Non fidarti di Babbo Natale
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Il protagonista del giallo-thriller è un detective un pò speciale dal nome Bob Orango. Catapultato nella ricerca di un omicida, anzi due, forse qualcuno in più: come in una favola (o nella realtà), Orango incontrerà buoni e cattivi, ma in questa storia distorta i buoni diventano assassini, mentre gli assassini sono giustizieri e gli unici perbene rimangono i peggiori.
Ogni pista fa perdere le tracce di sé per ricomparire più in là, sempre più vicina all'orlo di un abisso: tra un sabba e una partita di droga, tra una resa dei conti e un serial killer, tra una serie d'indizi assurdi e un toscano extravecchio, Bob Orango dovrà risolvere l'omicidio avvenuto in una prestigiosa università investigando casualmente nella notte di Roma.
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Non fidarti di Babbo Natale - Antonio Romano
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31 ottobre, domenica
0.
«No, lei sta bene, ma le transaminasi sono alte, la sua laringite è scesa ed è diventata tracheite e quello che le è sembrato un infarto era una volgare indigestione ingigantita dalla gastrite dovuta ai troppi caffè».
Abbozzai, soppesando me stesso nello specchio del gabinetto medico.
Dico sempre che vorrei essere più alto, magari con le spalle un po’ più larghe e la vita un po’ più stretta.
Sbircio la mia cartella: 185 cm. Non è poco, ma non è nemmeno tanto. Se nelle cartelle cliniche ci fosse pure una descrizione dello sguardo suonerebbe: tenebroso e comico.
Non mi piace il mio sguardo: non riesco a controllare l’espressione dei miei occhi, sono troppo mobili e mi tradiscono sempre. In ogni occasione vedo il lato ridicolo delle cose ed i miei occhi si adeguano, anche se provo a mantenere un certo contegno.
Mi trovo spiovente, un tetto al crepuscolo: probabilmente è la traiettoria dei miei movimenti – sembro un pugile che, più che colpire, schiva.
Oggi, però, mi piace molto il cappello che ho in testa: tesa larga, deformata come le tasche della mia giacca scamosciata, colore scuro in contrasto con quello chiaro di quest’ultima.
«Cosa guarda?» mi domanda il medico. Non so bene cosa rispondergli. In effetti nemmeno io so cosa sto guardando. Probabilmente non guardo quello che c’è, ma quello che non c’è: vorrei essere diverso, m’immagino come vorrei essere e non sono. Eppure, anche se non combacio con le mie aspettative, non riesco a non piacermi. Forse mi piaccio perché sono in contraddizione con quello che vorrei ed a me le contraddizioni attraggono.
1.
Arrivai verso le 21.30, carico di sigari e belle speranze. Mi feci portare un caffè e mi accesi un toscano extravecchio. La mia tachicardia e la mia bronchite ne avrebbero risentito, ma che ci potevo fare? Mica potevo smettere di colpo con sigari e caffeina: dovevo trovare un’altra soluzione.
Tirai una bella boccata di fumo e cominciai a pensarci.
Dall’osteria ci passava spesso Hector. Un genio
avrebbero detto alcuni sentendolo solamente nominare. Ed a ragion veduta: era il più agguerrito giocatore di poker e videopoker che si era mai visto in giro da quelle parti.
Giocava e vinceva, sempre. Rischiava e vinceva, e più rischiava più vinceva. Tinto non aveva mai visto un centesimo da lui, tutto ciò che consumava l’aveva vinto al videopoker del suo locale.
Ufficialmente, però, viveva facendo il fotografo.
Hector, quella sera, era in osteria.
Puros (nessuno, tranne Dio, sapeva come si chiamava davvero. Neanche Dio, comunque era stato abbastanza bravo da scoprire perché tutti lo chiamavano così. Inutile anche chiederlo al diretto interessato: non avrebbe risposto) arrivò in osteria verso le 23.00, mentre tutti erano in via d’ubriacatura.
In teoria, Puros sarebbe potuto diventare un grande chirurgo, ma nessuno si fida d’un chirurgo, che è anche un allegro sbevazzone.
Vantava due traguardi: aveva sfiorato l’alcolismo più volte di chiunque altro e aveva vinto il trofeo per L’aspirante chirurgo con la mano meno ferma.
Lavorava per un’agenzia fotogiornalistica, per la precisione faceva il didascalista: andava sbattendo per le località più improbabili col fotografo e facevano i servizi che poi periodici di vario livello gabellavano per loro. A Puros toccava spesso di leggere articoli ricavati interamente dalle sue didascalie.
Però non guadagnava male e tutto sommato si divertiva a vedere posti e persone.
Hector e Puros lavoravano in coppia.
In verità erano una coppia anomala: un emotivo giocatore di videopoker che ha la mano ferma abbastanza da fare il fotografo cos’ha in comune con un mancato cerusico dalle mani di pastafrolla che si guadagna da vivere scrivendo didascalie, favole per bambini e romanzetti rosa pur avendo la lucidità spietata d’uno scienziato?
Finii il sigaro senza aver trovato risposta né a questa domanda né a quella di prima. Quindi, oltre alla bronchite ed alla tachicardia, dovevo anche imparare a convivere con la curiosità su loro due.
Casualmente Hector e Puros lavoravano insieme, casualmente erano clienti affezionati dell’osteria di Tinto, casualmente quella sera entrambi incontrarono me.
«Ciao merda» «Ciao stronzo»: la nostra uguaglianza ontologica era tutta lì.
Hector non aveva mai amato i miei toscani, ma nessuno è perfetto.
«Che ci fai qui?» «Fumo» «Io sto sbancando il videopoker» «Una cosa nuova».
Il Biondo mi portò un altro caffè.
Ci sfiorò la testa a volo radente una crosta di pizza oliolenta e grondante salsa. Ci girammo.
Puros: «Salve, ragazzi. Una birra?».
Hector: «Offri tu?».
P: «No, offri tu».
H, a me: «Meglio tu».
«Preferirei di no» risposi.
Alla fine offrii io. Bevvi il caffè.
P: «Indovina un po’ cos’è successo a Lorenzo».
Io: «Non so».
P: «L’hanno ucciso» disse con calma.
Io: «Dov’è successo?».
P: «Alla Louis».
Io: «La polizia che fa?».
P: «La polizia è fuori».
Io: «Perché?»
P: «Perché dicono che s’è suicidato».
Io: «Tu hai detto che è stato ucciso».
P: «Io sono convinto che l’hanno ucciso. La polizia no».
Io: «E perché pensi che l’abbiano ucciso?».
Mi guardò dritto negli occhi e poi disse: «Te lo immagini Lorenzo che si suicida dopo aver vinto cinquanta prosperi ai cavalli?».
Effettivamente aveva del surreale. Cinquantamila euro sono un buon incentivo per ritrovare fiducia nella vita. Bevvi un altro caffè e mi accesi un mezzo sigaro.
P: «Li ha ritirati tre giorni fa, il giorno dopo è andato a lavorare e l’hanno ammazzato».
Io: «Come l’hanno trovato?».
P: «Impiccato alle grate di areazione.
Le aule hanno tutte un’uscita d’emergenza che dà su un corridoio sotterraneo sormontato da grate a livello stradale. L’ha trovato l’inserviente mentre puliva dopo l’ultimo corso».
2.
Uscimmo dall’osteria di Tinto e camminammo per un bel pezzo.
Io: «Beh, Hector, quella pazza?»
H: «Quella pazza ormai è la mia ragazza fissa»
Io: «Felicitazioni…»
H: