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Il rovescio del sociale: Appunti per una clinica sociologica
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E-book94 pagine41 minuti

Il rovescio del sociale: Appunti per una clinica sociologica

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Il disagio del soggetto contemporaneo assume oggi forme inedite ed i suoi sintomi si mostrano nel sociale: quel grande dipinto dove ognuno di noi indirizza lo sguardo in cerca di un punto che lo riguardi, di uno spazio che gli restituisca un senso al suo esistere in mezzo agli altri. Nello sguardo dell’osservatore che cerca e non trova la sua collocazione nel grande quadro della società, prende forma lo smarrimento dell’uomo contemporaneo ed è lì che interviene la sociologia clinica. Nel legame spezzato tra il micro che è ognuno di noi e il macro che é fatto di codici, linguaggi, idee, opinioni e comportamenti collettivi: lì si colloca il lavoro del sociologo clinico.
LinguaItaliano
Data di uscita24 lug 2019
ISBN9788832760316
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    Anteprima del libro

    Il rovescio del sociale - Paolo Patuelli

    sociale.

    Introduzione

    Dopo molti anni di lavoro nel sociale, vagando dal ruolo di educatore a quello di mediatore sociale, ho trovato un tempo adeguato per ascoltare con attenzione il desiderio di fare il mio mestiere: il sociologo. Quel lavoro da educatore e mediatore era il risultato di una non-scelta che, come tale, nel tempo, sapevo che prima o poi si sarebbe esaurita, sconfitta dal desiderio di vivere praticando la sociologia: la mia grande passione.

    Alla fine degli anni ’90 chi usciva dall’università con studi in scienze sociali andava a fare l’educatore: trovare lavoro come sociologo era, allora come oggi, una possibilità assai remota. Qualche tecnico o dirigente, dentro cooperative e servizi sociali, era incuriosito dalla prospettiva portata sul campo dal laureato in sociologia, forse perché affascinato o protagonista egli stesso della sociologia militante degli anni ‘70 o semplicemente perché aveva notato che lo scienziato sociale, nella pratica, faceva l’educatore in modo differente e originale.

    Per chi avesse voluto praticare il lavoro di sociologo (e da allora purtroppo nulla è cambiato), il panorama era composto da pochissimi concorsi con limitazioni assurde per potervi partecipare e da piccole realtà costruite da liberi professionisti un po’ estrosi e sognatori.

    Nei miei anni da sociologo dentro con il vestito da educatore fuori (forse anche nell’accezione del fuori dagli schemi), ho sempre tentato, a volte riuscendoci, di costruire legami di solidarietà e di aiuto partendo più che dalle norme nelle quali il mio operato era inquadrato, dal desiderio delle persone che si trovavano non per scelta loro ad essere utenti del servizio dove ero impegnato. Il mio principio guida era ed é tutt’oggi, il rispetto dell’unicità della persona, contro ogni forma di stigma, e nella resistenza all’inserimento delle persone in difficoltà in target. Questo a qualcuno piaceva e ad altri, colleghi e superiori, infastidiva. Ad un certo punto quel fastidio, chiamiamola pure antipatia reciproca, è entrato in collisione con quel mio agire nelle pieghe e a volte nonostante le regole imposte dai servizi nei quali operavo. Le richieste di rientrare nei ranghi si facevano più insistenti ed io mi sentivo sempre più dentro ad un sociale-al-lavoro ingabbiato dalla burocrazia e incline a pratiche di sorveglianza e controllo. Sorvegliare, punire ed educare, erano in sintesi le tre modalità operative a me richieste in prossimità della decisione definitiva di andarmene da quel mondo del sociale-al-lavoro.

    Per formazione, ma forse soprattutto per deformazione, sono un sociologo clinico e da quella posizione ora guardo il sociale che ho sempre considerato il vero sociale: il sociale che c’è, non quello inscatolato e confezionato dagli addetti ai lavori delle istituzioni e dai media, dagli esperti accademici e non, dai tecnici dei servizi e dai politici in cerca di consenso. Non è più, per me, il sociale-educato dagli educatori e nemmeno quello disciplinato dalle discipline (più o meno umane e/o umanistiche). È piuttosto il sociale che afferma e contemporaneamente nega se stesso, incoerente, equivoco, enigmatico: il sociale buono e cattivo, vero e falso, idealizzato e mai realizzato o realizzato senza un’idea che lo sostiene. Ma soprattutto è il sociale dell’esperienza quotidiana del legame sociale, in tutte le forme che quest’ultimo assume.

    Gli articoli raccolti in questo testo sono esercizi per entrare in questo sociale. In questi brevi scritti ho cercato di guardare, ma forse meglio di sentire la realtà complessa e difficile in cui noi tutti siamo diversamente immersi. Se il lavoro è stato estromesso e marginalizzato dall’agenda politica e avanzano forme di odio per il diverso, se a fronte di uno sviluppo accelerato della tecnica non si valutano le conseguenze di questa dinamica sulla qualità dei legami sociali e se la rete non è proprio il luogo idealizzato e progettato dai nuovi guru per dare corpo all’intelligenza collettiva, dovremmo prendere atto che tutto questo è il sociale che avanza. E se il sociale è tutto questo, pieno di contraddizioni e perverso in certe sue espressioni, occorre, per diagnosticarne e curarne le forme contemporanee di disagio, rovesciare lo sguardo facendo un esercizio di attenta osservazione e valutazione critica. Separare l’immaginario nel quale siamo immersi da quanto invece si presenti come reale e in quanto tale lascia ferite, segni indelebili sui nostri corpi e nella nostra psiche. Nel bene e nel male il sociale é ciò che sta fuori, là dove ognuno cerca il suo posto e la sua soddisfazione e allo stesso tempo sta dentro come rappresentazione, idea che abbiamo di noi stessi quando ci pensiamo nei legami sociali in cui siamo implicati. Quando il posto là fuori, dove è l’altro che dà vita al sociale quando con esso facciamo legame, non si trova più e quando questa mancanza diventa assenza (mancanza di senso), che cosa accade dentro di noi? E quando dentro non riusciamo più a rappresentarci come punto di una rete solida di legami dove il fuori ha un senso, che cosa accade?

    Il disagio del soggetto contemporaneo assume oggi forme inedite ed i suoi sintomi si mostrano nel sociale: quel grande dipinto dove ognuno di noi indirizza lo sguardo in cerca di un punto che lo riguardi, di uno spazio che gli restituisca un senso al suo esistere in mezzo agli altri. Nello sguardo dell’osservatore che cerca e non trova la sua collocazione nel grande quadro della società, prende forma lo smarrimento dell’uomo contemporaneo ed è lì che interviene la sociologia clinica. Nel legame spezzato tra il micro che è ognuno di noi e il macro che é fatto di codici, linguaggi, idee, opinioni e comportamenti collettivi (o rivolti alla collettività da leader che hanno più o meno un’opinione): lì si colloca il lavoro del sociologo clinico.

    Tutti noi mettiamo in gioco la nostra identità in quella dialettica senza fine tra oggetto e soggetto, tra micro e macro, tra uno e moltitudine, che chiamiamo il sociale. Quel sociale che ci comprende e che contemporaneamente vorremmo che ci comprendesse. In questa esperienza di incontro che ognuno realizza in maniera singolare sempre più spesso qualcosa s’inceppa, lasciando in noi un segno, una ferita. Di questo sociale, esperienza soggettiva nel quotidiano che lascia segni più o meno profondi nelle nostre esistenze non ne parliamo volentieri

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