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Il tempo di Alice: La famiglia Ferrante
Il tempo di Alice: La famiglia Ferrante
Il tempo di Alice: La famiglia Ferrante
E-book233 pagine3 ore

Il tempo di Alice: La famiglia Ferrante

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Info su questo ebook

Si dice che  il dolore dell’anima abbia il potere di rallentare il tempo.

La famiglia Ferrante conosceva bene quel tipo di potere, specialmente Alice. Ogni anno che aveva vissuto le era pesato almeno il doppio e spesso la sera, non riuscendo a dormire, andava a caccia di momenti felici. Trascorreva notti intere sveglia in cerca di emozioni, mentre la luce fioca della luna rovistava fra gli anfratti oscuri della sua memoria. Rammentava gli anni in cui era stata una bambina allegra e spensierata,  quando correva a perdifiato insieme ai suoi fratelli sotto casa, o in riva al mare. Quando il suo colore preferito era il rosa e sua madre profumava di sapone di Marsiglia.
L’insonnia aveva iniziato a rubarle il sonno nell’anno duemila, quando, la sorella gemella Isabella si era gravemente ammalata di depressione e lei cercava di sopravvivere a quell’immenso dolore. In quegli anni non aveva amici e la solitudine l’avvolgeva notte e giorno come nebbia.
Nella sua breve esistenza aveva capito che la felicità era effimera come la vita di una farfalla, inebriante come un bicchiere di room e potente come l’amore. Nei momenti in cui si sentiva triste attingeva a quei ricordi felici per testimoniare a se stessa l’abilità del tempo di scorrere senza cancellare.
La sua testa era diventata un pozzo di pensieri e l’unico modo per svuotarla era quello di alzare a tutto volume la musica del suo iPod. Marvo Alelí era il suo cantante preferito dall’età di undici anni. La sua voce era diventata la colonna sonora della sua vita. Impazziva per le sue canzoni che parlavano d’amore e si lasciava completamente assorbire dalle sue melodie.

Che cos’è l’amore?
Se l’era chiesta un centinaio di volte e puntualmente le arrivava la risposta di suo nonno che, con la sua espressione saggia, le rispondeva gioioso:
"L’amore è quel sorriso che avrai ogni volta che penserai a me quando sarai grande”.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita29 gen 2024
ISBN9791254584927
Il tempo di Alice: La famiglia Ferrante

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    Anteprima del libro

    Il tempo di Alice - Marie Dupont

    Introduzione:

    Si dice che il dolore dell’anima abbia il potere di rallentare il tempo. La famiglia Ferrante conosceva bene quel tipo di potere, specialmente Alice. Ogni anno che aveva vissuto le era pesato almeno il doppio e spesso la sera, non riuscendo a dormire, andava a caccia di momenti felici. Trascorreva notti intere sveglia in cerca di emozioni, mentre la luce fioca della luna rovistava fra gli anfratti oscuri della sua memoria. Rammentava gli anni in cui era stata una bambina allegra e spensierata, quando correva a perdifiato insieme ai suoi fratelli sotto casa, o in riva al mare. Quando il suo colore preferito era il rosa e sua madre profumava di sapone di Marsiglia.

    L’insonnia aveva iniziato a rubarle il sonno nell’anno duemila, quando, la sorella gemella Isabella si era gravemente ammalata di depressione e lei cercava di sopravvivere a quell’immenso dolore. In quegli anni non aveva amici e la solitudine l’avvolgeva notte e giorno come nebbia.

    Nella sua breve esistenza aveva capito che la felicità era effimera come la vita di una farfalla, inebriante come un bicchiere di rum e potente come l’amore. Nei momenti in cui si sentiva triste attingeva a quei ricordi felici per testimoniare a se stessa l’abilità del tempo di scorrere senza cancellare.

    La sua testa era diventata un pozzo di pensieri e l’unico modo per svuotarla era quello di alzare a tutto volume la musica del suo iPod. Marvo Alelí era il suo cantante preferito dall’età di undici anni. La sua voce era diventata la colonna sonora della sua vita. Impazziva per le sue canzoni che parlavano d’amore e si lasciava completamente assorbire dalle sue melodie.

    Che cos’è l’amore?

    Se l’era chiesta un centinaio di volte e puntualmente le arrivava la risposta di suo nonno che, con la sua espressione saggia, le rispondeva gioioso: L’amore è quel sorriso che avrai ogni volta che penserai a me quando sarai grande.

    1. Un regalo inaspettato

    La famiglia Ferrante viveva al numero cinque di Vico della Lepre. I famosi vicoli del centro storico di Genova. Un dedalo di viuzze popolate da tutte le razze, stradine strette che andavano a intersecarsi con i palazzi storici della città.

    Delinquenti, spacciatori e prostitute si aggiravano giorno e notte indisturbati tra i meandri abbandonati di quei carruggi intrisi di orina ubriaca e fritto misto di mare. I bambini, senza alcuna paura, giocavano a nascondino e a guardie e ladri, in mezzo a quelle losche figure.

    Si conoscevano tutti e Antonio Ferrante era un uomo rispettato.

    Anche i suoi tre bambini potevano permettersi di giocare tranquilli fuori casa.

    D’estate andavano fino al porto antico, mangiavano un gelato e facevano la guerra con i palloncini pieni d’acqua, d’inverno si divertivano a pattinare sulla piccola pista di ghiaccio gestita da un loro amico di famiglia.

    Il loro appartamento era piccolo e si trovava al primo piano di una palazzina fatiscente, che i nonni paterni gli avevano donato per il matrimonio secondo le loro possibilità. Uno dei pochi privilegiati ad avere il bagno, gli altri caseggiati avevano un bagno in comune per ogni piano.

    Alice, Isabella e Umberto condividevano la stessa minuscola stanza con un letto a castello a tre posti. Avevano una scrivania in legno di compensato bianco e un armadio dello stesso colore che negli anni avevano ricoperto di adesivi colorati e ritagli di giornale.

    Erano i primi anni Novanta e in quel tempo i soldi in casa Ferrante scarseggiavano. Antonio era sempre via per lavoro, trovava piccoli lavoretti in giro per l’Italia che non gli permettevano di guadagnare abbastanza da pagare i suoi debiti e mantenere i suoi tre figli: le gemelle e il fratellino Umberto di due anni più piccolo. Sua moglie Eleonora si occupava dei bambini e ogni tanto faceva la colf in alcune famiglie benestanti del centro, nonostante ciò, facevano fatica a sbarcare il lunario.

    In quei vicoli ognuno di loro aveva mosso i primi passi e forgiato il proprio carattere. Alice aveva imparato a difendersi, a differenziare il bene dal male. A non fidarsi delle apparenze. Aveva imparato a cavarsela da sola. Ogni giorno d’estate lei e il suo gruppetto di amici, insieme a sua sorella Isabella andavano a caccia di avventure e tornavano a casa all’ora di cena. Durante l’anno frequentavano la scuola e dopo si riunivano tutti in piazzetta con le mamme a far merenda e a scambiarsi le figurine.

    I bambini dei vicoli diventavano grandi in fretta.

    A undici anni Alice e Isabella avevano dato il loro primo bacio a una prostituta di circa vent’anni. La incontravano sempre mezza nuda e ubriaca seduta sotto casa ad attendere i suoi clienti e la guardavano di sottocchio, sghignazzando fra loro per l’estroso abbigliamento. Un po’ invidiosa di quella spensierata infanzia, la ragazza aveva deciso di rubargliela insegnando loro a limonare. Anche se le piccole non avevano questo desiderio lei puntualmente le stuzzicava. La stessa cosa aveva fatto con gli altri loro amichetti: a uno a uno li aveva baciati tutti. La prima che baciò fu Isabella e dopo alcuni giorni toccò anche ad Alice. Fu un bacio viscido al sapore di alcol che le due ragazze si pulirono all’istante con il bordo della maglietta.

    Ormai tutti i bambini del gruppo avevano dato il loro primo bacio. Poco tempo dopo i maschietti ebbero con la prostituta anche i loro primi rapporti sessuali. E Alice per scacciare via quel gusto di trasgressione che le era rimasto sulle labbra, volle baciare il ragazzino che incontrava spesso sulla pista di pattinaggio. Si chiamava Alberto, era un biondino smilzo e con l’apparecchio ai denti. Era stato un bacio a bocca aperta, lingua contro lingua. Un bacio impacciato e breve. Non era stato diverso dal bacio con Loredana nel gesto ma lo era stato nel sapore: il bacio con Alberto sapeva di pulito, di buono. Alice teneva un diario con la copertina di lupo Alberto e il lucchetto. Era stato un regalo di mamma Eleonora per il suo sesto compleanno.

    E fin da quando aveva iniziato la prima elementare annotava ogni avvenimento importante della sua vita. Tralasciò la prostituta e scrisse con data e ora il suo primo bacio.

    Abitarono nel centro storico fino alla morte della nonna materna, quando finalmente la loro situazione economica migliorò.

    Avevano ereditato la sua casa e cento milioni di lire. Quando era in vita la madre di Eleonora non aveva mai tirato fuori un soldo per aiutali, odiava Antonio e non aveva accettato il fatto che la sua unica figlia aveva scelto di condividere la sua vita con chi lei giudicava come uno sprovveduto. Gli avrebbe rovinato la vita. Pensava. Quando seppe che non se la passavano bene economicamente fece orecchie da mercante e li aiutò soltanto a pagare le utenze di luce e gas per non lasciarli al buio e al freddo.

    Le bambine avevano da poco compiuto quindici anni mentre Umberto ne aveva tredici. Antonio ed Eleonora riuscirono a vendere quella casa nel giro di qualche mese e con i soldi ricavati ne acquistarono un’altra nella periferia della Valpolcevera; la casa si trovava in un quartiere piccolo, verde e pulito. Con il resto dei soldi acquistarono un piccolo bar nel centro di Genova.

    La nuova casa era una villetta indipendente di circa centoquaranta metri quadri, distribuita su due livelli e circondata da un prato con l’erbetta americana, una reggia in confronto alla bettola dove erano cresciuti.

    Alice e Isabella avevano una camera tutta per loro, con il tetto mansardato e le travi a vista.

    Capitava spesso di sorridere senza un motivo, Alice si guardava intorno e non le sembrava vero. Era felice della loro nuova vita.

    In tutta la casa il pavimento era costituito da un parquet di faggio. Aveva la facciata dipinta di rosa e il tetto a spiovente in tegole rosse dal quale spiccava il comignolo del grande camino del salone. L’arredamento era shabby chic, composto da alcuni mobili recuperati dalla casa della madre di Eleonora e scelti con cura in base a quanto rispecchiavano la sua personalità. Eleonora era una donna forte, pronta a plasmarsi e adattarsi per amore a ogni cambiamento. Aveva scelto tende lunghe e candide di color avorio e aveva sistemato alcuni vasi di primule colorate e viole del pensiero sui davanzali delle finestre. Il padre era morto di ictus pochi mesi prima che lei si sposasse, la sua perdita fu un grande dolore per Eleonora.

    Avevano fatto ridipingere di azzurro polvere la vecchia cucina Scavolini della loro prima casa e ora era tornata nuova; si adattava perfettamente alla nuova casa.

    La stanza di Umberto era accanto a quella delle sorelle, oltre al letto e a un armadio a specchio aveva un divano in similpelle nera con la seduta a contenitore che ospitava la sua amata chitarra Gibson del 1985, un regalo per i suoi undici anni da parte del padrino di battesimo che conservava come una reliquia. Aveva imparato a suonare la chitarra grazie all’ACR (Associazione Cattolica Italiana), un gruppo di chiesa che ogni domenica riuniva bambini dai quattro ai quattordici anni coinvolgendoli in varie attività. Erano simili ai boy-scout e Umberto partecipava alle riunioni con regolarità fin dall’età di sei anni.

    Alice, dopo scuola, trascorreva le giornate in camera sua, ascoltava musica, leggeva libri e guardava la televisione. Andava spesso a trovare i suoi nonni paterni che abitavano a due fermate di autobus da casa sua. Nutriva per loro un grande affetto, sua nonna Angelina era la sua migliore amica e le confidava ogni suo stato d’animo. Ogni volta che andava a trovarli, sua nonna le preparava un bicchiere di latte e miele e glielo serviva con i biscotti della salute. E anche se Alice non ne voleva lei diceva mangia figlia mangia e Alice mangiava per non offenderla. E poi si raccontavano. Capitava che Alice sbirciasse nel cassetto dei ricordi, l’ultimo cassetto del comò dove erano riposte tutte le fotografie del passato. I suoi genitori da piccoli, i nonni appena sposati. Ogni ricordo era stato custodito con cura e sarebbe rimasto invariato nel tempo.

    Alice amava la fotografia, trovava geniale il modo di fissare un momento per mantenerlo vivo per sempre. Trovava fantastico il fatto che lei potesse vedere i suoi nonni da giovani o i suoi genitori appena nati. E trascorreva il tempo davanti al suo bicchiere di latte insieme a sua nonna in viaggio nel passato attraverso le fotografie. Mentre le guardavano insieme sua nonna le raccontava cosa si nascondeva dietro quello scatto. Cosa era successo prima e dopo di quell’attimo. Dove si trovavano e con chi.

    Un giorno aveva trovato sul tavolo della loro cucina una macchina fotografica ancora inscatolata con il manuale per utilizzarla. Suo nonno Vincenzo disse che se la voleva poteva prenderla perché loro non se ne facevano nulla, gliel’avevano appena regalata ma non era un regalo importante. Alice ne rimase entusiasta, alla vista le brillavano gli occhi, la macchinetta era piccola e gialla e si chiamava allegra. Iniziò ad usarla da subito. Avrebbe voluto fotografare ogni cosa ma i rullini costavano parecchio e farle sviluppare costatava ancora di più quindi si accontentava di guardare il mondo dall’ oculare come una finestrella magica aperta sul mondo senza scattare. E quando tornava a guardare la stessa cosa la vedeva con occhi diversi. Aveva imparato a mettere da parte i soldi della merenda della scuola e non appena arrivava alla cifra utile correva a compare un rullino nuovo e si dava da fare con le foto. Fotografava le mani di suo padre, gli occhi di Eleonora, il viso di Isabella e Umberto.

    Aveva imparato a usare i filtri e cambiava i colori trasformando tutto in bianco e nero o in seppia. Ricreando lo stesso aspetto delle vecchie foto dei nonni. Poi aveva iniziato ad interrogarsi su chi avesse inventato la fotografia, pensò fosse una mente eccezionale e volle approfondire. Trascorreva delle ore in biblioteca a documentarsi e a placare la sua sete di sapere.

    Mentre Alice si avvicinava al mondo della fotografia rimanendone sempre più attratta sua sorella Isabella aveva iniziato ad avvicinarsi al mondo delle droghe. Aveva cominciato con le canne, frequentava un gruppo di ragazzi ripetenti e trascorreva le giornate insieme a loro. Spesso si ritrovavano davanti scuola e marinavano. Alice aveva iniziato a sentire che qualcosa non andava, i vestiti di sua sorella odoravano di fumo, e non solo di nicotina, i suoi occhi erano diversi. Erano sempre state molto affiatate, ma Isabella si era allontanata. Le loro scuole erano in due quartieri distanti fra loro.

    Alice aveva scelto il liceo magistrale perché le piaceva scrivere e le era sembrato il più indicato, soprattutto era quello più vicino casa e lei amava la comodità. Isabella aveva scelto il liceo artistico perché era molto brava a disegnare e Umberto era al secondo anno della scuola media. Alice era al primo anno e non riusciva a concentrarsi, nonostante trovasse interessanti tutte le materie sua sorella Isabella era il suo pensiero fisso.

    Un giorno, in cui era particolarmente nervosa per le questioni di sua sorella, ebbe uno scontro con una ragazza ripetente di nome Carola. La ragazza arrabbiata perché Alice aveva occupato il banco sbagliato, le strappò il walkman dalle mani e le schiacciò con forza il viso sul banco, minacciandola con una sigaretta di bruciarle il viso. Presa da una rabbia irrefrenabile, Alice la riempì di botte conquistandosi il titolo di tipa strana che aveva picchiato Carola. La gran parte dei suoi compagni di classe che prima la deridevano per il suo carattere introverso ora la temevano e la rispettavano.

    Il primo anno di superiori Isabella decise di interrompere gli studi a metà anno, nonostante il talento innato per il disegno. Alice invece fu promossa con ottimi voti, la situazione di sua sorella la devastava emotivamente e si rifugiava nei libri per non soccombere alla frustrazione.

    Isabella si era creata un gruppo di amici che lei non conosceva dove Alice non era neanche stata invitata a conoscerli. Ciò non era mai accaduto nelle loro vite prima, avevano sempre condiviso ogni cosa e ogni persona.

    Provò a coinvolgere sua sorella nella sua nuova passione verso la fotografia, provò a chiederle consigli mostrandogli le foto ma il risultato era una fitta al cuore di delusione. Sua sorella sembrava essere sparita. Vestiva in maniera diversa, preferiva il nero e le borchie ai vestiti colorati che erano solite indossare. La loro complicità era svanita. Isabella aveva assunto un atteggiamento schivo e spavaldo e Alice era sempre più amareggiata.

    Senza di lei si sentiva persa, non aveva nessuno oltre i suoi nonni. Avevano sempre vissuto in simbiosi fino a quel momento e Alice non riusciva a comprendere come riuscisse ad escluderla così facilmente dalla sua vita. Le mancava terribilmente.

    I suoi genitori erano troppo occupati nella gestione del bar. Suo fratello Umberto aveva il suo gruppo di amici.

    Eleonora e Antonio erano sempre nervosi e preoccupati, la vita di Isabella ebbe un crollo drammatico. Nel giro di due anni alternava stati depressivi in cui restava chiusa in camera tutto il giorno e stati in cui non c’era mai a casa e la famiglia doveva andare a cercarla in giro di notte, spesso ritrovandola in un vicolo fatta o ubriaca.

    In lei c’era qualcosa che non andava, e non riguardava solo l’uso di stupefacenti, Isabella portava dentro di se un mostro che le stava divorando il cervello. Ripeteva ogni giorno di essere brutta, di essere grassa, di non avere futuro e di non voler vivere. Aveva iniziato a odiare se stessa e la vita. Non si sentiva all’altezza. Farsi male era l’unico modo per farla stare bene. Aveva una visiona distorta della realtà, nessuno l’amava. Nessuno la capiva. Erano tutti meglio di lei.

    Isabella era arrivata a pesare quarantacinque chili per quasi un metro e settanta di altezza, aveva imparato a iniettarsi l’eroina direttamente in vena e mostrava i buchi nelle braccia con spavalderia.

    Eleonora e Antonio riuscirono a convincerla a farsi aiutare e intrapresero il percorso con la salute mentale e il Sert, una struttura preposta ad aiutare chi ha dipendenze. Eleonora e Antonio si ritrovarono catapultati in una realtà parallela alla vita normale. Gli edifici erano vecchi e trasandati e le persone che attendevano il loro turno erano tutti simili tra loro. Persone gonfie di medicine o di metadone con i denti rovinati e le pance grandi come cocomeri. Avevano mani gonfie e occhi spenti. Si muovevano avanti e indietro sui loro passi non riuscivano a stare fermi, il loro movimento sembrava un tic nervoso. Il pensiero che la loro figlia si trovasse in quel mondo disordinato rendeva i loro cuori feriti e abbattuti.

    Non c’era malattia peggiore di quella della autodistruzione. Antonio era scettico sulle cure per chi ha problemi mentali. Si augurava che sua figlia non avesse nessun problema mentale e che quello fosse solo un periodo particolarmente difficile dell’adolescenza.

    Dopo svariati colloqui con psicologi e psichiatri si ipotizzò che Isabella potesse essere affetta da disturbo bipolare della personalità. Aveva lo stesso viso di Alice, erano state per nove mesi nella stessa pancia, si erano create dentro la stessa sacca, nello stesso istante, ma la mente di Alice era sana e quella di Isabella no. Quando Alice ne apprese la notizia si rammaricò a tal punto da stare male dentro fino a sentirsi in colpa per essere nata sana. Anche se si sentiva sprofondare, non poteva farlo: doveva restare in piedi per non procurare un altro dolore alla sua famiglia. Aveva imparato a tenersi dentro le lacrime, che sbattevano impetuose contro il suo corpo. Come uno scoglio le manteneva dentro di se. Riversava tutti i suoi stati d’animo su un diario che teneva da anni e trasformava in parole il suo dolore.

    Per Alice le scuole superiori erano difficili, non era riuscita a farsi neanche una amica. Aveva maturato un carattere selettivo.

    Istintivamente avvertiva la voglia di chiudersi di fronte alcune persone rimanendo in silenzio. Anche se avesse voluto parlare la sensazione di disagio che provava glielo impediva.

    Riusciva a liberarsi solo

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