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La casa del manoscritto maledetto
La casa del manoscritto maledetto
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E-book352 pagine5 ore

La casa del manoscritto maledetto

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Info su questo ebook

Autore del bestseller Il monastero dei delitti

Geremia Solaris ha cinquant’anni ma non ha ancora rimesso in sesto la sua vita: si attribuisce la colpa per la morte della moglie, non riesce a pubblicare il suo romanzo e la bottiglia di Chianti è l’unica amica fedele che gli è rimasta. Un giorno incontra un avvocato che intende assumerlo per conto di un uomo misterioso. Incuriosito, Geremia lo segue in una villa nel circondario di Firenze e qui incontra il conte Guidi, prossimo a morire, ma deciso a ritrovare suo figlio, sparito in circostanze misteriose. Il conte sostiene che è stato ammaliato da una giovane donna, che deve averlo indotto a svuotare il conto in banca e fuggire. Ma la presenza di Geremia è cruciale perché nell’appartamento dell’uomo è stato rinvenuto il Libro delle Evocazioni, un antico manoscritto di magia nera. Il conte teme che l’incolumità di suo figlio sia a rischio e vuole ricorrere alle abilità di Geremia per ritrovarlo. Lo ritiene, infatti, l’unico in grado di decifrare l’antico volume. Quello che Geremia non sa è che accettare significherebbe, una volta ancora, mettere la sua vita in grave pericolo.

Quali segreti nasconde l'antico manoscritto?

Hanno scritto di Il monastero dei delitti:
«Un romanzo che ci offre un’immagine inedita e inquietante di Firenze.»
Il Messaggero

«Lo stile fluido e incalzante, il lessico colto e raffinato, ma soprattutto la cura quasi maniacale degli elementi storici e sociali in cui i personaggi si muovono lo rendono
uno dei migliori thriller letti negli ultimi anni.»
Leggere:tutti

«Un thriller incandescente.»
Il Mattino

Claudio Aita
Figlio di emigranti, ha vissuto tra il Friuli e la Toscana, dove attualmente risiede. È un esperto di Storia della Chiesa e Storia medievale, oltre che musicista, scrittore ed editore nel settore dei Beni culturali. È autore di due testi di successo sui rapporti fra religione e cultura alimentare. La Newton Compton ha già pubblicato Il monastero dei delitti.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2019
ISBN9788822732453
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    Anteprima del libro

    La casa del manoscritto maledetto - Claudio Aita

    I

    L’asfalto del vialetto era sepolto sotto un velo di cartacce e foglie morte. Un uomo dalla pelle scura se ne stava appoggiato alla staccionata, gettando sassolini nelle acque melmose dell’Arno. Ai suoi piedi la solita paccottiglia di oggetti da due soldi. Poco più in là una donna sculettava con indosso una tuta da jogging e un piumino griffato. In mano reggeva un guinzaglio all’altro lato del quale un grumo di pelo a forma di cane si era fermato a depositare i suoi bisogni sul manto erboso. Geremia non aveva mai capito cosa inducesse così tanta gente a buttare via i soldi, e non pochi, per portarsi a casa una creatura incapace di qualsiasi attività che non fosse quella di ingozzarsi di cibo e sparpagliare merda e acido urico in giro. Considerava i cani degli esseri talmente privi di dignità da ridursi ad accettare passivamente di esser trattati come giocattoli o accessori di moda. Come accadeva spesso, anche la distinta signora se ne andò con il mento all’insù e gli occhi semichiusi, da diva navigata, lasciando in bella vista il ricordo della sua bestiolina.

    Geremia si stiracchiò e le articolazioni gli rimandarono un inquietante scricchiolio. Non faceva freddo ma l’aria era impregnata di umidità. Grosse gocce precipitavano con ritmica regolarità dai rami che lo sovrastavano, infrangendosi sul suo logoro soprabito. Ma lui non aveva minimamente voglia di muoversi. Alzò al cielo la bottiglia di Chianti dal profilo ormai quasi completamente verde e ci guardò attraverso. Così filtrate, le figure apparivano sempre più deformate, esasperandosi man mano che lo sguardo procedeva verso i bordi. Muovendo il vetro davanti agli occhi, la realtà si modificava, si dilatava e si restringeva, con mille sfumature, sempre diverse. Anche la sagoma dell’ozioso lanciatore di sassi entrava, suo malgrado, in quel gioco. Lo osservò girarsi per gettargli un’occhiata infastidita. Molto probabilmente lo aveva preso per uno squilibrato, un uomo del quale stava valutando la pericolosità. Oppure, pensò con una punta di perfidia, quello sguardo rivelava solo il desiderio di inebriarsi di quel nettare profumato e imbonitore, ma il suo istinto era frenato dalla sua educazione. Anche se, a giudicare dalla quantità industriale di birra che gli spacciatori maghrebini si scolavano nelle piazze del circondario, non doveva trattarsi di una regola valida per tutti i suoi conterranei. Al contrario, la sua cultura di origine, quella cristiana, aveva superato ogni limite dell’immaginazione arrivando a trasformare Dio in un calice di vino. E invitando, per giunta, a berlo per ricordare il suo sacrificio. Nelle cantine scavate nel ventre delle colline che circondavano Firenze si stava combattendo, insomma, una guerra di religione. E lui, l’umile Geremia, non faceva altro che dare il suo modesto e rispettoso contributo alla causa del Signore. Senza risparmiarsi.

    Con un sorriso provocatorio, si avvicinò il collo della bottiglia alle labbra, con calcolata lentezza, e bevve una lunga sorsata del contenuto. Percepì quasi subito la contrazione delle pareti dello stomaco e un violento senso di nausea. La realtà delle cose cominciava a oscillare. Cristo! Non doveva continuare a bere a digiuno. Mangiare qualcosa assieme al vino era pur sempre una regola di buon senso che persino suo padre aveva rispettato. Qualche volta, almeno. Una donna gli passò davanti, spingendo una carrozzina, non senza degnarlo di uno sguardo di commiserazione. Un tempo, il caro Geremia Solaris si sarebbe ubriacato con maggiore discrezione fra le pareti dell’appartamento dove abitava. Ma ormai non gliene fregava più niente dei commenti degli altri. E di amici a cui rendere conto dei suoi comportamenti non ne aveva praticamente più nessuno. Quelle pareti, poi, trasudavano di troppi ricordi di lei e della vita precedente. Ricordi che facevano male.

    Un sorso di vino. Un altro ancora per ricacciare in gola una bestemmia. Non gliene importava più niente del suo stato di salute, del suo aspetto fisico, della città di merda che si srotolava attorno a quel fiume che scorreva a soli pochi passi da lui.

    Si passò il palmo della mano sulle guance. Da quanto tempo non si radeva? A occhio e croce, da una settimana almeno, forse due. Non se lo ricordava più. Doveva avere un aspetto terribile, da barbone consumato. E il suo abbigliamento trasandato non testimoniava certo il contrario. Appoggiò la bottiglia per terra e si accese una sigaretta.

    «Posso sedermi?».

    Geremia squadrò la figura in giacca e cravatta davanti a lui. «Se non può farne a meno…», rispose acido. Poi corresse il tiro: «Prego, in fin dei conti questa panchina è pubblica».

    Dopo aver asciugato il suo posto con il fazzoletto, l’uomo si mise a sedere, la mano appoggiata sul manico dell’ombrello come se si fosse trattato di un bastone da passeggio. I due rimasero in silenzio, osservando gli esemplari di umanità che sfilavano davanti ai loro occhi. Dopo un po’, il nuovo venuto girò il capo verso di lui, con un sorriso che Geremia trovò irritante: «Non è un po’ presto per ubriacarsi?»

    «Sono affari miei, se mi consente!», replicò lui, risentito. «E poi, come si permette?»

    «Ha ragione. La prego di perdonarmi», rispose l’altro. Poi, senza scomporsi, aggiunse: «Le cose non vanno proprio così bene, vero dottor Solaris?».

    Sentendosi chiamare, trasalì: «Come fa a conoscere il mio nome? Chi è lei e che cosa diavolo vuole?»

    «So che negli ultimi tempi», continuò l’altro, «lei non ha quasi più ricevuto proposte di lavoro nel settore dell’editoria nonostante, se lo lasci dire, le sue indubbie competenze in materia».

    Geremia rimase a bocca aperta, incapace di ribattere. Effetto anche dell’alcol, indubbiamente, che gli rallentava i riflessi.

    «Sono qui per farle una proposta», proseguì l’uomo vestito elegantemente. «Una di quelle che potrebbero, mi creda, cambiare la sua vita».

    «Mi perdoni, ma non capisco», balbettò Geremia, sforzandosi inutilmente di apparire lucido.

    «C’è qualcuno che ha una grande stima nelle sue capacità, nonostante tutto, in considerazione di quello che lei ha dimostrato in passato. E che è in grado di ricompensarla profumatamente».

    «Ma per fare cosa? E poi, chi…?»

    «Ascolti, dottor Solaris», lo interruppe l’altro gettando uno sguardo severo alla bottiglia, «se vuole saperne di più venga nel mio studio domani mattina, quando avrà la mente, diciamo, più libera dalle preoccupazioni».

    Ciò detto gli porse un biglietto da visita. «Ovviamente, non è obbligato a farlo, ma fossi in lei, ci verrei. Arrivederci. Le auguro una buona giornata».

    Detto questo, si alzò e, senza aggiungere altro, se ne andò da dove era venuto, lasciando Geremia completamente inebetito. Osservò il rettangolo di carta. I caratteri oscillavano ma riuscì ugualmente a leggerlo:

    GIOVANNI ENRICO PONTI. AVVOCATO

    VIA DOMENICO DA MALMANTILE, 13

    50122 FIRENZE

    Si accese un’altra sigaretta. Domani mattina. Cosa poteva volere da lui un legale che, com’era evidente, agiva per mandato di qualcuno? E che, a giudicare dall’abbigliamento e i modi, non doveva nemmeno essere a buon mercato. Sapeva per esperienza che gli avvocati non portavano altro che guai, come tutti quelli che girano in completo e cravatta. Ma doveva ammettere di essere curioso. Ci sarebbe andato solo per questo, per sapere di cosa diavolo si trattasse. Al massimo, avrebbe rifiutato. Eppure il nostro egregio azzeccagarbugli si era addirittura scomodato di persona per cercarlo. Come diavolo aveva fatto a sapere dove si trovava in quel momento? Lo avevano seguito? Inutile porsi domande alle quali non avrebbe saputo fornire una risposta. Al diavolo! Afferrò nuovamente la bottiglia e ne scolò il contenuto d’un fiato. Quasi con rabbia. Stavolta la nausea lo assalì con ancora più prepotenza mentre la testa cominciava a girargli sempre più vorticosamente. Un turbinio che man mano trascinava con sé le aiuole di quel giardino, il verde degli alberi, le acque torbide dell’Arno, perfino quell’africano che non aveva altro di meglio da fare che starsene appoggiato alla staccionata, le merde di cane, il brusio dei passanti, il rumore del traffico dei lungarni… Ebbe appena il tempo di raggiungere, reggendosi sulle gambe malferme, il retro della siepe dove, con discrezione, vomitò una sostanza dal colore indefinibile. Geremia rimase in ginocchio a lungo, respirando a fatica e cercando di attenuare il bruciore acido che si era impossessato delle sue narici. E chiedendosi se la tonalità della chiazza che aveva davanti tendesse di più al verdastro o al color porpora.

    Tutto tornava alla terra, prima o poi. Anche il Chianti non poteva che sottostare a questa legge divina e immutabile. Requiescat in pace. Amen.

    II

    Geremia infilò la chiave nella serratura di un portone dal legno che aveva sicuramente visto tempi migliori. La cassetta della posta era ricolma di pubblicità e solleciti di pagamento. Lasciò tutto com’era. Visto che poteva farci ben poco, era inutile rovinarsi il fegato per questi stronzi. Per quello bastava la sua dose quotidiana di alcol.

    Salì le scale senza eccessiva convinzione, fino all’ultimo piano e si chiuse la porta alle spalle. Molto tempo fa, due braccia l’avrebbero accolto stringendosi attorno a lui. Delle labbra conosciute avrebbero sfiorato le sue per un istante. Il tepore dell’ambiente e il profumo di qualcosa di buono da mangiare avrebbero segnato un confine invalicabile fra quelle poche stanze e un universo ostile e malvagio.

    Si arrestò, senza premere l’interruttore, e si guardò attorno. Cosa era rimasto di tutto quello? Se qualcosa, mai, era sopravvissuto al diluvio che aveva travolto la sua esistenza. Si mosse nella penombra, accarezzando con i polpastrelli le superfici levigate e polverose di mobili sui quali si erano accumulati oggetti senza più un’anima, un giorno dopo l’altro, come i grani di un rosario consunto.

    Geremia si appoggiò al tavolo e si versò da bere con generosità. Per un attimo si percepì chiaramente la melodia del liquido che riempiva il bicchiere. Ne mandò giù una sorsata abbondante. Ma anche il vino, dovette constatare, aveva ormai perso il suo sapore. Al contrario, una sensazione di fastidio si faceva strada partendo dallo stomaco. Avrebbe dovuto mangiare qualcosa, ma sapeva benissimo che il frigorifero era praticamente vuoto, come le sue tasche. Sarebbe stato il caso di reagire, di cercarsi qualche lavoro, un’occupazione qualsiasi anche in settori diversi da quello dei libri. Si ripromise che nei giorni successivi ci avrebbe riprovato. Avrebbe contattato con qualche scusa persone che non sentiva più da tempo. Se doveva essere sincero, ci credeva poco, ma era un tentativo che andava fatto.

    Fissò il cassetto nel quale era contenuto il romanzo che aveva terminato tanto tempo prima e che si era ripromesso molte volte di rivedere. Le sue speranze erano ormai morte, se mai ne aveva avute. L’unico scopo della sua vita, se tale si poteva definire, era sopravvivere in qualche maniera. Al mondo e a sé stesso. L’alternativa era sin troppo banale. Sarebbe bastato aprire la finestra, calpestare qualche tegola e lasciarsi, semplicemente, andare.

    Si riempì un altro bicchiere di vino e lo mandò giù d’un fiato, cercando di dominare il senso di disgusto. La testa iniziava a girargli. Un’altra volta… Si sentiva sprofondare come se una forza malvagia volesse trascinarlo verso l’inferno. Respirò profondamente e gli parve che il malessere si attenuasse. Un altro respiro. Due. Si lasciò cadere sulla sedia e si mise a osservare gli arabeschi che le luci della città disegnavano sulla parete che diventava sempre più scura. Lasciò che il buio si impadronisse di quelle due stanze, senza trovare la forza di alzarsi per accendere la luce. Dalla strada gli giunse l’urlo di un’ambulanza che passava. Per poi perdersi e morire, divorato dalle fauci maligne di quel luogo. Del Moloch. Il mostro del quale percepiva il respiro.

    III

    Geremia si aggiustò il bavero della giacca prima di premere il campanello di un palazzo elegante, poco oltre il perimetro dei viali di circonvallazione. Uno dei tanti edifici farciti di studi di avvocati, notai, commercialisti, massoni. Un luogo di pellegrinaggio della ricchezza e del potere di una città molto discreta quando si trattava di parlare di denaro. Il campanello era conficcato in una di quelle targhe di ottone sempre impeccabilmente lucide nonostante le intemperie e lo smog. Suonò.

    Dopo pochi minuti, si trovò sprofondato su un comodo divano d’epoca davanti alla scollatura elegante e generosa di quella che doveva essere una sorta di segretaria. La studiò con attenzione, fingendo di sfogliare una rivista dedicata a un target con un conto in banca sicuramente meno ridicolo del suo. Quanti anni avrà avuto? Trenta? Trentacinque? La camicetta faceva trasparire un seno non particolarmente eclatante, in sintonia con un corpo esile e slanciato, ma ben spinto all’insù da una di quelle diavolerie di push up, o come si chiamano. La bocca, di un rosso acceso, quasi sfacciato, faceva intuire competenze di tutt’altro genere. Già, chissà quante pratiche avevano studiato assieme i due, pensò, abbozzando un sorriso perfido.

    Mentre la stava spogliando mentalmente, il telefono appoggiato sul tavolo della donna squillò. La venere rispose con un paio di monosillabi, dopo di che si alzò mostrando due gambe impeccabili sotto una gonna nera talmente stretta che pareva doversi strappare da un momento all’altro.

    «Mi segua, per favore», gli disse, degnandolo di uno sguardo quasi infastidito prima di scortarlo sculettando fino alla porta in fondo al corridoio.

    «Buongiorno dottor Solaris, sapevo che sarebbe venuto», fece una voce proveniente da dietro una scrivania di legno scuro.

    «Solo per curiosità e senza alcun impegno, tengo a precisare».

    «Certamente», rispose l’avvocato senza scomporsi. Poi rivolto alla segretaria: «Può andare. Chiuda pure la porta e non mi passi telefonate. Non ci sono per nessuno, intesi?».

    Poi dopo che la donna se ne fu andata scodinzolando, si rivolse a Geremia, indicando una sedia imbottita davanti a sé: «Prego, si accomodi».

    Geremia dette un’occhiata distratta ai mobili d’epoca e alle pareti tappezzate di quadri, sicuramente di valore. Un’intera parete era occupata da una fila di alti scaffali monotonamente riempiti da faldoni ordinati per numero di pratica. A giudicare dallo spreco di carta e alla faccia dell’informatizzazione, era palese che l’avvocato poteva vantare una buona mole di lavoro e un cospicuo numero di clienti, sicuramente denarosi, stando all’arredamento. Gli sembrò ancora più strano che una persona del genere avesse sprecato il suo tempo per venirlo a cercare su una panchina. Per conto di chi? Sicuramente non di un personaggio qualunque.

    L’avvocato attese che il suo ospite avesse ben posate le natiche sulla superficie vellutata della sedia. Poi, appoggiando i gomiti sul ripiano della scrivania, si sporse in avanti e lo fissò negli occhi: «Allora, dottor Solaris, mi fa piacere che abbia accettato il mio invito».

    «Il piacere è tutto suo», rispose velenoso l’altro.

    Geremia ebbe l’impressione che l’avvocato esitasse, quasi a voler ribattere a tono con un’altra battuta. Ma si limitò a un sorriso contenuto. «Caro dottor Solaris, non l’ho chiamata qui per farle perdere tempo. Quindi, se per lei va bene, verrei subito al sodo».

    «Non chiedo di meglio», replicò Geremia a cui non era sfuggito il tono ironico di quel perdere tempo. Cosa altro aveva da fare oltre che ubriacarsi?

    «Se l’ho fatta venire fin qui è perché mi è stato chiesto espressamente da un mio cliente, una persona, mi creda, molto importante».

    «E chi sarebbe, se mi è permesso chiederlo?»

    «Questo lo saprà a breve se avrà la bontà e la pazienza di ascoltarmi», rispose l’altro con una venatura di fastidio nel tono di voce.

    «Senz’altro. Mi farebbe davvero piacere sapere cosa vuole da me questo tizio e come fa a conoscermi».

    «Sul motivo per il quale ha fatto espressamente il suo nome, in tutta sincerità, non posso sbilanciarmi. Le posso però dire che il mio cliente è molto informato su di lei e su qualcosa, così mi sembra di capire, che lei ha fatto nel recente passato e che lo ha fortemente impressionato. Mi ha accennato in particolare alla circostanza che lei sia riuscito a decifrare un codice che da secoli resisteva a ogni tentativo di interpretazione».

    «Capisco», rispose Geremia. «Devo però comunicarle che, se così è, il suo anonimo cliente frequenta compagnie non proprio raccomandabili».

    «No, guardi. Lui stesso mi ha preparato a questa sua obiezione. Ci tiene a farle presente che con tutto quello che le è successo, non c’entra. Anche se non ha voluto dirmi a cosa si riferisse».

    «E lei è convinto che io ci creda?»

    «In ogni caso, può chiederglielo di persona».

    «Volentieri. Ma come faccio a…?»

    «Se non ha nulla in contrario», lo interruppe l’avvocato, «possiamo andare subito da lui».

    Una tempestività che sorprese Geremia. «Sì, è la cosa migliore», balbettò. «Senza nessun impegno però».

    «Naturalmente. Così sentirà tutto direttamente dalla sua voce. Era sicuro che avrebbe accettato di incontrarlo e ci sta aspettando».

    «Un attimo! Non sarebbe meglio vederci in qualche luogo con dei testimoni? Mi perdoni, caro avvocato, ma non mi fido. Sono certo che il suo cliente compren-

    derà».

    «I suoi sospetti sono ingiustificati, dottore. E poi non possiamo fare diversamente che recarci nella sua villa, fuori Firenze».

    «Per quale motivo?»

    «Il fatto è che non si può muovere perché è molto malato. Mi dispiace. Se per lei non è un problema, possiamo usare la mia automobile che è parcheggiata in un garage qui vicino».

    Ci fu un attimo di esitazione. «D’accordo, andiamo allora».

    L’automobile era una grossa

    BMW

    , un modello che Geremia, data la sua ignoranza in materia, non avrebbe saputo identificare. Avrebbe fatto, però, volentieri a cambio con il suo motorino sgangherato e senza assicurazione. Dopo una buona mezz’ora di strada che si inerpicava sui fianchi di colline ricoperte di olivi e di vigneti, cercò di saperne di più, ma non ottenne altro che risposte evasive. Poteva davvero trattarsi di una trappola? Doveva ammettere che questo pensiero lo aveva più volte sfiorato. Tuttavia, se qualcuno avesse voluto accorciare il suo peregrinare in questa valle di lacrime avrebbe avuto, in tutto questo tempo, ben altre occasioni per farlo, e con sistemi ben più sbrigativi e discreti. No, da questo punto di vista poteva mettersi il cuore in pace.

    Osservò il paesaggio che gli sfrecciava accanto, le cupe file dei cipressi che si alternavano al pallore dei muri a secco e delle vecchie costruzioni in pietra. La stessa tonalità delle strade sterrate che si intravedevano per un attimo ai lati degli incroci e che si perdevano fra grumi di vecchie case e la massa scura dei boschi. Luoghi che gli erano familiari, scenari delle tante escursioni domenicali che un tempo aveva condiviso con Sara. Migliaia, milioni di anni prima, quando le superfici assolate di queste stesse colline erano popolate da esseri più rassicuranti. Geremia sentiva prepotente il bisogno di bere. Se avesse seguito il suo istinto, avrebbe pregato la persona che stava al volante di effettuare una deviazione, di fermarsi nella prima osteria che avessero incontrato. Un solo bicchiere, niente di più. D’altronde i cartelli stradali riportavano nomi che campeggiavano sulle etichette dei vini. E quell’insegna

    BENVENUTI NEL MONDO DEL CHIANTI CLASSICO

    era quanto di più provocatorio si potesse concepire. Le rivelazioni di un vecchio malato potevano aspettare ancora un po’. Geremia intravide una chiesetta romanica, con il segnale bianco e rosso di un sentiero escursionistico. Un’immagine che riaffiorava improvvisa e nitida dalla nebbia del tempo. Gli sembrava che anche quella volta fosse stata lei, Sara, a scegliere l’itinerario. Se lo ricordava bene. Era uno di quei giorni nei quali sentivi il sole che ti scaldava la pelle e il cuore. Un calice di vino sarebbe stato, invece, l’unica cosa in grado, in quel momento, di offrirgli un po’ di tepore. Forse, se glielo chiedeva…

    All’improvviso, l’avvocato svoltò per imboccare una strada bianca sulla destra e iniziò a salire con decisione. Con la mano indicò un gruppo di edifici arroccati sulla cima di una collina dai quali spuntava una torre merlata: «Ecco, siamo arrivati».

    Geremia osservò il profilo delle costruzioni in pietra. Non avrebbe saputo darsi una spiegazione, ma c’era qualcosa che non gli piaceva di quel luogo. Una sensazione, soltanto. Eppure, da tempo aveva imparato a fidarsi del suo istinto. E quel nome scritto sull’insegna, poi, avrebbe dovuto dirgli qualcosa. Ma cosa?

    IV

    C’era quell’odore tipico delle corsie d’ospedale, un’aria stantia impregnata di alcol, sudore, malattia. Le tende erano accostate in modo da non far passare la luce diretta del sole. Sul letto, attaccata alla flebo, giaceva una figura scavata e pallida. Quanti anni poteva avere?, si domandò Geremia. Sicuramente non più di sessantacinque o settanta, valutò, anche se i segni della malattia, qualunque fosse, rendevano difficile una stima precisa. L’infermiera, una bionda corpulenta, finì di misurare la pressione. «Settantacinque-centodieci. Non male, signor conte», disse, con un accento dell’Est. L’uomo abbozzò un sorriso: «Grazie. Può andare».

    Poi fece cenno a Geremia di avvicinarsi. «La ringrazio di essere venuto», disse, dopo che il suo ospite si fu accomodato su una sedia imbottita di velluto.

    «Posso offrirle qualcosa da bere?», fece il vecchio.

    «Grazie, ma non vorrei…».

    «Avvocato!», esclamò l’altro senza nemmeno rispondergli. «Può essere così gentile da riempire un bicchiere con il vinsanto che si trova nel mobile sulla sua destra? Se ne serva anche lei, non faccia complimenti».

    Poi, dopo un attimo di silenzio. «Anzi, avvocato, porti pure qui tutta la bottiglia».

    Geremia si sentì sollevato. Se non altro il primo approccio era positivo, gli venne da pensare.

    «Scusate se non vi faccio compagnia», continuò, «ma, nelle mie condizioni, come comprenderà, è meglio evitare».

    Geremia si trattenne a fatica dal vuotare il bicchiere tutto d’un fiato. Il vecchio dovette avvedersene: «Buono, vero? Non per vantarmi, ma di vinsanto di questo livello ne troverà ben poco in giro. Prego, non si riguardi».

    Ma l’altro si era già riempito un secondo bicchiere.

    «Bene, ora che abbiamo, per così dire, rotto il ghiaccio», continuò il padrone di casa, «possiamo parlare del motivo per cui l’ho fatta venire fin qui. Premetto che verrà rimborsato in ogni caso. E in maniera adeguata».

    «Come fa a conoscermi?», tagliò corto Geremia.

    Il vecchio sorrise: «Lei è un uomo molto diretto, vero?»

    «Non mi piace perdere tempo».

    «Ma lei di tempo ce ne ha, vero dottore?», replicò l’altro, scandendo le parole. «Soprattutto in questo periodo». Poi continuò: «Sicuramente si immagina come mai io sia a conoscenza di certi dettagli della sua esistenza».

    «Penso proprio di sì, e la faccenda, in tutta franchezza, non mi piace per niente. Anzi, non so proprio cosa mi trattenga dallo strangolarla in questo stesso momento con le mie mani».

    «Dottor Solaris, la prego di credermi. Io non c’entro niente con tutte le vicende di sangue che l’hanno coinvolta».

    «E come mai è così informato, allora?»

    «Senta, non ho la presunzione di poterla convincere, ma lei deve sapere che con tutto questo non ho mai voluto avere a che fare».

    «Come mai, allora, non ha mai denunciato i fatti dei quali era sicuramente a conoscenza?», replicò secco Geremia.

    Il vecchio attese alcuni istanti prima di rispondere. «Lo sa benissimo che sarebbe stato uno sforzo inutile. Oltre che una sicura condanna a morte. D’altronde nemmeno lei lo ha fatto, da quel che mi risulta».

    «Ma io non avevo in mano le prove che lei, invece, potrebbe esibire».

    «Qui si sbaglia, dottore. Non ho in mano un bel niente, purtroppo. L’organizzazione, chiamiamola così tanto per semplificare, è strutturata in maniera tale da essere inattaccabile. E nessun membro sa più di quello che è necessario conoscere».

    Geremia lo fissò: «Però anche lei ne fa parte. Non mi verrà a dire che non è vero».

    Il vecchio sorrise. «Apprezzo il suo candore, davvero. Secondo lei, come avrei potuto realizzare tutto quello che vede? Come avrei potuto arricchirmi, e parecchio, senza l’appoggio di ampi settori della massoneria, più o meno occulta, gente che ha in mano il potere politico ed economico? Qui a Firenze non ci sono altre strade per fare soldi, nemmeno per il discendente di una nobile stirpe. Ma, glielo giuro, ho sempre cercato di mantenere le distanze da certi ambienti, per così dire, particolarmente deviati».

    «Balle! Non è possibile che lei non sapesse niente dei crimini che l’organizzazione commetteva, dei rapimenti di giovani donne che venivano usate per oscuri riti».

    «Ne sono ignaro. Quello è un livello a cui non ho mai voluto appartenere».

    «Non mi prenda in giro, avete ucciso Sara, mia moglie. E Luciano, proprio mentre stava venendo da me per rivelarmi qualcosa di sconvolgente. E molti altri. Non se lo dimentichi».

    «Io non ho mai ucciso nessuno, mi creda. Quello di cui può accusarmi, semmai, è di avere avuto dei sospetti, delle notizie e di non avere denunciato la cosa. Di aver pensato solo ai miei interessi. Ma le mie mani, che ci creda o no, non sono sporche di sangue».

    «Non mi verrà a dire che non sa niente nemmeno della guerra sotterranea che si combatte da sempre a Firenze fra l’associazione segreta cui anche lei fa parte e la Congregazione di San Michele?».

    Il vecchio conte non rispose, limitandosi a gettare uno sguardo alla flebo.

    «Non mi verrà a dire che è ignaro di tutto quello che è successo un anno fa?», incalzò Geremia. «Ho consegnato a una persona di fiducia una lista di nomi eccellenti implicati in questi fatti di sangue. Tutta la Firenze che conta, in pratica. E non mi sorprenderebbe che fra questi ci fosse anche il suo».

    «Non so chi può aver compilato quell’elenco. Io, in ogni caso, non ho mai partecipato a quei riti di cui parla».

    «Però sa tutto del codice che ho decifrato. E di molto altro».

    «Questo non lo nego».

    «E il Covoni? Non mi dirà che non lo conosceva e che non sa niente delle circostanze della sua morte che avete fatto passare per un incidente. Io ero lì, accanto al cadavere della moglie di Luciano e di padre Gualberto che si è sacrificato per salvarmi la vita».

    «Il Covoni era un emerito coglione!», sbraitò l’altro. «Uno che si era convinto di poter agire al di fuori di qualsiasi regola. E che, anzi, ha danneggiato fortemente l’organizzazione con il suo atteggiamento sconsiderato».

    «Non le credo».

    «Faccia come vuole,

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