Sotto il pollaio
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Info su questo ebook
In una specie di flusso di coscienza affiorano i miti sociali e le contraddizioni personali dell’ambiente nel quale è cresciuto.
Tra conflitti con il padre, malattie rare recidivanti, il sesso, il peso del peccato, la scoperta casuale dei libri, il gioco d’azzardo, la politica, l’amore e la depressione, si dipana il disperato e comico tentativo di dare un senso alla sua vita.
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Anteprima del libro
Sotto il pollaio - Lorenzo Monticelli
XLII
I
Aspetto al "café" Dante. Prima si chiamava bar di Gesù, forse perché dall’altra parte della piazza c’era il bar della Maria. Il "café" si chiama Dante perché è in Piazza Dante, dove c’è anche il Cinema Dante e "café" alla francese perché fa più fino e sopra il "café" Dante c’è il pollaio.
Il pollaio è la nuova sala consiliare del Comune, una specie di astronave in mattoni sospesa su trespoli immensi di metallo.
La sala consiliare è diventata il pollaio per i miei disprezzatori compaesani.
È stato voluto dalla ex sindachessa, la zarina, e il progetto è dell’insigne architetto Ducci-Barzaschi; "era meglio se gl’andava a rifà pezze", sentenziano i miei feroci compaesani, per dire che era meglio se andava a lavorare in fabbrica a Prato, invece che fare l’insigne architetto.
Aspetto che il tempo passi, nella pausa dopo pranzo, mentre il cielo misericordioso vira verso la pioggia a rendere più sopportabile la bile del lavoro pomeridiano.
Perché io sono un cartolibraio.
Un mestiere come un altro, dirai tu, lettore, mio simile, mio fratello, ipocrita lettore.
Vedo mio padre.
Quando lo vedo è all’altezza del Cinema Dante.
Mio padre ignora il cinema; cammina con i piedi in dentro, elegante come al solito, calvo e bianco, un pulcino amabile, un po’ossessivo, un asceta lavoratore anoressico (ah, le foto a Castiglioncello quando mi teneva, paffuto, in braccio, esibendo un costato da Auschwitz) dominato dalla famelica scalata a un benessere raggiunto ma non pacificante.
Ignora il cinema mio padre, e non mi ha visto dall’altra parte della strada. Si ferma davanti a un annuncio mortuario.
Da sotto il pollaio se ne riconoscono appena i contorni: una prece, si può immaginare… ne danno il triste annuncio… mancato all’affetto…. e giù tutti i parenti secondo rituali gerarchie… e mio padre che guarda con curiosità; un conoscente si può immaginare.
Ora tuona a interrompere quella sospensione, tuona e piove. Mio padre sente una goccia, si presume, sulla testa pelata, infatti guarda il cielo che ormai grigio ha compiuto il suo lavoro misericordioso; si guarda intorno e spicca una corsa per attraversare la strada, dirigendosi proprio verso di me, a grandi passi, con agilità insospettabile, con un modo buffo di correre con le spalle e i gomiti alzati, tutto proteso in avanti.
Quando arriva sull’altra sponda, mi vede e dice: «È morto il Bello hai visto?».
Il Bello era un famoso giocatore di biliardo, gioco considerato un’arte nel paese, gioco di geometrie, di silenzi e di passi felpati intorno al rettangolo del biliardo, mentre si studia la posizione delle palle e si individua la strategia, gioco di giri da imporre alle palle, di gessetto da mettere sulla punta della stecca, gioco di perfezione, col panno che riduce l’attrito e le palle che scorrono senza rumore, di stecche di legno che il vero giocatore si porta da casa in fodere di stoffa.
E il Bello era il più bravo. Giocava con i campioni al Gambrinus di Firenze e ogni tanto si degnava di fare qualche partita nella sala stretta e piena del fumo delle sigarette al bar di Gesù.
«Lo so. Si è impiccato», rispondo, «l’hanno trovato appeso a un albero. Dicono che non ci stesse più con la testa e che la goccia che ha fatto traboccare il vaso sia stata una storia di un motorino rubato che avrebbe comprato, senza saperlo, da un tizio. Dicono che si è alzato di notte, senza che la moglie se ne accorgesse e poi sia andato sullo stradone, sia salito su un platano e si sia impiccato. L’ha trovato il Giorgi la mattina presto mentre andava a lavorare. Ha visto il corpo dondolare per il vento, e ha chiamato la polizia e sono arrivati i pompieri e l’hanno tirato giù».
«Brutta storia», dice mio padre.
«Sì», rispondo.
II
Piove forte ora. Bene, la pioggia terrà lontano i clienti, penso.
Però non sono solo nella cartolibreria; ho un socio.
La cartolibreria è grande, divisa in due, per fortuna.
È il nostro inferno spazioso. E io e il mio socio siamo i demoni e i condannati. Un demone per uno, io per lui, lui per me e un condannato per ogni demone.
Non abbiamo forconi e zanne lupesche, né ali di pipistrello, ma la capacità di squartare le nostre animucce non è meno potente di quella dei brutti ceffi danteschi. E le animucce impazzite sbattono le ali e cozzano testarde e cieche, come falene moribonde, contro le vetrine per cercare di fuggire da quest’inferno di moquette, ninnoli, penne, quaderni, fogli bristol, libri messi di copertina perché lo spazio è grande e i libri costano e c’è poco ricarico e quasi nessuno legge in questo paese di furiosi disprezzatori, che non sanno di non sapere, anzi sanno già tutto: "Perché gl’è cosi!… Perché?… Perché te lo dico io, ecco perché… ‘un tu capisci nulla, icché t’ha studiato a fare se ‘un tu capisci nulla", e così via e, come dice il filosofo, non c’è nulla da fare se non sai di non sapere.
Sono sicuro che il buon Socrate sarebbe stato ucciso molto prima dai miei compaesani che da quelli ateniesi, scocciati da quel tafano che ti fermava nell’agorà e cominciava a chiederti quello che sapevi e quando se ne andava non sapevi più nulla di quello che avevi creduto di sapere
I miei compaesani, dopo un paio di domande del filosofo l’avrebbero schiacciato, così, come si schiaccia il tafano con un bello schiaffo della mano callosa, senza pensarci due volte, altro che processo e santificazione postuma.
Ma ecco caro lettore, dopo questi primi vaneggiamenti, che è giunto il momento di un più dettagliato resoconto di questo luogo di angoscia metafisica.
Che si accendano i riflettori sulla Libreria Cartoleria della Galleria! Si tratta di un trapezoide diviso in due: da una parte, a destra di chi entra, c’è la libreria, a sinistra la cartoleria. Io sono addetto alla libreria, il mio socio alla cartoleria. Ci sono due banconi: uno è nella zona libreria, con il registratore di cassa, al centro fra le vetrate. Le spalle di chi sta lì, le mie, sono alla mercé dei passanti che ti sfiorano al di là dal vetro. Per fortuna insegnanti madre lingua, laureati in lettere e matematica, che bramano supplenze, baby sitter, giardinieri improvvisati, svuotatori di pozzi neri stanno riempiendo quel vetro di annunci che un po’ mi proteggono. L’altro bancone è in fondo, parallelo al lato ovest del trapezio.
Ci sono almeno sei metri tra i due banconi e quindi tra me e il mio socio acquattati dietro, impegnati come cacciatori alla posta a sorvegliarci a vicenda, ad aspettare i rari clienti, sperando, almeno io, che non vengano, così posso leggere in pace e meditare su questioni prive di senso, perché prive di qualsiasi criterio di verificabilità o, se si vuole, di falsificabilità, oziose domande metafisiche: "Che ci faccio qui? È questa la realtà? La mia essenza contiene da sempre l’attributo cartolibraio e quindi il mio essere cartolibraio è necessario? Oppure è contingente e io avrei potuto anche non essere cartolibraio, dato che il non esserlo non implica contraddizione logica?
Esiste quindi nella mente di Dio, fra gli infiniti mondi possibili tra i quali poteva scegliere, un mondo dove non sono cartolibraio. E allora perché Dio non ha creato quel mondo? E invece ha creato questo in cui sono cartolibraio?
Se Dio ha creato questo mondo e quindi, proprio perché è stato creato da quell’essere perfettissimo che è Dio, questo mondo non può che essere il migliore dei mondi possibili, allora un mondo in cui Pietro non rinnega Gesù e io non faccio il cartolibraio, anche se possibile perché non implica contraddizione, sarebbe meno perfetto e non potrà mai essere creato da Dio.
Quindi non ci resta che questo mondo in cui Pietro rinnega e io sono un cartolibraio con un socio acquattato dietro il bancone.
III
Io e il mio socio non ci rivolgiamo la parola, neanche ci salutiamo.
Il negozio è in Galleria, una speculazione edilizia anni Sessanta che ha arricchito un macellaio e rovinato il già modesto centro storico.
Nella Galleria ci sono diversi negozi che da essa prendono il nome: La galleria del bambino, un negozio d’abbigliamento per infanti; La galleria della moto, un negozio che vende motorini; prima c’era anche lo Sport Gallery, ora al suo posto c’è il comitato per la rielezione del vecchio sindaco appoggiato dal partito ex comunista ora PDS, o come si chiama, che domina le elezioni dal dopoguerra in poi e ha dedicato strade e piazze agli eroi dell’epopea rivoluzionaria e antifascista da Gramsci a Togliatti fino all’eroe locale, un macellaio morto da partigiano sui Monti della Calvana, senza farsi mancare il doveroso omaggio al compagno cosmonauta Juri Gagarin.
L’insegna del comitato è una scritta a caratteri cubitali gialli su sfondo nero che recita: Con fiducia, incontro al futuro
. Quei furiosi disprezzatori dei miei compaesani già parlano di slogan da pompe funebri.
La cartolibreria invece si chiama, Libreria Cartoleria della galleria; l’inversione per distinguersi dagli altri esercizi.
Il parto non è stato facile per i divergenti interessi di noi due soci: culturale il mio, commerciale il suo.
Gli echi della battaglia ideologica sono ravvisabili nella doppia denominazione e la apparente mia vittoria, prima libreria e poi cartoleria, è annullata da una scritta secondaria sotto l’insegna primaria: Forniture per ufficio.
Fuori piove come dio la manda. Mi alzo e scelgo un libro.
Il socio guarda fuori. Prendo il libro e poi ritorno velocemente ad acquattarmi