Il club dei mangiatori di hashish
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Théophile Gautier
Jules Pierre Théophile Gautier, né à Tarbes le 30 août 1811 et mort à Neuilly-sur-Seine le 23 octobre 1872, est un poète, romancier et critique d'art français.
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Anteprima del libro
Il club dei mangiatori di hashish - Théophile Gautier
I LEONCINI
frontespizioThéophile Gautier
Il club dei mangiatori di hashish
ISBN 978-88-9296-850-9
© 2023 Leone Editore, Milano
Traduttore: Giulia Pesavento
www.leoneeditore.it
Testo in italiano
Testo in francese
L’hotel Pimodan
Una sera di dicembre, obbedendo a una convocazione misteriosa, redatta con termini enigmatici comprensibili solo agli affiliati e inintelligibili per tutti gli altri, arrivai in un quartiere lontano, una specie di oasi di solitudine nel bel mezzo di Parigi, che il fiume, circondandola con le sue braccia, sembra difendere dalle invasioni della civilizzazione. Era infatti in una vecchia casa dell’Île Saint-Louis, l’hotel Pimodan, costruito da Lauzun, in cui il bizzarro club del quale facevo da poco parte teneva le sue riunioni mensili, alle quali stavo per partecipare per la prima volta.
Anche se erano appena le sei, la notte era scura.
Una nebbia, resa ancora più fitta dalla vicinanza della Senna, sfocava tutti gli oggetti con la sua ovatta lacerata e squarciata, di tanto in tanto, dagli aloni rossastri delle lanterne e dagli spiragli di luce che fuoriuscivano dalle finestre illuminate.
Il marciapiede, inondato di pioggia, luccicava sotto i lampioni come uno specchio d’acqua che riflette la luce; una brezza pungente, carica di particelle ghiacciate, sferzava i visi, e i suoi fischi gutturali costituivano i toni alti di una sinfonia le cui onde gonfie che si infrangevano sulle arcate dei ponti erano i bassi: a questa serata non mancava nulla della dura poesia dell’inverno.
Era difficile, lungo questa banchina deserta, in questa massa di edifici scuri, distinguere la casa che cercavo; tuttavia, il mio cocchiere, alzandosi sul sedile, riuscì a leggere su una targa di marmo il nome in parte sdorato del vecchio albergo, luogo di incontro degli adepti.
Sollevai il batacchio lavorato, dato che l’uso dei campanelli a bottone di rame non era ancora giunto in questi paesi remoti, e sentii il chiavistello cigolare più volte, inutilmente; infine, cedendo a una trazione più vigorosa, il vecchio catenaccio arrugginito si aprì, e la porta dalle assi massicce girò sui cardini.
Dietro un vetro un po’ ingiallito apparve, mentre entravo, la testa di un’anziana portinaia tratteggiata dal tremolio di una candela, quasi un quadro di Schalcken. La testa mi fece una smorfia singolare, e un dito magro, allungandosi fuori dalla portineria, mi indicò la strada.
Per quanto riuscivo a distinguere, nella pallida luce che si irradia sempre anche dal cielo più buio, il cortile che stavo attraversando era circondato da edifici dall’architettura antica con pignoni aguzzi; sentivo i piedi bagnati come se avessi attraversato un prato, perché nell’interstizio delle pietre del selciato cresceva l’erba.
Le alte finestre a quadrati stretti della scalinata, fiammeggianti sulla facciata scura, mi facevano da guida affinché non smarrissi la strada.
Superata la gradinata esterna, mi ritrovai sotto una di quelle immense scalinate risalenti ai tempi di Luigi xiv nelle quali una casa moderna danzerebbe comodamente. Una chimera egizia nello stile di Le Brun, cavalcata da un Cupido, allungava le zampe su un piedistallo e teneva una candela dal piattello del candeliere con gli artigli ricurvi.
La pendenza dei gradini era dolce; i pianerottoli ben distribuiti attestavano il genio del vecchio architetto e la vita grandiosa dei secoli passati. Mentre salivo questa mirabile rampa, nel mio misero frac nero, sentivo di stonare nell’ambiente e di usurpare un diritto che non mi spettava; la scala di servizio sarebbe stata più adatta a me.
Dei dipinti, la maggior parte senza cornice, copia di opere d’arte della scuola italiana e spagnola, tappezzavano i muri, e in alto, nell’ombra,