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Trine
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E-book154 pagine2 ore

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"Al lavoro siamo in tre, nate nello stesso anno: Akberet nel cuore di un caldo luglio eritreo, Trina al principio di una dolce primavera albanese e io, al centro del periodo che divide i loro compleanni, a Milano, in un luogo non distante da quello dove scorrono le nostre ore lavorative. Volti sorridenti, modi garbati e affettuosi, per entrambe provo fin da subito simpatia. E un giorno, ecco l'intuizione che una semplice consonanza porti in sé i semi di un legame da coltivare, la sensazione che abbiano storie importanti da raccontare, il desiderio di conoscere le vicende che, da posti lontani, le hanno portate a condividere il mio quotidiano. C’è qualcosa che fa rima dentro di noi."

Comincia da qui un racconto di racconti dove, a fare rima fra loro, non sono le parole di luoghi condivisi, di consuetudini o di persone, ma le desinenze dell’anima e le cadenze del cuore, capaci di unire vite che muovono i primi passi in spazi remoti. Ne nasce un ricamo di trine delicate e preziose: sensazioni, emozioni, ricordi lontani richiamati alla mente con serenità e autenticità da tre amiche che hanno vissuto in pienezza il loro tempo di giovani donne. Sullo sfondo, la storia di tre Paesi dai destini intrecciati come quelli delle protagoniste.

LinguaItaliano
Data di uscita2 lug 2020
ISBN9788869346613
Trine
Autore

Beatrice Gatteschi

Beatrice Gatteschi è nata e vive a Milano. Da sempre appassionata di lettura e scrittura, dopo la laurea in Lettere classiche e un master in Lettere e filosofia, ha lavorato dieci anni in azienda, nell'ambito della comunicazione interna e della formazione. È poi tornata al suo mondo e ha gestito per quindici anni una libreria universitaria. Scoprendo e coltivando, grazie ai suoi figli e agli scaffali della libreria dedicati ai ragazzi, una forte predisposizione all’educazione culturale dei più piccoli, nel 2016, insieme a due amici, ha fondato un’associazione di volontariato per bambini. La Piccioletta barca (www.lapicciolettabarca.org), cui ora si dedica a tempo pieno in qualità di presidente e insegnante, è cresciuta e nel 2018 è diventata un Centro culturale per ragazzi, gestito con passione da sette soci e aperto in un quartiere periferico della città: suo grande obiettivo è promuovere le pari opportunità di studio e sviluppo culturale per i ragazzi, indipendentemente dalla loro storia familiare, dalla loro condizione economica e sociale, dalle difficoltà in cui spesso versa la scuola pubblica, soprattutto lontano dal centro città. Nel 2016 ha pubblicato con EDB Il turbante azzurro, scritto con l’amico e socio Roberto Maier.

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    Anteprima del libro

    Trine - Beatrice Gatteschi

    © Bibliotheka Edizioni

    Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, giugno 2020

    e-Isbn 9788869346613

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta

    dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Foto di copertina: ©depositphotos.com/yacobchuk1

    Progetto grafico e disegno di copertina: Riccardo Brozzolo

    Beatrice Gatteschi

    Beatrice Gatteschi è nata e vive a Milano.

    Da sempre appassionata di lettura e scrittura, dopo la laurea in Lettere classiche e un master in Lettere e filosofia, ha lavorato dieci anni in azienda, nell’ambito della comunicazione interna e della formazione. È poi tornata al suo mondo e ha gestito per quindici anni una libreria universitaria. Scoprendo e coltivando, grazie ai suoi figli e agli scaffali della libreria dedicati ai ragazzi, una forte predisposizione all’educazione culturale dei più piccoli, nel 2016, insieme a due amici, ha fondato un’associazione di volontariato per bambini.

    La Piccioletta barca (www.lapicciolettabarca.org), cui ora si dedica a tempo pieno in qualità di presidente e insegnante, è cresciuta e nel 2018 è diventata un Centro culturale per ragazzi, gestito con passione da sette soci e aperto in un quartiere periferico della città: suo grande obiettivo è promuovere le pari opportunità di studio e sviluppo culturale per i ragazzi, indipendentemente dalla loro storia familiare, dalla loro condizione economica e sociale, dalle difficoltà in cui spesso versa la scuola pubblica, soprattutto lontano dal centro città.

    Nel 2016 ha pubblicato con EDB Il turbante azzurro, scritto con l’amico e socio Roberto Maier.

    Un romanzo intimo e sofferto, in cui la storia di tre donne si intreccia inestricabilmente a quella dei loro Paesi, regalando al lettore un vertiginoso gioco di specchi tra pubblico e privato.

    Questo libro è un racconto di racconti.

    Non ambisce alla correttezza di un manuale di storia,

    né pretende di esprimersi su una Storia

    ancora troppo recente, per essere condannata o assolta

    in ogni sua piega e in ogni suo risvolto.

    È una storia intrecciata di sensazioni, emozioni, ricordi lontani

    richiamati alla mente con serenità e autenticità

    da chi ha vissuto in pienezza il suo tempo e il suo spazio

    di giovane donna.

    1.

    A novembre il cielo di Asmara è turchino. Le giornate di autunno sono le più belle, il sole scalda sottovoce e l’aria tiepida avvolge come una morbida mantella.

    Quel giorno, quasi a mezzogiorno, il massiccio portoncino di ferro si aprì cigolando e Akberet lo varcò piegando la testa, quasi si inchinasse, riconoscente, alla libertà. Guardandosi attorno spaesata sull’ampio marciapiede deserto, respirò profondamente il profumo dell’aria pulita e sbatté ripetutamente le palpebre, per riabituare gli occhi alla magia dirompente della luce. La luce di Asmara: tutti sanno che una luce così non riempie nessun altro cielo. Sofisticata, trasparente, angelica quasi; e tanta, perché in tutta la città nessuna costruzione è alta abbastanza da rubarle la scena.

    Era il sette novembre 1986, venerdì. Uscire di venerdì significava risparmiarsi un’altra triste domenica chiusa dentro: la domenica era l’unico giorno in cui, durante quel lungo anno, non era mai riuscita a trattenere le lacrime. Giorno di visite, quelle in cui sua madre e suo padre o una delle sorelle le portavano il cambio dei vestiti e qualcosa da mangiare diverso dal solito. Li aspettava, guardando attraverso la piccola finestra ed era felice; poi, piano piano, si accorgeva che era sempre meglio attenderle quelle visite, piuttosto che viverle e poi bruscamente interromperle, richiamata dall’odiosa voce della guardia di turno. Quando i suoi genitori se ne andavano, una malinconia acuta le pungeva il cuore fino a bagnarle gli occhi, qualcosa che ancora una volta non si era realizzato, era rimasto non detto. Quella muta nota di rimprovero nei loro occhi, quella domanda che non si faceva parola: ma cosa hai fatto? Ma dovevi proprio mettertici dentro anche tu, dovevi proprio unirti a loro anche tu, ora che sei così piccola? E lei aspettava che glielo chiedessero esplicitamente per poter almeno provare a spiegare; sapeva, in cuor suo, che ogni eritreo autentico stimava nel profondo l’opera dei suoi fratelli di lotta, sapeva che le sarebbe stato facile convincere i genitori della bontà della sua giovane scelta e che subito si sarebbe sentita meno sola, avrebbe trovato un angolo di pace e calore nel gelo di quel grigio edificio. Forse la sua era solo una sensazione, forse erano solo tristi i suoi genitori, non arrabbiati. Ma non riusciva a parlare per prima e, così, ogni visita terminava con una acuminata delusione, che neanche il profumo dei vestiti puliti o il sapore di un dolce fatto in casa riuscivano ad attenuare. Durante la settimana, sperava, ogni giorno un poco di più; il sabato la sua speranza cresceva come un’onda che poi, in un attimo, si frantumava contro il silenzio scoglioso della domenica mattina e la sommergeva nel solito, lento gocciolare dei minuti, inesorabilmente identico l’uno all’altro. Amava il sabato, pativa la domenica: questo ritmo della vigilia, che spalancava alla speranza, e della festa, che restringeva sulla malinconia – come i movimenti di una macchina da presa – aveva scandito tutto l’anno passato in quello stanzone fetido e triste.

    2.

    "Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme e di gioia, diman tristezza e noia recheran l’ore…". Anche tu pensi subito a Leopardi? Per me nessuno è mai riuscito a dare miglior voce a questa eco che risuona forte in me; anche a me, fin da piccola, la vigilia è piaciuta sempre più della festa, il sabato più della domenica. L’attesa da sempre mi coinvolge e mi appassiona e poi, tante volte, mi sorprendo malinconica, non appena avverto il consumarsi del tempo che tanto attendevo, quasi non riuscissi a coglierne l’incanto in diretta, e ne avvertissi immediatamente dopo l’incompiutezza. Quando ho studiato questa poesia per la terza volta (la prima, tutta a memoria in quinta elementare, senza capire nulla; poi alle medie, capendo un po’ di più), forse proprio in quello stesso anno in cui tu attendevi le visite familiari della domenica, ho riconosciuto indistintamente un mio sentire e ho cominciato a subire il fascino dell’universale che attraversa il tempo e lo spazio. Ma tu no, non conosci Leopardi, tu parli a stento l’italiano, faccio persino un po’ fatica a seguire il tuo racconto. Eppure, in un istante ci comprendiamo nel profondo.

    Arriva sempre, nel cuore di un’amicizia importante, il momento in cui mi fermo a pensare alla circostanza, alla parola, al gesto che ha dato origine a tutto, a quel momento in cui fili sottili di vite parallele si sono uniti in un ricamo di trine delicate che, se pure un giorno la vita scioglierà, lascerà traccia di sé, ondulando segmenti di esistenza un tempo lisci e indistinti.

    Al lavoro siamo in tre, nate nello stesso anno: tu nel cuore di un caldo luglio eritreo, Trina al principio di una dolce primavera albanese e io, al centro esatto del periodo che divide il suo compleanno dal tuo, qui a Milano, in un luogo non distante da quello dove ogni giorno scorrono le nostre ore lavorative. Volti sorridenti, caratteri estroversi, modi garbati e affettuosi, slanci di generosità raramente sperimentata, per l’una e per l’altra provo fin da subito simpatia. E un giorno, ecco l’intuizione che una semplice consonanza porti in sé i semi di un legame da coltivare, la sensazione che entrambe abbiate storie importanti da raccontare, il desiderio di conoscere le vicende che, da posti lontani fra loro e lontani da questo, vi hanno portato a condividere il mio quotidiano.

    C’è qualcosa che fa rima dentro di noi.

    Una mattina, confrontandoci forse su un momento difficile, banalmente difficile di certo, di questo nostro impegno lavorativo, che talvolta ha i tratti di un’insensata battaglia, una tua parola schiude brevemente il sipario su un tempo e uno spazio remoti: siamo ad Asmara, è il 1986 e da poco abbiamo compiuto diciassette anni.

    Da quel momento attendo ansiosa l’occasione per domandare, ascoltare e immergermi nello scenario che fugacemente mi hai presentato.

    3.

    In quello stanzone fetido e triste stavano non meno di trenta donne: non una sedia, non una branda. Si sedevano e dormivano a terra, le più fortunate scaldate da una coperta faticosamente schiacciata da una madre premurosa nel piccolo pacco che la domenica ardiva sfidare i rigidi controlli delle guardie.

    Appena sveglia, prima dell’alba, sempre indolenzita per via di quel pavimento duro e ostile, sempre confusa perché il realizzare di trovarsi davvero in prigione richiedeva ogni mattina qualche interminabile secondo, Akberet veniva prelevata e spintonata nell’ufficio del commissario, dove ogni giorno subiva un logorante interrogatorio. Violento questo brusco risveglio con convocazione immediata: sicuramente proprio sull’intorpidimento dell’intelletto e dei sensi si faceva conto per far finalmente cadere in contraddizione la prigioniera. In piedi davanti a due uomini grigio-verde vestiti, ingoiando con difficoltà l’ultimo sbadiglio, Akberet chiamava a raccolta tutte le energie di diciassettenne piena di ardore combattivo e puntava gli assonnati occhi neri, desiderosi di essere un’ultima volta stropicciati, in occhi già carichi di odio la mattina presto, pur dopo ore di riposo tranquillo, seduti comodamente davanti a lei.

    Cominciava la lotta, di nervi sostanzialmente, e chi, nei primi minuti dello scontro, sembrava facilmente dominare in un crescendo di aggressività e baldanza, raggiunto l’apice di violenza, crollava di colpo, preda di rabbia e frustrazione, di fronte all’inossidabile coerenza della ragazza: e ogni giorno, il doloroso tonfo lo costringeva a mettere un po’ più in discussione le sue doti di maschio dominatore. Cambiavano di settimana in settimana i commissari di polizia. Chi arrivava il lunedì raccoglieva la tacita sfida, schernendo in cuor suo l’inetto collega che smontava sconfitto dal suo turno; il primo giorno, il nuovo baldo militare, puntando su Akberet il suo immenso indice quadrato, tuonava insulti e minacce con timbro baritono e col duplice obiettivo di intimidire, certo, la ragazza ma, principalmente, di far risuonare i corridoi della sua boria, caso mai qualcuno al distretto non conoscesse ancora la sua prestanza; poi, nei giorni successivi, lungo sette inconcludenti interrogatori, il tono della voce andava lentamente affievolendosi, le grandi dita sudaticce si intrecciavano nervosamente sotto il tavolo, lo sguardo sbiadiva, mirando il graduato a rendersi pressoché invisibile ai commilitoni, fino al momento in cui, sgravandosi con sollievo dell’improba impresa, passava la consegna al nuovo commissario, tacitamente certo di essere a sua volta schernito. Per la fortuna di tanti etiopici super ego, altri giovani studenti cadevano spesso nelle trappole ingegnose di quei meschini interrogatori. Non Akberet, che per sei mesi era riuscita a non contraddirsi mai, a non modificare mai, neanche di una virgola, la sua versione dei fatti. Una precisione millimetrica, parole che non cambiavano, espressioni del viso identiche, gestualità immutata. Recitava la sua parte con grande maestria e con quella inconsapevolezza un po’ sfacciata, su cui solo la giovane età sa fare affidamento. Per sei mesi la interrogarono, per altri sei la trattennero in cella, rabidi: qualcosa doveva pur aver tramato, se non altro avrebbe pagato quella sua straordinaria audacia!

    Urli inquisitori ogni mattina sferzavano violenti il viso di Akberet.

    Mi racconti, e sembri lentamente emergere da una pagina della nostra grande epopea risorgimentale: se avessi a disposizione la macchina del tempo è in quel periodo che vorrei volare e vivere l’avventura di una delle eroine nascoste del Risorgimento; le giardiniere, compagne carbonare dei buoni cugini, che ai rigogliosi giardini interni ai palazzi milanesi – sconosciuti ormai a tutti noi e sorprendenti protagonisti delle fotografie aeree della nostra città – affidavano i segreti dei loro misteriosi incontri. Maria Gambarana, Cristina Belgiojoso, Teresa Confalonieri, Matilde Viscontini: con i loro abiti lunghi tessuti di quel coraggio, quella passione, quel senso di giustizia che bruciano così forte in un cuore femminile! Mi sono sempre vista impavida compagna di un grande combattente, padrona di casa di un colto salotto milanese che, sognando la nazione indipendente, ospita riunioni di insospettati cospiratori,

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