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Oltre le cose
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E-book216 pagine3 ore

Oltre le cose

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Info su questo ebook

“Oltre le cose” è una sorta di “road novel”, poiché il viaggio è il filo conduttore del romanzo: viaggio nello spazio naturalmente, ma anche nel tempo, e soprattutto nell’animo umano. La storia si apre con la morte del carismatico scultore carrarino Luigi Amati, vista attraverso gli occhi della figlia, Claire. Una confusa richiesta del padre prima di morire, associata a una bizzarra profanazione della tomba dello scultore, convincono l’ingenua Claire dell’esistenza di un segreto intorno alla figura del padre che la donna è decisa a svelare. E’ così che Claire parte con le amiche per un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio che la porterà a conoscere con dolore il lato oscuro dell’uomo da lei tanto amato.

LinguaItaliano
Data di uscita9 mag 2012
ISBN9788897268673
Oltre le cose
Autore

Titti Federico

Concetta Federico, nata a Genova nel 1962 da genitori napoletani abita a Carrara dall'età di due anni. Laureata nell'87 in lingue e letterature straniere moderne ad indirizzo europeo, insegna lingua e letteratura francese presso il liceo linguistico di Massa. Ha pubblicato il suo primo romanzo, “Prima che venga sera”, nel 2008 con la casa editrice Graus di Napoli.

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    Anteprima del libro

    Oltre le cose - Titti Federico

    Titti Federico

    Published by Giuseppe Meligrana Editore at Smashwords

    Copyright Meligrana Editore, 2012

    Copyright Titti Federico, 2012

    Tutti i diritti riservati

    ISBN: 9788897268673

    Meligrana Editore

    Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)

    Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041

    www.meligranaeditore.com

    info@meligranaeditore.com

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    INDICE

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d’uso

    Titti Federico

    Oltre le cose

    Dedica

    INTRODUZIONE

    RINGRAZIAMENTI

    Altri ebook di Meligrana Editore

    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale.

    Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone.

    Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, acquista una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, si prega di acquistare la propria copia.

    Grazie per il rispetto al duro lavoro di questo autore.

    Titti Federico

    Mi chiamo Concetta Federico, sono nata a Genova il 19/08/62 da genitori napoletani ma abito a Carrara dall'età di due anni.

    Mi sono laureata nell'87 in lingue e letterature straniere moderne ad indirizzo europeo e insegno lingua e letteratura francese presso il liceo linguistico di Massa.

    Ho pubblicato il mio primo romanzo, "Prima che venga sera", nel 2008 con la casa editrice Graus di Napoli.

    Contattala

    concetta.federico@gmail.com

    Facebook

    A mia madre, Enza

    INTRODUZIONE

    Tutto è cominciato una sera d’estate, cercavamo una fotografia da usare come copertina per il primo romanzo di Titti e, rovistando tra le vecchie foto dei miei, abbiamo trovato una lettera che datava luglio ‘45. Era scritta a mano, e la grafia era quella di mio padre, all’epoca prigioniero di guerra. Il foglio, consumato e ingiallito dal tempo, era sottile come carta velina, l’inchiostro a tratti sbiadito, ma il testo si leggeva ugualmente: mio padre chiedeva notizie della sua famiglia, raccontava di sé e concludeva la sua lettera con una poesia. Quella lettera era un tassello, come ama chiamarli Titti, un frammento significativo di vita che Titti ha messo nella sua valigia dei ricordi e lasciato lì, a riposare per qualche anno. Mi piace pensare che quella sera, con quella lettera, io le abbia fornito il tassello centrale di un puzzle attorno al quale Titti ha aggiunto via via altri tasselli fino a formare un’immagine completa: il suo romanzo. Perché è proprio l’esperienza della guerra e della prigionia che innesca il meccanismo da cui ha origine tutta la storia, semplice e innocente come una storia d’amore eppure complessa, ordita con cura e attenzione intorno a più fili narrativi che solo alla fine si ricongiungono in una trama sapientemente costruita.

    Credo che l’abilità dell’autrice sia stata proprio questa: trattare il tempo non come un’unica linea rigida ma come una serie di fili flessibili e diversamente colorati: passato, presente, futuro scorrono quasi paralleli ma poi s’intrecciano e si riavvolgono in un tempo circolare, e fine e principio trovano la loro ragione di essere l’uno nell’altro. È così che l’ultimo capitolo si ricongiunge idealmente al primo, e alla fine si comprendono i motivi, si decodificano i gesti e si trovano tutte le risposte.

    Se dovessi riassumere in un’unica parola questo intreccio di fili narrativi, direi che il romanzo è la storia di un viaggio, di una fuga e di un inseguimento, di due anime che si sfiorano per poi riperdersi per poi ritrovarsi esattamente là dove tutto era cominciato. In effetti il viaggio è un elemento narrativo molto amato da Titti: è stimolante, fecondo, connotativo e denotativo, spaziale e temporale, interiore ed esteriore. Il viaggio è movimento, cambiamento, fonte di vita laddove la stasi è morte. E persino la morte, se si concepisce come viaggio, è feconda e aperta a infinite scoperte. L’importante è riuscire ad andare oltre le cose.

    Quando le ho chiesto spiegazioni in merito al titolo, Titti mi ha raccontato che Oltre le cose era il titolo della sua tesi di laurea, che analizzava i romanzi di Zola e il suo modo di descrivere gli oggetti inanimati come creature viventi. Titti ha voluto riutilizzare questo titolo perché andare oltre le cose, cioè oltre la realtà contingente, è un’esigenza dei suoi personaggi, soprattutto quelli femminili, che permette loro di approdare a una dimensione alternativa, a metà tra reale e magia, una dimensione che non si percepisce con i sensi ma con l’istinto. È proprio in questa dimensione che le cose parlano, gli oggetti si animano, i gelsomini partecipano alle vicende umane, la vita e la morte si toccano, come due modi diversi e complementari di esistere e di interagire con chi resta.

    Chiara, Margherita, Claire, avvertono tutte il bisogno di credere che le persone che non ci sono più continuino in qualche modo a comunicare con loro.

    Ma chi di noi non ha mai avvertito un bisogno simile?

    Claudia Bienaimé

    CAPITOLO PRIMO

    LA FOTO

    Carrara, Novembre 1999

    Un sole tiepido, il profumo inebriante di fiori di campo misto a quello delle rose, il leggero fruscio della brezza autunnale tra le foglie tenere dei tigli, il verde cupo dei cipressi, austeri e solenni...

    Sembra primavera... che beffa! pensò Claire mentre avanzava a passi lenti nel vialetto che la conduceva alla tomba di suo padre. Si sentiva truffata da quell’apparato idilliaco e terribilmente in collera contro quella serena bellezza che la circondava, la cui esistenza era un’offesa al dolore che le pesava dentro.

    Erano passati poco più di tre mesi e ancora non l’aveva accettata fino in fondo, la morte di suo padre.

    Aveva sempre pensato che quell’essere così speciale non sarebbe mai invecchiato e non l’avrebbe mai lasciata sola al mondo. L’aveva pensato fin da quando sua madre se n’era andata e lei, adolescente e vulnerabile, si era attaccata a lui in maniera patologica.

    E così era cresciuta, abbarbicata a suo padre come un’edera secolare al muro di pietra che l’ha vista nascere.

    Suo padre Luigi Amati, grande scultore carrarese che aveva dato lustro alla sua città con la sua opera, capace di animare la dura pietra marmorea in una forma nella quale anche il più distratto degli osservatori percepiva la vita, vibrante e ostinata...

    Suo padre, uomo autorevole e geniale nella cui mani il marmo si faceva cera, creatura straordinaria che brillava di luce propria e riusciva a illuminare il cammino a tutti coloro che avevano avuto il privilegio di avvicinarsi a lui..., come recitava uno dei numerosi articoli di giornale scritti in occasione della sua morte.

    Suo padre, che molti adoravano per quella genialità che lo rendeva una sorta di uomo-dio, e che molti detestavano per quell’autorevole e aristocratica superbia che nasce dalla consapevolezza della propria grandezza...

    Suo padre se n’era andato, esattamente come tutti gli altri, se n’era andato in una stanza d’ospedale, con un tubo in bocca e due tubicini nel naso, e lo sguardo sgomento e incredulo di un bambino che riceve uno schiaffo doloroso e immeritato.

    Ricordava quella notte, il primo arresto respiratorio, l’ambulanza che non arrivava, suo padre che le si era accasciato addosso in giardino e lei che lo aveva sdraiato delicatamente per terra, nel buio porticato della loro villa, in attesa di quella maledetta ambulanza...

    Glielo avevano portato via, e lei aveva seguito quell’ambulanza fino al pronto soccorso, finché la porta non si era chiusa dinanzi a lei.

    Il tempo passava lentissimo, e lei era rimasta lì, non aveva chiamato nessuno, né parenti né amici, e si era messa a cercare una farfalla... con un’ostinazione maniacale aveva cercato in tutti gli angoli di quello squallido luogo di dolore, e alla fine l’aveva trovata, la sua farfalla, piccola piccola, posata sul vetro polveroso e incrinato di una finestra, immobile che pareva disegnata.

    E quando la chiamarono per farle vedere suo padre attraverso il vetro della rianimazione, e lei vide quel volto pallido, gli occhi chiusi e tutti quei tubi, invadenti strumenti di tortura che lo aiutavano a sopravvivere, Claire pensò a quella farfallina bianca, e quel macigno di dolore e di pena che le stava bucando il cuore si alleggerì un po’, permettendole di riprendere a respirare.

    La farfallina le prometteva che suo padre ce l’avrebbe fatta... almeno per quella volta.

    Sì, perché Claire era così, una creatura bizzarra e singolare come suo padre, piena di fragilità e di sogni, sensibile ai profumi dei fiori e magicamente ricettiva ai muti messaggi delle cose...

    Da piccola nutriva la convinzione incrollabile che tutti gli oggetti che riempivano la sua casa fossero vivi, e che solo per timidezza si mostrassero inanimati agli umani, e quando parlava con le sue bambole, o accarezzava uno dei suoi pupazzi, o passava le sue piccole dita grassocce sul marmo grezzo che poi vedeva trasformarsi sotto le mani abili del babbo, era assolutamente certa che le bambole, i pupazzi, e persino quel marmo grezzo apprezzassero il suo gesto, sentissero il suo amore e, in qualche modo conosciuto solo a loro, lo ricambiassero.

    Era stato il primo insegnamento di suo padre quando, a poco più di tre anni, se l’era portata nel suo laboratorio, lassù, una piccola officina di sogni adagiata nell’abbagliante candore delle cave:

    Ricordati, Claire, la bellezza e la poesia sono in ogni cosa che vedi, anche nel più insignificante, misero oggetto di questo nostro straordinario mondo... sta a noi, e solo a noi, tirar fuori quella bellezza, perché le cose ci parlano, ci mandano dei messaggi in codice, e se hai la pazienza di tacere e ascoltarle... bèh, non è difficile comprendere ciò che ci dicono...

    Poi le prendeva la mano e la poggiava sul freddo e ruvido blocco di marmo su cui si accingeva a lavorare, le poggiava le labbra all’orecchio e le sussurrava, con una voce che non era la sua:

    Aiutami, bambina, c’è l’anima di una fanciulla qua dentro che vuole uscire alla luce, è così bella, ed ha lo sguardo così dolce e innamorato che è un sacrilegio tenerla prigioniera in questa pietra!

    E Claire sentiva, e quasi vedeva la fanciulla innamorata prigioniera della pietra, e gridava al babbo:

    Falla uscire, papà, falla uscire prima che puoi!

    Perché possa farlo devi aiutarmi, Claire... Dimmi, com’è la fanciulla innamorata?

    E Claire gliela descriveva, quella fanciulla dai capelli lunghi e il collo sottile.

    E gli occhi, Claire, come ha gli occhi?

    Sono grandi, babbo, e dolci, e guardano il cielo!

    Era cominciata così quella magica sintonia tra lei e il babbo, un’intesa speciale in cui padre e figlia dividevano amore, sogno, fantasia, intuizione. Da allora, tutte le volte che suo padre cominciava a lavorare su un blocco, era la mano di Claire che lo guidava, la sua immaginazione fanciullesca, la sua anima pulita che creava l’idea, e suo padre eseguiva e creava con le mani i sogni di sua figlia e li trasformava in forme purissime.

    Perciò, tutti coloro che posavano gli occhi su quelle forme non potevano non sentire il fremito della vita e il candore di quel sogno fanciullesco, e l’ emozione che quelle opere d’arte suscitavano era così intensa che quasi faceva male.

    Era così che Luigi Amati era diventato uno dei più grandi scultori viventi, il Michelangelo del ventesimo secolo.

    Era così che Claire era diventata una figlia adorante, e aveva cominciato a sentire la voce delle cose. E dopo la morte di suo padre, Claire sentiva che la poesia era morta, la bellezza era morta, e le cose non le parlavano più...

    Era rimasta sola al mondo, Claire.

    Certo, c’erano ancora le sue amiche, c’era sua madre, quella madre che era sempre rimasta esclusa dal cerchio magico, quella madre che tanti anni prima aveva deciso di andarsene, logorata dal rapporto invivibile con un uomo che non le era mai appartenuto, e l’aveva supplicata di partire con lei per cominciare una nuova vita in un’altra città, solo loro due, madre e figlia...

    Ma Claire non poteva lasciare suo padre, lui aveva bisogno di lei... e lei ne aveva di lui.

    E sua madre se ne era andata, il viso gonfio di rabbia e solitudine. E anche se avevano continuato a vedersi, sua madre non le aveva mai perdonato quella scelta.

    Solo un mese prima, in ospedale, davanti al vetro della rianimazione, Nicole glielo aveva ricordato, quel rifiuto più doloroso e irreversibile di un cancro che le aveva divorato la vita.

    Claire aveva risposto nello stesso, identico modo di allora:

    Non posso lasciarlo, mamma, non potevo e non posso... lui fa vivere i miei sogni!

    No, lui ti ha plagiato, ha condizionato la tua vita e non ti ha permesso di crescere, e ora che se ne va, che cosa ne sarà di te? Ti rendi conto che dipendi da lui in maniera morbosa, che lui non ti ha insegnato a camminare, che non ha mai pensato a te in questo vostro assurdo rapporto, ma solo a se stesso? Il suo egocentrismo era talmente forte da distruggere la volontà di tutti coloro che lo circondavano, e tu sei stata la sua prima vittima! Ti ha trasformato in una marionetta, si è sempre servito di te, come si serviva dei suoi strumenti da lavoro!

    Smettila di parlare così, mamma, smetti di parlare di lui come se fosse già morto! Il babbo è ancora vivo e ce la farà, lui è forte!

    Sì, certo, e come fai a esserne così sicura? Quale prodigioso segnale hai avuto, stavolta?

    Claire non aveva risposto, mortificata da quel cinismo beffardo che la colpiva in una delle sue convinzioni più tenaci, facendola sentire una specie di visionaria o una patetica quarantenne il cui sviluppo mentale si era arrestato all’età infantile.

    Come fare a dire a sua madre che aveva trovato la farfalla, e che la farfalla l’aveva rassicurata promettendole che il babbo si sarebbe ripreso, almeno per quella volta?

    E suo padre si era ripreso davvero, si era svegliato, aveva cominciato a comunicare con lei attraverso quel vetro, servendosi di carta e penna, e le aveva scritto che le voleva bene.

    Claire portava ancora con sé, come una preziosa reliquia, quel foglio di carta stropicciata, vergato da una scrittura tremolante e quasi incomprensibile, già logoro e ingiallito, e non se ne sarebbe separata mai...

    Ma non era durato molto, suo padre. Ricordava quell’ultimo giorno, quella frase scritta da Luigi che già vaneggiava, stordito dalla morfina e inebriato dall’odore della morte già così vicina:

    "Trovalo... dovevo... io."

    E alla sua espressione interrogativa, la grafia ancora più incerta di Luigi:

    "La fanciulla che guarda..."

    Non era riuscito a finire la frase, la penna era caduta dalla mano tremante ma Claire aveva capito ugualmente: suo padre, il suo creatore di sogni, l’uomo che l’aveva sempre condotta per mano nella foresta, illuminandole il cammino quando il buio era più nero, e l’aveva protetta con le sue grandi mani magiche quando il sole era più cocente, quell’uomo stava per andarsene per sempre.

    Questo significava il messaggio di suo padre: lei non aveva bisogno di cercare la scultura della fanciulla che guarda il cielo, perché quella scultura era al sicuro nell’antico laboratorio di Luigi. Lui non aveva mai voluto separarsene, si era sempre ostinatamente rifiutato di venderla, nonostante le numerose e straordinariamente appetibili offerte ricevute nel corso degli anni, perché quella scultura era la sua vera opera prima, segnava la nascita di quella magica collaborazione tra padre e figlia, e il miracolo di quel momento in cui le loro anime si erano fuse era rimasto scolpito, indelebile, nel cuore di entrambi.

    Negli ultimi istanti della sua vita Luigi stava rivivendo l’intensità di quell’istante, quando la piccola mano di sua figlia si era posata sul marmo a cercare la fanciulla prigioniera, che lui avrebbe poi liberato...

    No, Claire l’aveva capito immediatamente... non c’era nulla da trovare, se non il ricordo di quell’istante. E dopo averlo ritrovato Claire doveva tenerselo stretto e portarlo nella sua nuova vita, quella che sarebbe continuata dopo la morte

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