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Memorie di un folletto: Il figlio del bosco
Memorie di un folletto: Il figlio del bosco
Memorie di un folletto: Il figlio del bosco
E-book330 pagine3 ore

Memorie di un folletto: Il figlio del bosco

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Info su questo ebook

Vi siete mai chiesti cosa accadrebbe se un mezzo folletto irlandese, per giunta affetto da violinismo, si ritrovasse rinchiuso nel più orrendo manicomio londinese?
E' cio' che accade a Flannan O'Connor, figlio del bosco e della Corte fatata di Cnoc-na-Sidhe, violinista e vagabondo. Il suo amore disperato per la cugina Maggie, indomita fanciulla dallo sguardo di zaffiro e dal linguaggio da carrettiere, lo porta suo malgrado a intraprendere un viaggio iniziatico in terra nemica: nel manicomio di Bedlam,accusato di irlandesità e di violinismo incurabili o di chissà quali altre losche attività vietate dalla Corona, Flannan è in balia dell' inquietante Imperatore, essere ambiguo e misterioso, di un manipolo di infermieri sadici e di dottori ben intenzionati a rompergli le ossa dell'anima, circondato da ferro ed altri veleni mortali.
Come due carte dei Tarocchi, il Matto e l'Imperatore si fronteggiano in una misteriosa sfida. Per sopravvivere, Flannan canta nenie magiche in gaelico, la sua lingua natale, per evitare che l'Imperatore riesca ad estorcergli la sua storia. Ma essa gli sfugge, ed eccola qui messa per iscritto, per l'edificazione e il diletto del'Illustre Lettore e della Leggiadra Lettrice.
Le sue memorie sono, a detta dell'Infermiere Ribelle che le edito' nel lontano 1872, un "capolavoro di musicologia e di disperazione, di etnologia e di nonsense, e della più pura saggezza celtica". Ogni capitolo è una canzone e una danza, È infatti grazie al potere magico ( oggigiorno diremmo terapeutico) della musica e del racconto, che tutte le porte gli vengono aperte, e il suo viaggio riprende. E noi lo seguiremo al passo delle danze e delle canzoni che Flannan ci farà ascoltare. 
LinguaItaliano
Data di uscita16 apr 2020
ISBN9788827537244
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    Anteprima del libro

    Memorie di un folletto - Esta Alicorni

    nebbia.

    PROLOGO

    Questa storia è vera.

    Io che non sono un contastorie, ma solo un uomo di scienza, o per lo meno è questo quel che ero, non so come raccontarvela.

    No. Ricominciamo. Questa è la storia di Flannan il Vagabondo. Flannan , la volpe del Connemara. Flannan, il Violinista Rosso. Forse un giorno avrò il coraggio di dire anche: Flannan, il mezz'elfo.

    Ma mai, mai dirò: questa è la storia di Flannan il Pazzo.

    Il Lettore mi capirà, spero. O se non mi capirà, potrà sempre rivendere questo libercolo al primo libraio di piazza e lasciarmi in pace.

    Perché un uomo come me dovrebbe scrivere la storia di un folle o di un folletto?

    Forse fu lui a chiedermelo.

    Quando trovai nella sua cella ormai disabitata un fascio polveroso di scritti sbiaditi da tanti inverni, la mia curiosità fu grande. Ero certo che non se ne sarebbe separato senza un motivo valido. Volli farmi l’illusione che quelle carte fossero lì per me, a guisa di ringraziamento. Erano scritte in una lingua a me sconosciuta, ma che evocava qua e là ricordi d’infanzia. Parole che a un tratto si facevano comprensibili: Alan, Glas, Dubh… nella lingua dei miei antenati laggiù in Bretagna, queste parole avevano un senso. E lui doveva saperlo.

    Restava il fatto che tutto il resto era per me un mistero. Parole lunghe, ondeggianti di h, irte di accenti e di particelle.

    Come vi ho detto, sono uno scienziato, o quasi. Ma di certo non sono mai stato un filologo. Spingermi in quel mare sconosciuto eppur familiare era per me un atto inusitato e temerario. Ma sono un positivista, e sapevo che almeno un elemento sicuro nella mia ricerca c’era: quella lingua esisteva realmente, si chiamava gaelico ed il governo inglese si stava impegnando attivamente per sradicarne l’uso dai suoi possedimenti in Irlanda.

    Impararla non fu, dunque, un compito semplice.

    Ma grazie alle mie competenze in medicina e alla mia assenza di morale, potei in seguito organizzare un viaggio  finanziato dalla Corona per studiare le peculiari disfunzioni neurologiche del popolo irlandese.

    Il Lettore se ne rassicuri, questa ricerca non era che un pretesto, e anche se l’avessi condotta scrupolosamente sono certo che non avrei potuto dimostrare alcunché di utile per discreditare quel sfortunato popolo di santi poeti e bevitori.

    Tuttavia, quel che conta per me, è che imparai il gaelico e potei finalmente decifrare gli scritti di Flannan prima che l’inchiostro svanisse del tutto.

    Non mi sarei mai aspettato che una persona così leggera nel prendere la vita e le sue vicissitudini scrivesse delle memorie. Mi pareva fosse prerogativa delle persone pretenziose. Forse sapeva che invece sono proprio le vite come la sua, quelle di cui la gente vuole sentir raccontare? O, più verosimilmente, non gli importava nulla di tutto ciò e scriveva solo per non dimenticare se stesso in quella lurida cella laggiù a Bedlam.

    Perciò non mi feci altre domande e con puro spirito scientifico andai a verificare di persona i luoghi di cui le sue memorie raccontavano, dal momento che mi trovavo, per un fortunato caso, a poche leghe dal lago Corrib, che lui chiamava Choirib; il Lettore condividerà la mia delusione, se gli dirò di aver trovato solo un mucchio di rovine e branchi di capre selvatiche. Non una delle persone menzionate vi si trovava più.   

    Nessuna delle persone, ma tra le capre, con molta pazienza ed acume, potei poco a poco distinguerne una che aveva un lampo di umanità nello sguardo.

    In me si fece strada l’idea totalmente irrazionale che quella capra si facesse beffe di me, nel suo abile travestimento, e che sotto quella pelle si celasse nientemeno che il Capraio.

    Il Lettore non tema della mia salute mentale, ma mi permetta tuttavia di spiegarmi:  Flannan amava parlare di un suo carissimo amico d’infanzia, che si faceva chiamare il Capraio poiché viveva con le capre e poteva addirittura prenderne le sembianze. Credo che nelle fole popolari  questo genere di spiritelli si chiami Pooka.

    Ecco: era l’unica persona che non mi aspettavo di trovare, e fu l’unica ad accogliermi, a rivolgermi la parola e a offrirsi di gettare lume su quel che non riuscivo a capire.

    Mi offerse persino un fascio di lettere a lui indirizzate, che Flannan gli aveva scritto durante la reclusione. Declinai un così prezioso dono, ma il Capraio finì per convincermi, spiegandomi che tanto non sapeva leggere.

    Ricordo bene quando il giovane recluso mi aveva implorato di fornirgli carta e inchiostro. Ne andava della sua vita, doveva scrivere al suo migliore amico e avvisarlo del pericolo. Avevo ottemperato senza indugio, senza chiedermi di quale pericolo andasse cianciando e se il destinatario fosse effettivamente il Capraio analfabeta di cui avevo finora sentito parlare. E feci bene. Le lettere erano un capolavoro di musicologia e di disperazione, di etnologia e di nonsense, e della più pura saggezza celtica, ed erano istoriate di disegni fantastici, a volte orridi, a volte magici.

    Ringraziai sentitamente il Capraio, e quando gli chiesi dove si trovasse Flannan, scrollò le spalle con una risata muta nei suoi strani occhi dorati.

    Non mi sentivo degno, come custode dei suoi segreti. Infatti, quando avevo conosciuto Flannan, dapprima lui non era che una cavia per me. Avevo impiegato qualche tempo a credergli, indurito dall’abitudine di adattarmi alle opinioni comuni. Ma lui mi aveva scelto, ed io non seppi sottrarmi al richiamo della magia.

    Ora, lo so per certo, la sua malattia è semplicemente il fatto di essere sospeso tra due mondi, uno dei quali è nascosto e inaccessibile a noi, gente comune. Ma è grazie a persone come lui che possiamo essere guidati verso tutte le cose invisibili e nascoste. Ed è grazie a lui che posso dirmi salvo, salvo per sempre, liberato dalle catene del raziocinio.

    Con i miei più umili omaggi a te, o Lettore

    Alan Roguezh

    1. THE ROCKY ROAD TO DUBLIN

    'Il matto se ne andava per le vie del mondo,

    fossero di sabbia o fossero di fango

    Come bagaglio avea le nuvole

    Ai piedi un fior di rucola

    Danzando e cantando attraversava i baratri

    Finché si ritrovò con i piedi fradici.'¹

    Tale è il protagonista di questa storia. Un viaggiatore folle che vive di musica. Non starò a spiegarvi subito quali peripezie gli avessero infradiciato i piedi, e non vi dirò, per ora, cosa ci facesse a Dublino.

    Ma possiamo vedere che si trascinava stancamente, i vestiti a brandelli, e che recava le tracce di ferite non ancora del tutto guarite. Portava una coppola di tweed che aveva visto giorni migliori, sotto la quale si nascondevano, intimoriti, i primi germogli fulvi di una capigliatura che era stata malamente mietuta da mani ostili. E se si osservava con ancora maggiore attenzione, due orecchie di notevoli dimensioni guizzavano nervosamente avanti e indietro, all’erta, come quelle di una lepre.

    I suoi piedi erano nudi e induriti dal lungo percorso. Il suo fagotto, da cui spuntava come una sfida la testa riccioluta di un violino, rimbalzava  sulla schiena scarna producendo strani tintinnii.

    Era appena entrato in città, e già cominciava a sentirsi addosso tanti sguardi, pesanti, soffocanti, come nuotasse a fatica in una folla senza limiti. Era l’imbrunire. La gente si accalcava nelle stradine del Temple Bar. Ma non era la solita gente. Non c’erano facce familiari. A dire il vero, non c’erano facce.

    Aveva i nervi a fior di pelle, un nonnulla lo faceva trasalire, e le sue orecchie roteavano senza sosta sotto la coppola sbiadita. Non sapeva perché. L’unica cosa che sapeva era che doveva stare molto attento. Ogni corpo che lo urtava sembrava aggiungersi al peso di ogni sguardo, di ogni sopracciglio alzato, di ogni espressione di ribrezzo. Gli si accumulavano sulle spalle, gli si appiccicavano al fagotto come l’erba che ti rimane tra le dita dei piedi quando corri in un prato bagnato, se mai avete provato quest'esperienza…

    «È Flannan O’Connor» gli pareva di sentir bisbigliare i volti distorti come nei quadri di Bruegel. «È un pericolo pubblico! È pazzo! È pazzo! Chi lo ha lasciato girare così in libertà? è un assassino, un ribelle…» (La voce della folla si tramutò in quella, vellutata e suadente, del Dottore), «soggetto a sindrome di Traumwalder con complicazioni sociopatiche, che hanno già dimostrato poter sfociare in comportamenti di natura violenta. Pertanto, deve essere isolato e trattato con la massima... prudenza. Non possiamo permetterci di tenerlo in libertà.»

    «Niente di più falso» ringhiò Flannan, mentre qualche passante lo guardava, incuriosito.

    Infatti, con questo bel discorso il malefico Dottore lo aveva fatto rinchiudere per due anni in un’oscura segreta dimenticata, nell’orribile manicomio di Bedlam a Londra, proclamandolo Pazzo e Furioso.

    Certo che lo era, Furioso! E, dopo quell'orribile esperienza, cominciava a chiedersi se non fosse diventato anche Pazzo.

    Eppure no, sapeva di esser perfettamente sano di mente. Se ascoltava quella parte del suo essere che è antica come il  mondo  e che conosce ogni cosa, sapeva che il semplice fatto di essere portatore sano di musica e colore, (come lo aveva definito lo Scozzese, uno degli altri inquilini di quel luogo d’inferno), equivaleva ad essere un pericolo per la società.

    Rinchiudendolo lo avevano messo a tacere, prima che riuscisse a contagiare tutti gli altri prigionieri con quella sua aria di libertà.

    E gli altri prigionieri, o gli altri pazienti, come venivano chiamati (e gli dèi sanno quanto pazienti fossero!) dapprima lo avevano schernito, poi alcuni di loro si erano fermati ad ascoltare. Avevano esitato, per un attimo, tra la schiavitù e la salvezza... ma mai fidarsi dei pazienti: lo avevano tradito. Solo, ferito e senza alleati, sarebbe morto, se non avesse avuto un aiuto dall’Altissimo. Sí, l’altissimo Alan, l’infermiere dalle scarpe colorate. I passanti lo videro contrarsi in una smorfia di dolore, e inatteso, cominciò il suo canto sconclusionato:

    ‘Iad a chur sa phoorhouse go dubhach is glas orthu …

    Ar bheagán lóin ach soup na hainnise’²

    Sete… Un lamento salì dalle profondità del suo dolore, come il grido oscuro di una banshee, il dolore bruciante che gli cresceva dentro  divenne sete di vendetta, sete di oblio, sete…

    Più in basso, scorreva placido il fiume Liffey. Lo guardò con amore, e... ringhiando con rabbia e disperazione: «SIETE TUTTI MORTI! TUTTI MORTI! E fate finta di vivere per soffocare chi vivo lo è davvero … tutti morti!», si gettò oltre la balaustra, imprecando, e cadde verso le acque grigiastre del fiume, solcate da neri battelli. Nessuno fece in tempo ad acciuffarlo, lo videro volare come una barchetta di carta lanciata giù dal ponte da un bambino.

    Poi acqua nei polmoni a impedirgli dolcemente quell’inutile respirare, e poi più nulla. Almeno per un po’.

    In un angolo ben riparato della sua incoscienza, il Dottore gli si avvicinò oltre il limite del sopportabile. Scosse la testa con aria grave. «Vedi, ragazzo mio, quello che hai fatto non ha giustificazione. Ancora pensi di poter ottenere qualcosa con questi tuoi atti di spavalderia teatrale? Chi ti salverà, ora? I tuoi amici, dici? Ma quali amici, per cortesia! Sii realista! Un amico capra che può trasformarsi in cavallo d’acqua?» Il Dottore si esibì in una piccola risata divertita. «Ma su, ragiona, un amico siffatto non può mai essere esistito.»

    Flannan si arrabbiò: «Non è vero, che ne volete sapere voi?»

    Ora crede di poter dire la sua anche sui Pooka e gli Each Uisge, sbuffò, esasperato.

    «Ascolta.» Il Dottore gli prese la testa tra le mani e gli parlò con quella voce pacata e suadente che lo irritava tanto. «È un simbolo, capisci? Tu non te ne accorgi, ma hai riposto nella sua immagine tutto quello che tu avresti voluto essere e tutto quello che avresti voluto avere dagli altri. Così ti sei inventato l’amico ideale.  È normale, sai, tutti i bambini lo fanno, io stesso lo feci», spiegò con un sorriso di tenera autoindulgenza, «ma ora tu sei grande, nevvero? E devi abituarti ad accettare gli altri, quelli veri. Vivi in una società di u-ma-ni!», annunciò, scandendo bene quell’ultimo concetto, con malcelato trionfalismo.

    Il fascino diabolico di quelle parole scivolò addosso a Flannan senza trovare una breccia in cui insinuarsi. 

    «Aoire³ esiste», ripeté lui fermamente.

    «Ovvio che esisto», mormorò una voce perplessa, da qualche parte, sopra l’incoscienza di Flannan.

    Infatti, egli non era annegato, ma giaceva svenuto sull’erba stentata, sull’argine del fiume. Fradicio, incosciente, si agitava come se stesse avendo un incubo.

    Uno slancio di particolare frenesia, in cui sembrava inveire contro qualcuno, gli permise di sputare un po’ dell’acqua che aveva ingoiato durante la volata nel Liffey: allora, pian piano, un angolo oscuro della sua mente annacquata si accorse di essere ancora vivo, e a poco a poco cominciò ad avvertire una presenza.

    Si agitò. Istintivamente, cercava di alzarsi. Ma nella sua mente, intanto, il Dottore, forte della propria posizione di predominio, lo guardava con ostentata pazienza. Gli teneva ancora la testa tra le mani.

    Flannan, innervosito, scartava come un cavallo da corsa che rifiuti la cavezza.

    Ma il Dottore non gli permetteva di riprendere i sensi. «Suvvia, io sono qui per aiutarti, che vantaggio potrei avere nel farti del male? Certo, tutti hanno paura di essere soli, ma sarà ancora più terribile per te scoprire un giorno che tutti quegli assurdi personaggi erano solo il frutto della tua immaginazione, e che non hai amici.»

    Flannan scuoteva il capo incredulo, ringhiando, scrollandosi come se quelle parole melliflue fossero mosche infette. Poiché nel fare ciò aveva restituito al mondo altre boccate di acqua fluviale, riuscì a pensare: Eppure l’ho appena sentito dire: ovvio che esisto…

    Il Dottore, preoccupato per quell’inopportuna interferenza, insisté: «Altrimenti, se questi tuoi magici amici davvero esistessero, sarebbero già venuti a prenderti, e ti avrebbero liberato, no?» e, con un odioso sorrisetto trionfante, se ne andò.

    ‘Certo che quei miei magici amici sono venuti, e più d’una volta! Hai poco da ridere, caro Dottore, te l’abbiamo fatta sotto il naso! Sono scappato e sono tornato in Irlanda e, malgrado tutto, sono ancora vivo! E che tu possa essere ucciso dalla pazzia più crudele, chiuso in una cella, in catene, come avete fatto a me! Mi avete tolto il mio violino e mi avete drogato per frugare a vostro agio nel mio cervello, ma ora non sarò più disposto a sottopormi alle vostre torture! Sono morto: provate ora a guarirmi!’, urlava Flannan, nel silenzio della sua mente, verso la candida schiena del Dottore. Credendosi ancora nella camicia di forza, dava alle proprie parole una veemenza di coltelli con cui crivellare le vertebre del dannato uomo di scienza. E così, a forza di dibattersi e sputacchiare, riprese i sensi.

    E fuori dalla sua mente, fuori dalla cella, sull’erba, il suo corpo inzuppato si levò  a fatica sui gomiti e cominciò a mugugnare con voce roca e annacquata: Aoire esiste… Esiste! Ed io sono vivo.

    Intanto la presenza che aveva percepito, in dormiveglia, sull’erba dura della riva del fiume, era diventata una sagoma riconoscibile, un qualcuno dal caratteristico odore di capra e dal profilo simile a quello di un lampione, e gli tendeva le braccia mormorando: «Shhhshhh, Flann, certo che esisto, ed esisti anche tu. Tutto va bene».

    Flannan si rizzò a sedere di scatto, e la chiazza bruna sopra di lui si fece nitida: le saltò al collo con veemenza, e con tutta la forza che aveva si strinse ad Aoire il Capraio in un abbraccio convulso, singhiozzando di gioia. Sfogatosi, cercò di convincere il proprio cuore a smettere di battere con furia: Smettila imbecille, è un’allucinazione, non hai sentito cosa dice il Dottore?

    Si guardò intorno. Era sotto un albero. Accanto a lui, il Capraio lo guardava con affettuosa apprensione.

    «Così non sono in manicomio…» si stupì. Nonostante le evidenze, ancora non riusciva a crederci. L’amico era seduto sull’erba, le zampe incrociate, e, con un sorriso negli occhi, continuava a guardarlo, aspettando. Magro, una gran testa lanuta di ricci aggrovigliati, occhi gialli, una barba liscia e un odore inconfondibile di capra che emanava dai suoi vecchi abiti marroni. Un cane fulvo venne loro incontro trottando e agitando la coda, il pelo irsuto, leccò una delle orecchie di Flannan, il quale, con una smorfia di dolore, pensò: ‘Te lo avevo detto che eri morto. Ecco che i Cani della Morte arrivano.’

    Il Capraio, turbato da molti interrogativi, non seppe pronunciare altro che: «Flann, cos’è un manicolo?» 

    L’altro scoppiò in un’onesta risata: «Che bello, non lo sai. Resta così, non saperlo mai, amico mio».

    Ma lui, non del tutto certo se Flannan lo stesse prendendo in giro (l’amico lo canzonava, a volte, per la sua sana, robusta ignoranza) scosse la testa lanuta, dubbioso.

    «Un putiferio, eh, vagabondo. Un folletto si suicida nel Liffey e nessuno si gira manco a guardare. Povera Irlanda», commentò infine.

    Gli indicò con un cenno il suo fagotto con le sue cose, e il suo violino.

    Flannan annuì a entrambi: alle parole dell'amico e al fagotto. Meno male che era stato il Capraio a trovarlo sulla riva del fiume.

    «Un Pooka avvistato in pieno centro a Dublino e nessuno fa una piega», rispose. «Povero mondo.»

    «Perché ti sei buttato in acqua.» Le domande del Capraio spesso non arrivavano ad essere delle vere domande.

    «Per lavarmi.»

    Il Capraio lo guardò stralunato. Non sapeva se dovesse ridere.

    Allora Flannan, per fugare ogni ambiguità, rincarò la dose di buffonate: «Diamine, che puzza!» brontolò. «Anche tu dovresti lavarti!» E sospinse l'amico verso il fiume, ridendo.

    Ma questi ci rimase male. «Una roba del genere non me l’avevi mai detta. Che odore c’era in quel manigolmono?» disse sostenuto. «Solo erica e rose, eh?»

    Flannan si lasciò sfuggire una smorfia. «Purtroppo no. E, come sto constatando, la puzza di laggiù ha scalfito la nostra leggendaria intesa», bofonchiò con aria abbattuta. E, all'improvviso, si tuffò contro l’amico per annusarne a pieni polmoni il sano odore di fieno e letame, forse come gesto di riconciliazione. «Ah!» esclamò, soddisfatto. Abbrancò anche il cane, che si divincolò solo un po’, e gli cacciò il naso nel pelo abbondante del collo. «Ah!» ripeté, con ancor più grande soddisfazione. Il Capraio, triste, ma già riconfortato, mormorò: «Infatti, non volevo dirtelo, ma eri tu che puzzavi. Di umano». E sorrise, per scusarsi di quel raro momento di malizia.

    Flannan si alzò e prese il suo fagotto, con calma, come se avesse appena svelato un mistero di lunga durata.

    «Dove sei stato?» incalzò il Capraio, insoddisfatto delle magre allusioni al Manigolmono, di cui Non Doveva Sapere. «Ti ho visto e ti ho sentito, che ti credevi. Non potevo raggiungerti. C’era ferro dappertutto. Mi spiace», mormorò, con insolito ardore.

    Flannan gli diede una pacca sulla spalla, e con ciò aveva detto tutto. Non aveva mai visto  il suo amico preoccupato prima di allora. Era una vista alquanto imbarazzante. Perciò, afflitto, cercò di avvicinarsi al penoso racconto, per dovere e per giustizia verso l'amico.

    «Lo sai che è vietato essere irlandesi, ora? Mi hanno preso pensando fossi solamente un irlandese. Poi hanno cominciato a insospettirsi… notato cose… me la sono vista brutta», tagliò corto, con un brivido.

    «Devi stare attento, lo sai che siamo rimasti in pochi. La Grande Carestia ha ucciso la maggior parte degli umani che credevano in noi. Non puoi cacciarti nei casini, se ti scoprivano era la fine per tutti quanti.»

    «Ahah, per quello non c’è rischio!» esclamò il folletto, con un saltello di impertinente trionfo. «Nemmeno davanti alle mie orecchie, nemmeno davanti alla mia musica hanno voluto ammettere la nostra esistenza. Ma hai ragione, ho temuto terribilmente per i pericoli in cui avrei potuto mettervi. In fondo, pensavo fossero almeno in parte come noi.»

    «E lo sono?» gli chiese il Capraio, preoccupato, accennando discretamente alle cicatrici ai polsi dell’amico.

    Quello scrollò le spalle, ricacciando indietro, coraggiosamente, un singulto.  «Se ti dicessi di sì, non ti fideresti più di me. Ricordati che sono per metà umano anch’io».

    Il Capraio rimase un po’ in attesa di una risposta vera, poi si rassegnò. Sarebbe arrivata, a suo tempo. Aiutò Flannan a rimettersi in spalla tutte le sue carabattole, e poi se ne andarono a piedi nudi per Liffey Street, tutti e tre, l’Elfo, il Pooka e il Cane: uno col suo violino,

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