Il capro espiatorio
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Il capro espiatorio è l'ultimo dei romanzi autobiografici di Strindberg, un gruppo che comprende Il figlio di un servo, che si occupa dell'infanzia e dell'adolescenza e lo sconvolgente Inferno, un resoconto dei suoi problemi coniugali e mentali. E’ stato composto poco prima del suo più raffinato dramma espressionista, The Ghost Sonata, una fantasia simbolica con la quale, per sottolineare la straordinaria versatilità di Strindberg, ha poco in comune. In effetti, sia nel genere che nello stile, Il capro espiatorio sembra più vicino alla dolce ironia e all’austero pathos di Gogol e al Diario di un uomo superfluo di Turgenev, oltre a trasmettere qualcosa del sapore naturalistico dei fratelli Goncourt, la vera influenza francese. Il protagonista, l'amabile avvocato, Edvard Libotz, condannato a una vita di estraniamento e di stoica disperazione in un triste monticello di montagna, può essere considerato una proiezione del dilemma psicologico di Strindberg. Libotz è l'anima schiacciata, il santo pazzo, odiato istintivamente dall'arrogante materialista Askanius, l'imbroglione Tjarne e da Karin, l'incarnazione della doppia morale borghese. L'impresa di Strindberg, in questo racconto, è piuttosto notevole, trascendendo gli elementi puramente personali, creando momenti di forte intensità e pungente umorismo, una storia incredibilmente viva di frustrazione scritta in una prosa sorprendentemente fredda e minimalista.
August Strindberg
Harry G. Carlson teaches Drama and Theatre at Queens College and the Graduate Center, City University of New York. He has written widely on Swedish drama and theatre and has been honored in Sweden for his books, Strindberg and the Poetry of Myth (California, 1982) and Out of Inferno: Strindberg's Reawakening as an Artist (1996), play translations and critical essays.
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Anteprima del libro
Il capro espiatorio - August Strindberg
August Strindberg
Il capro espiatorio
Maree
KKIEN Publishing International
info@kkienpublishing.it
www.kkienpublishing.it
Prima edizione digitale: 2018
Edizione originale: Syndabocken, 1906
Traduzione di Emilio Carlstroem
In copertina: foto di August Strindberg
ISBN 9788833260365
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Il capro espiatorio
A nord di Holaveden, in una regione montagnosa, una piccola città è adagiata su un fondovalle bordato di vette. Le alture che la attorniano sono come una muraglia sicché il sole vi sorge più tardi e tramonta prima del consueto. Eppure questo muro non è così alto da risultare opprimente, anzi protegge, ripara dai venti che non investono quasi mai l’abitato. I monti sono spogli, il paesaggio brullo, ma la città è attraversata da un fiumiciattolo con i suoi alti ontani e i giunchi. Lungo il suo corso i proprietari possono stare seduti nelle cabine dei pontili delle loro casette a godersi il verde e l’acqua fluente.
Un tempo la città aveva delle terme famose e c’è ancora il padiglione con le pareti adorne di stampelle e di bastoni appesi, ricordo di cure riuscite. L’acqua che risana è quella di prima, il farmacista l’analizza ogni anno, ma nessuno se ne serve più, perché oggi non si crede ai suoi effetti.
Comunque, attempati pensionati, vedove e infermi hanno scoperto la piccola città senza ferrovia, dove possono nascondersi con i loro acciacchi e le loro pene e prepararsi all’estremo viaggio. Stanno seduti sulle panchine verdi del parco e non si vogliono conoscere. Qualcuno traccia dei segni sulla sabbia col bastone o un ombrellino, a naso in giù, quasi scrivesse la propria leggenda; altri seggono con la testa verso l’alto, al di sopra degli uomini e delle cime degli alberi, come se avessero già lasciato questa vita e vivessero dall’altra parte. Ma certi se ne stanno a casa e non escono mai, siedono davanti agli specchietti retrovisori delle finestre, nei quali si vede tutto, eccetto se stessi, leggono attentamente i giornali, si frequentano spesso fra di loro, ricevono visite. Davanti agli annunzi funebri fanno attenzione all’età del defunto: caspita, aveva ottant’anni, io appena settantadue, senti senti!
Sulla piazza grande s’affacciano la chiesa e il municipio con il Ristorante di Città, la posta e il telegrafo, nonché la polizia; la banca ha i suoi uffici all’angolo di Storgatan vicino alla libreria.
Giù, su Norragatan, c’è una casa, a un piano, molto estesa, brutta all’apparenza, con le sue finestrelle e il tetto a picco. A un’estremità, qualche scalino conduce a un’osteria rustica e, dall’altra parte, c’è il portone di un cortile, attorniato da stalle e altri annessi per accogliere i contadini. Attraverso questo ingresso i clienti accedevano alla locanda, che, di seconda categoria, veniva frequentata da scrivani, impiegati delle poste, insegnanti e varia gente comune che pranzavano con i buoni oppure a credito. La grande attrattiva del posto era comunque dietro le adiacenze, dove c’era il giardino con la pista per i birilli e i padiglioni sull’orlo del fiumiciattolo che passava per di lì. D’estate era il paradiso, soprattutto per uno stabilimento balneare, molto piccolo ma comunque ospitale per il giovanotto affamato che volesse sciacquarsi polvere e sudore prima di mettersi a tavola.
L’interno del locale non corrispondeva alla sua brutta insignificante facciata e surclassava quest’ultima di tanto che il nuovo arrivato era davvero colpito dall’arredamento grazioso e di buon gusto. Il salone in penombra era ricco d’atmosfera, con le lunghe file di bottiglie con le placche sulle scansie, i vecchi calici verdi, i vasi da ponce delle Indie orientali dei tempi della Compagnia, barattoli di spezie giapponesi, boccali, brocche e coppe con fregi e coperchi. Il bancone di quercia bello solido con la cassa e la lavagna, le lucette alle pareti, e rasenti i tavolini invitanti, per due, massimo per tre, ben spaziati; tutto insomma concorreva a creare un ritrovo sereno e intimo. La sala da pranzo era vicina, da un lato, alla grande veranda e, da un altro, alle salette, così numerose che tre di esse, a debita distanza l’una dall’altra, ospitavano persino un pianoforte. Ognuna di queste salette aveva un suo carattere, una sua atmosfera, a seconda del colore delle tende, del motivo della carta da parati o delle stampe incorniciate sopra il sofà. Tutto era naturalmente ben affumicato, con la «simpatica trasandatezza» che fa trascurare la fredda astratta pulizia.
Il locale era indicato semplicemente col nome del padrone, Askanius. Costui, in gioventù, buon autodidatta, aveva girato il mondo come cantante in un quartetto, e si era persino esibito per lo zar, il kaiser e vari monarchi. Coi risparmi, s’era trasferito nella sua città natale, aveva acquistato lo stabile, avviato il locale, e lo si reputava agiato. Era davvero un uomo fine, silenzioso, tranquillo, sobrio. Dava ordini per lo più con sguardi e cenni, vestiva in redingote, beveva di rado coi clienti, non attaccava mai conversazione se non invitato. In genere, stava seduto al banco, in prossimità della finestrella della cucina, dalla quale di tanto in tanto sporgeva la testa di sua moglie durante il pranzo. Non si scambiavano mai né paroline né occhiatine, tutto procedeva pulito e senza smancerie. Il servizio era affidato a cameriere di una certa età e non c’erano così problemi e corteggiamenti. Il padrone era severo, ma giusto; richiamava senza fare chiassate. C’era un’atmosfera familiare in quel posto eppure si sentiva la disciplina nell’aria e la maggior parte dei clienti era in obbligo con Askanius per qualche credito.
Egli conosceva a fondo i suoi ospiti, sapeva quali venivano solo quando erano a corto di danaro e se ne andavano al Ristorante di Città appena si rifacevano. Il credito lo concedeva «al solo accenno»; se usurpato, però, lo negava. Considerava traditore chi frequentava il Ristorante di Città mentre era segnato sulla sua lavagnetta, ma non apriva bocca. Con la concorrenza, il Ristorante di Città, di prima classe, non voleva competere, non ne parlava mai, e se qualcuno, con intenzione, ne diceva un gran male, lui stava zitto o si esprimeva positivamente.
A causa di questo rapporto con i suoi clienti, Askanius aveva assunto un che di paternalistico e non sopportava rilievi, leciti o meno che fossero. Un giorno si presentò un commesso viaggiatore tedesco e ordinò della birra. Avuti bottiglia e un bicchiere, ne pretese un altro, un vero boccale, che non c’era. Il cliente cominciò a lamentarsi e Askanius allora si fece avanti; discreto, con uno sguardo imperioso, sussurrò: «Se al signore non piace il bicchiere, può trovare di meglio altrove». Un’altra volta, un tale si lagnò della zuppa. Askanius fronteggiò il contestatore, si chinò quasi confidenzialmente su di lui e bisbigliò: «È buona, l’ho mangiata poco fa anch’io». Anch’io! Il cliente non protestò più. Askanius viveva con la sua signora in una piccola ala del cortile: tre stanze molto bene ammobiliate, con vista sul giardino e sul fiumiciattolo. Qui trascorrevano i loro momenti migliori: le mattinate e due ore pomeridiane. Allora lui leggeva i suoi bei libri, suonava il pianoforte, ma non cantava mai. Alla moglie mostrava medaglie e diplomi; soprattutto alle medaglie teneva, erano più delle commende, dichiarava, che anche i commercianti possono ottenere. Qualche volta raccontava della corte dello zar e di Napoleone III a Versailles.
La domenica i coniugi si recavano alla messa del mattino.
La sua vecchia gli chiedeva spesso quando si sarebbero ritirati in campagna. «Quando avrò fatto il gruzzolo », rispondeva lui, senza entrare nei dettagli.
Talvolta la donna insisteva per chiudere la mescita dei contadini, troppo animata, ma proprio quella rendeva di più, perché vi si beveva solamente. Il cibo era considerato un male necessario. I coniugi non visitavano la bettola, una vergogna su cui preferivano chiudere gli occhi: già, i soldi della colpa venivano proprio dalle sbornie. Qualche volta, là, baravano al gioco e se le davano di santa ragione, ma il proprietario non ci si recava lo stesso, mandava subito a chiamare la polizia.
Come ristoratore voleva certo che si consumasse, eppure preferiva rinunciare al guadagno piuttosto che vedere qualcuno ubriaco. Una volta si permise perfino di entrare in una delle salette per ammonire dei giovanotti che stavano alzando smodatamente il gomito. «Non si deve bere tanto! », disse secco. Che oste bizzarro, pensarono i ragazzi.
Era fatto così. Alla severità, tuttavia, univa benevolenza, carità: aveva avuto una giovinezza dura e ora, con animo pacato, era in attesa di una vecchiaia ritirata, in campagna.
Un giorno, all’ora di pranzo, Askanius stava seduto al bancone, con lavagna e registro davanti, quando entrò uno sconosciuto, ancora giovane. Sembrava uno straniero e, con combattuta sicurezza, cercava di nascondere il suo imbarazzo nell’approcciare persone che si conoscevano fra di loro. La curiosità si tinse d’un tono ostile, tanto che lo sconosciuto dovette restarsene in attesa dietro le spalle dei clienti che bloccavano il tavolo degli smӧrgåsar.
Askanius esaminava