede nel fatto che sinora l’apparato legislativo del nostro Stato (a partire dall’Ordinamento Penitenziario del 1975, Legge 354/75 e leggi successive), in particolare nella detenzione domiciliare, che assorbe circa il 30% del totale dei condannati alle Misure Alternative, prevede la sola partecipazione di persone singole autorizzate della Amministrazione Penitenziaria ex art. 78 O.P. Cosa accade nella applicazione pratica di questa norma? Accade che tipicamente la procedura per ottenere questa autorizzazione richiede un anno e oltre per rilasciarla: un tempo troppo lungo per la maggior parte delle poche persone che intendono dedicarsi a questo servizio. La nostra esperienza dice che 3 volontari su 4, dopo aver fatto un corso di formazione specifico, quindi motivati, abbandonano la loro scelta per questo volontariato durante quel periodo.

    La seconda ragione è di natura essenzialmente culturale ed è legata all’informazione distorta ricevuta dal grande pubblico: tutta la stampa e i mass media parlano quasi esclusivamente di quello che accade in carcere e molto raramente di Misure Alternative, tranne che per riportare qualche caso eclatante legato o alla notorietà del singolo condannato o per parlare in modo scandalistico della fuga di qualche condannato alle Misure Alternative, ignorando bellamente i dati statistici sulla recidiva in questo settore. Nell’immaginario collettivo quindi la realtà della detenzione extra-muraria, o delle pene di comunità, non esiste, e se esiste è considerata negativamente. Di questo stato di cose ne risentono anche per i membri delle stesse associazioni di volontariato o del Terzo Settore che si occupano quasi esclusivamente del mondo della detenzione in carcere e quasi mai di cosa accade ‘fuori’. Risultato: pochissimi volontari si dedicano ai condannati alle Misure Alternative o alle sanzioni di comunità ¹².

    E dire che i dati sulla recidiva darebbero ragione per optare proprio per un volontariato extra-murario, perché, secondo i dati del DAP, molto più efficace nell’opera di reinserimento dei detenuti, quindi per la stessa sicurezza della società. Un altro dato sorprendente! E ancor più sorprendente è come questo dato fondamentale per la sicurezza sociale venga regolarmente ignorato dai mass media!

    Inoltre, il dato sulla recidiva associato al dato sul numero dei volontari fuori dal carcere inducono a riflettere seriamente sulla ragionevolezza della stessa detenzione in carcere. I due dati presi insieme dicono che una recidiva così bassa nell’area delle Misure Alternative, visto il numero residuale dei volontari che operano in questo settore, non dipende della presenza del volontariato, come avviene in carcere, ma dipende dalle stesse condizioni della pena scontata all’esterno del carcere, molto diverse da quelle tipiche degli istituti penitenziari.

    Dal che si deduce che il carcere, così come è oggi, è poco funzionale alla sicurezza della società.

    Conclusione logica, basata sui dati ufficiali del Ministero, ma sinora del tutto minoritaria, soprattutto sui mass media, che si muovono spesso in direzione contraria, e tra i nostri politici, che preferiscono far leva sulla emotività dell’opinione pubblica piuttosto che sulla sua intelligenza.

    Per capire la terza ragione di ordine pratico guardiamo all’esperienza fatta dai volontari della Sesta Opera San Fedele di Milano che collaborano sin dal 2004 con l’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna (U.EPE)¹³ di Milano e Lodi, da cui risulta evidente come le difficoltà di questo tipo di volontariato siano di gran lunga superiori a quelle del volontariato in carcere. Per diversi motivi.

    Innanzitutto in carcere il detenuto è isolato dal suo contesto di relazioni familiari e sociali, è osservato dagli educatori, dagli agenti di polizia penitenziaria, dagli operatori che lavorano in carcere, dalla Direzione, insomma il volontario che segue un detenuto in carcere non è solo nel suo servizio, in più si occupa principalmente delle condizioni del reo, e saltuariamente di altre persone a lui collegate. Il volontario che segue un tipico caso di condannato alla detenzione domiciliare, per esempio, deve agire, di fatto, da solo¹⁴ e costantemente a contatto non solo con la persona condannata ma anche con tutto il suo ambiente familiare e sociale, spesso molto complesso, come vedremo nei due casi che tratteremo più avanti.

    La prima causa potrà essere rimossa dal Parlamento¹⁵, la seconda causa va scalzata con un grande lavoro informativo e culturale¹⁶, la terza è intrinseca al lavoro di questo volontariato. Questo testo può aiutare a ridurre la seconda e a dare gli strumenti culturali, pratici e psicologici per affrontare e superare la terza difficoltà. Tutte queste considerazioni più che indurci allo scoraggiamento e alla sfiducia nei mezzi a disposizione e nelle nostre capacità di fronte ad un compito sicuramente arduo, ci spronano a fare di più, a raddoppiare gli sforzi, a produrre strumenti che oggi non esistono perché altri possano avvalersene e seguire le nostre tracce nel prossimo futuro. Questo è esattamente lo scopo di questa pubblicazione. Tanto più che lo scenario che abbiamo di fronte è in evoluzione, in sintonia con quanto altri paesi hanno già sperimentato.

    Oltre le Misure Alternative: un salto culturale

    In questi ultimi anni sta maturando anche in Italia una nuova sensibilità che porta al rovesciamento del modo di procedere della giustizia nei confronti dei condannati. Finora lo schema applicato, in estrema sintesi, è stato questo: chi ha commesso un reato e viene processato inevitabilmente viene condannato al carcere o assolto. Dopo la condanna, nei casi e se ci sono le condizioni previste dalla legge, la condanna penitenziaria può essere trasformata in una Misura Alternativa. Chi non rispetta la Misura Alternativa torna in carcere.

    Questo è uno schema carcero-centrico, tanto che anche le pene extra murarie sono chiamate: Misure Alternative (al carcere).

    Viceversa¹⁷ ci si è resi conto che già la nostra Costituzione non ha il carcere come suo punto di riferimento primario quanto piuttosto la pena. La Costituzione considera il carcere effettiva eccezione e ultima ratio. Infatti:

    fa riferimento alle pene (art. 27), e non al carcere, che compare indirettamente solo a proposito della «carcerazione preventiva» per fissarne i limiti (art. 13)

    stabilisce rigorosi limiti al potere di limitare la libertà personale (art. 13) o stabilisce che la pena non possa essere contraria al senso di umanità (con il quale l’inflizione del male non è in sintonia, art. 27)

    stabilisce che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato (art. 27)

    stabilisce che la rieducazione ha come fine l’uso consapevole della libertà (acquisizione di responsabilità: art. 1, democrazia e sovranità popolare; art. 2, richiesta di adempimento dei doveri di solidarietà; art. 4, dovere di svolgere attività o funzioni che promuovano il progresso)

    vieta qualsiasi forma di violenza fisica e psichica nei confronti di chiunque si trovi in condizioni di libertà personale ristretta (art. 13).

    Nella prospettiva della Costituzione (e della normativa europea) le misure penali di comunità devono essere la regola, e il carcere l’eccezione. Il carcere, quindi, va utilizzato, in una forma che rispetti il contenuto degli articoli 1, 2, 4, 13 e 27 della Costituzione, nonché della normativa europea, solo ed esclusivamente nei confronti di persone pericolose, la cui pericolosità non possa essere elisa dalle misure di comunità.

    Infatti:

    non è giustificato limitare totalmente la libertà personale quando si potrebbe garantire la sicurezza dei cittadini attraverso altre misure (in proposito sarebbe molto efficace spostare l’attenzione della pubblica opinione sul piano della garanzia dei diritti individuali propri: «cosa penseresti se dovesse succedere a te?»)

    la sicurezza si garantisce attraverso il reinserimento del trasgressore nella comunità con la relativa sicurezza che si asterrà dal commettere in futuro ulteriori (rilevanti) trasgressioni

    per ottenere il risultato è necessario utilizzare uno strumento idoneo allo scopo.

    Quindi, per fare qualche esempio:

    per quel che riguarda le persone che trasgrediscono per necessità vanno rimosse le cause che rendono necessitata la trasgressione (è necessario per esempio che nessuno si trovi nella condizione di dover rubare per sfamarsi). In questi casi occorrerebbe pensare ad una implementazione degli interventi sociali e ad eventuali percorsi per il risarcimento del danno di natura civilistica.

    per chi trasgredisce per dipendenza la risposta deve essere la cura della dipendenza, in un ambiente adatto alla cura, che abbia caratteristiche custodiali limitate a coloro che siano veramente pericolosi (e senza che ciò si trasformi in una specie di privatizzazione del carcere) e che non confliggano con la buona riuscita della cura

    per chi trasgredisce per motivi passionali che sia accertato essere occasionali e non ripetibili la risposta logica dovrebbe consistere nel risarcimento del danno e in forme di riparazione. Ove i motivi persistano al percorso riparativo andrebbe affiancata una misura di tutela sociale.

    Da queste considerazioni nasce una nuova visione per affrontare il reato: innanzitutto il processo non è l’unica forma di procedere alla condanna o alla assoluzione. Il processo può essere sospeso nei casi previsti dalla legge e il ‘reo’ deve ottemperare ai compiti che il giudice gli assegna. Se li rispetta il processo è estinto e non si arriva alla condanna/assoluzione. Nei casi più gravi il processo finisce di norma con la condanna ad una pena di comunità, se questa è rispettata si torna in libertà. Se si trasgredisce il giudice può comminare altre pene di comunità sempre più restrittive, se non si rispettano neanche queste non resta che la condanna al carcere.

    Secondo questa visione il carcere è davvero una ‘extrema ratio’ e scompare la dizione ‘Misure Alternative’, che inevitabilmente rimanda al carcere come riferimento implicito (in quanto alternative al carcere), ma si preferisce parlare di ‘pene di comunità’ secondo un linguaggio più aderente allo spirito della nostra Costituzione che all’art. 27 fa riferimento alla pena, non al carcere.

    Una responsabilità verso il paese, oltre che verso se stessi

    Sebbene, paradossalmente, la condanna per Etrattamenti inumani e degradanti, ovvero per la violazione dell'articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo pronunciata dalla Corte europea contro l’Italia abbia di fatto reso chiaro che le Misure Alternative al carcere, ampliate fino alle sanzioni penali di comunità, saranno la via maestra da seguire nei prossimi anni 18, resta sempre reale la tendenza alla emarginazione di gruppi sociali (per esempio alle popolazioni nomadi ¹⁹) e ad attribuire loro patenti di rischio di reato. Continua però a mancare la fase in cui la comunità si accosta all’idea di ricucire le lacerazioni che si sono prodotte nel suo territorio. In questa situazione il contributo del volontario penitenziario risulta vitale, perché permette di dimostrare concretamente, operando sul territorio, che è possibile, e funziona, una forma diversa di esecuzione della pena e di riconoscimento di responsabilità, una forma cioè che non punti a ripagare il male con il male ma a ricucire le lacerazioni. La presenza e l’impegno del volontariato penitenziario possono alimentare la speranza che le pene alternative al carcere diventino una prassi comune, efficace e consolidata, pienamente incorporata nel sistema penale e soprattutto nella pratica esecuzione della condanna.

    Non basta. Dobbiamo approfondire la consapevolezza delle nuove responsabilità del volontario penitenziario.

    Normalmente il volontario avverte un suo bisogno personale di interagire, di sviluppare relazioni umane con l’altro. E questo va benissimo. Esistono però anche altre esigenze, oltre quelle personali.

    E anche queste sono fondamentali. È infatti la situazione oggettiva del nostro paese a chiedere, con urgenza, che questo tipo azioni, sostenute da solide esperienze formative, vengano potenziate e vengano accresciute e diffuse nel territorio²⁰. E questo è un bisogno della società tutta: volontari e non volontari, persone libere e persone ristrette.

    È doveroso guardare all’impegno del volontariato anche dal punto di vista della società cui apparteniamo e che esige volontari che si dedichino sempre di più alle Misure Alternative o alle Misure e Sanzioni di comunità che trovano la loro applicazione proprio fuori dal carcere, volontari oggi quasi inesistenti, ma che dovranno esistere nei prossimi anni.

    Non lo diciamo noi, lo dicono le scelte fatte in Italia in campo penitenziario e la loro recente evoluzione legislativa. Questa guida teoricopratica ha esattamente lo scopo di sostenere quelle scelte aiutando la crescita numerica e qualitativa del volontariato in questo settore.

    Da dove nasce questo testo?

    Dopo una prima esperienza formativa rivolta ai volontari per le Misure Alternative, che risale al 2005, la nostra Associazione decise di organizzare uno secondo corso di formazione nel 2008/09 e un terzo nel 2011 dal titolo "I detenuti invisibili". I programmi relativi sono riportati nella Scheda 2 in fondo al testo. Molto del materiale che costituisce questo manuale è tratto da quelle esperienze formative.

    Data la natura ‘pionieristica’ della materia, la struttura del corso 2008 fu articolata in tre fasi distinte: prima una formazione teorica/esperienziale, seguita da una pratica sul campo di diversi mesi, e infine una riflessione comune in aula sulla esperienza fatta nei mesi precedenti.

    Crediamo che questa dinamica sia utilissima per il nostro agire in questo specifico volontariato che è nuovo, non ha tradizione, tantomeno condivisa, o punti di riferimento culturali o di buone prassi consolidate. La riproponiamo in questo testo, in particolare nel Capitolo 10.

    La struttura del libro

    Scopo di questo testo è quindi fornire ai nuovi volontari che desiderano occuparsi delle persone in Misure Alternative, o delle Misure e Sanzioni di comunità più in generale, le basi per capire in cosa consiste questo volontariato e come poterlo fare efficacemente e praticamente.

    Il testo è quindi articolato in tre parti: sapere, saper fare e saper essere:

    1) Sapere: ovvero le conoscenze teoriche di base e le informazioni che occorre avere per entrare in questo tipo di volontariato penitenziario;

    2) Saper fare: cioè imparare alcune dinamiche fondamentali per il volontario (per esempio, come gestire la relazione d’aiuto, o come lavorare in rete) e conoscere qualche esempio concreto per imparare come si può accompagnare una persona in misura alternativa;

    3) Saper essere: motivazioni e criteri guida dell’azione e dello stile del volontario penitenziario perché qualunque relazione umana mette in gioco globalmente la nostra persona.

    Seguono alcune Schede di esempi pratici. Il motivo di questa articolazione del testo sta nel fatto che il volontario penitenziario che si vuole dedicare alle Misure Alternative o alle Misure e Sanzioni di comunità dovrà continuamente integrare le tre aree del sapere, del saper fare e del saper essere nelle sue azioni quotidiane se vorrà avere una probabilità di successo nel suo servizio ai condannati. Ogni capitolo del Libro non intende essere una trattazione esaustiva ma una introduzione al tema trattato di cui propone solo gli aspetti più rilevanti in base alla nostra esperienza degli ultimi 10 anni.

    Ringraziamenti

    Un enorme grazie va a tutti i relatori dei vari corsi di formazione e ai volontari che hanno permesso la realizzazione di questa esperienza pilota in Italia, in primis alla dott.ssa Sonia Ambroset, responsabile scientifico che tanta passione ha messo nella conduzione del corso 2008, e alla dott.ssa Antonietta Pedrinazzi, all’epoca Direttrice dell’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (UEPE) di Milano e Lodi, ispiratrice della collaborazione tra Sesta Opera, Caritas Ambrosiana e Ministero di Giustizia, stretta collaboratrice nella gestione del corso 2008 e nella realizzazione di questo testo.

    Hanno contribuito come autori di vari capitoli di questo testo:

    Maria Laura Fadda, magistrato di Sorveglianza di Milano

    Guido Brambilla, magistrato di Sorveglianza di Milano

    Antonietta Pedrinazzi, già responsabile di UEPE di Milano e Lodi

    Adima Salaris, UEPE Lombardia

    Rosanna Giove, Medico Psichiatra Direttore Sociale ASL di Milano

    Paola Sacchi, Medico Psichiatra Responsabile SerT2 ASL di Milano

    Andrea Tollis, operatore della Associazione Ciao

    Claudio Cazzanelli, direzione della Coop. Sociale A&I

    Teresa Michiara, volontaria di Sesta Opera San Fedele

    Maria Grazia Verga, volontaria di Sesta Opera San Fedele

    Ringraziamo anche tutti i relatori intervenuti nei corsi di formazione da cui molto è stato tratto. In particolare i docenti del corso 2008:

    Sonia Ambroset, psicologa e criminologa, responsabile scientifico

    Giovanni Ambrosoni, Ass. sociale UEPE

    Mirna Begnini, volontaria Sesta Opera SF

    Vincenzina Bilone, servizio interventi di recupero

    Guido Brambilla, magistrato di Sorveglianza di Milano

    Guido Chiaretti, Presidente di Sesta Opera San Fedele di Milano

    Sara Compagnoni, operatrice della Cooperativa A&I

    Claudia Cospito, Ass. sociale UEPE

    Maria Laura Fadda, magistrato di Sorveglianza di Milano

    Lidia Galletti, Ass. sociale UEPE, Coordinatrice progetto SP.IN.

    Monica Gasparini, responsabile Centro Aiuto Stazione Centrale di Milano

    Gabriella Gianfreda, Operatore Caritas

    Rosanna Giove, Medico Psichiatra Direttore Sociale ASL di Milano

    Massimiliano Mascheroni, Ass. sociale UEPE

    Andrea Molteni, Operatore Caritas

    Antonietta Pedrinazzi, Direttrice UEPE di Milano e Lodi

    Paola Sacchi, Medico Psichiatra Responsabile SerT2 ASL di Milano

    Andrea Serpi, operatore della Cooperativa A&I

    Tiziana Vegetti, psicologa di Sesta Opera San Fedele

    Ass. Capo Zanella, Ufficio Misure di Sicurezza e Prevenzione della

    Polizia di Stato

    Nel testo che segue, gli autori di un capitolo, o di parte di esso, sono citati quando sono identificabili, dove non lo sono il testo è una sintesi di contributi tratti dai vari corsi di formazione curata da Guido Chiaretti.

    Non ultimi per impegno ringraziamo i detenuti del settimo Reparto del Carcere di Bollate che con pazienza e dedizione hanno digitalizzato tutti i files audio delle lezioni. Il vivo ringraziamento dei volontari che hanno condiviso con loro questi anni va quindi a:

    Gabriel G., Marco E., Claudio R., Gigante C., Vittorio T., Emilio M., Fabio B., Massimo F., Sandro K., Roberto P., Alberto P., Giuseppe C., Omar C., Ghinea, Giuseppe L., Rosario, Ugo C., Mimmo. Ringraziamo infine Stefania Baldoni che ha collaborato alla revisione del testo.

    SAPERE

    Capitolo 1

    Alcune premesse per entrare in argomento

    Guido Chiaretti

    I preconcetti della nostra società

    L’intento che spinge sempre più convintamente il legislatore verso le pene in comunità è quello di far sì che davvero il carcere tenda ad essere l’extrema ratio, limitato a quei casi in cui non è possibile pensare a una forma diversa di esecuzione della pena.

    Tuttavia, il concetto che il carcere possa essere una misura residuale e che altri debbano essere gli interventi restrittivi, non incontra particolare favore nella nostra società. Il motivo razionale è che il carcere, da quando esiste, si è dimostrato una misura inefficace

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