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La profezia della torre nera
La profezia della torre nera
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E-book579 pagine8 ore

La profezia della torre nera

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Info su questo ebook

Un grande bestseller di David Chandler

Una corona maledetta
Un furto impossibile
Un mistero senza tempo

In un’epoca lontana e dimenticata Malden è un ladruncolo da bassifondi, che ha cominciato a rubare per sopravvivere. Nato e cresciuto tra i vicoli stretti e bui della città di Ness, è sempre riuscito a cavarsela, grazie alla sua furbizia e a un innato talento per arrampicarsi sui muri. Il ragazzo però ha un grosso debito con il capo della confraternita di ladri e criminali che imperversa a Ness, e quindi, quando due misteriose figure lo agganciano, proponendogli un affare che gli permetterà di procurarsi in un colpo solo tutto il denaro di cui ha bisogno, non esita a cogliere al volo l’occasione. Solo dopo aver accettato scopre di essere solo una pedina di un disegno più ampio: dovrà infatti rubare la corona del signore di Ness, custodita in una torre piena di insidie e sorvegliata da centinaia di guardie. Una missione molto pericolosa, che potrebbe cambiare per sempre non solo il suo destino, ma anche le sorti del regno…

Uno strepitoso successo internazionale dall’autore bestseller del New York Times

Un romanzo dal ritmo incalzante che vi lascerà con il fiato sospeso fino all’ultima pagina
Cavalieri e tesori segreti, splendidi scenari e incredibili colpi di scena

Avvincente come I pilastri della terra, leggendario come Il signore degli anelli


David Chandler
è lo pseudonimo di David Wellington, autore bestseller del «New York Times» e famoso scrittore di romanzi horror, acclamati dalla critica letteraria mondiale.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854145245
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    Anteprima del libro

    La profezia della torre nera - David Chandler

    PROLOGO

    Quasi centomila persone vivevano nella Libera Città di Ness, ammassate come topi in un sacco troppo piccolo per contenerli tutti. La città aveva un raggio di poco più di un chilometro e occupava ogni angolo della collina cinta da alte mura difensive. A mezzanotte, dall’alto di una collina distante tre chilometri in direzione nord, era l’unica luce nel paesaggio notturno, una brace ardente sotto la foschia di campi scuri che si srotolavano all’orizzonte. Sembrava che sarebbe bastata una folata di vento per smuoverla da un momento all’altro e attizzare un grande incendio.

    Bikker sorrise, anche se sapeva che era solo un inganno della prospettiva. Era un uomo gigantesco con una barba incolta e una spada magica appesa alla cintura. Non sapeva cosa pensassero gli altri due membri della congiura, ma a lui sarebbe piaciuto veder bruciare la Libera Città di Ness.

    Le luci che scorgeva provenivano da un migliaio di finestre e dalle fucine di un centinaio di botteghe e laboratori. La città approvvigionava il regno di Skrae del ferro e dell’acciaio necessari, della maggior parte dei manufatti di pelle e di un fiume interminabile di cucchiai e fibbie, lanterne e pettini d’avorio. Le corporazioni lavoravano tutta la notte, tutte le notti, soddisfacendo l’infinita domanda. Sbuffi di fumo si alzavano da ogni comignolo, si sollevavano come bollenti colonne scure che nascondevano le stelle, mentre metà delle finestre della città erano rischiarate dalla fiamma di candele alla cui luce un esercito di scrivani, impiegati e ragionieri scarabocchiavano sui loro libri contabili.

    Sulla vicina sponda del fiume, le case da gioco erano illuminate, mentre alcune prostitute camminavano su e giù per la strada con le lanterne in mano per attirare i passanti. Metà della città era ancora sveglia, o almeno così sembrava.

    «Pensate che qualcuno sappia cosa li aspetta?», domandò Bikker.

    «Spero di no, per il buon esito del nostro piano», affermò il suo signore.

    Bikker non aveva mai visto quell’uomo. Anche ora la mente della congiura era sistemata dentro una carrozza buia trainata da due cavalli bianchi che sbattevano gli zoccoli sul terreno. La bardatura degli animali non aveva né stemmi né simboli, e il cocchiere non indossava l’uniforme. Tutte le insegne erano state rimosse, per cui la carrozza sarebbe potuta appartenere a qualsiasi residenza.

    Una mano sottile si sporse da un finestrino, tenendo per i manici una borsa piena d’oro. Bikker la prese – era l’ultimo di molti pagamenti – e se la fece scivolare dentro la cotta. «Per il tuo bene, ti consiglio di tenere la bocca chiusa».

    «Non vi preoccupate. Quando voglio, posso essere molto discreto», disse Bikker con una risata. «Anche se avrei una storia proprio interessante da raccontare! Tra un mese la città sarà divisa a metà, e le strade saranno piene di cadaveri. Quante luci pensate che saranno accese allora? E nessuno saprà quale ruolo avrò avuto in tutto questo».

    «No, non lo sapranno», sentenziò l’ultimo membro della congiura. Bikker si girò verso Hazoth, il cui viso era coperto da uno spesso velo di crespo nero. Nonostante Bikker non gradisse la faccenda degli accoliti segreti, pensò che quel velo non lo disturbava. Era meglio non guardare uno stregone in faccia. «Se non riesci a mantenere il silenzio da solo, posso costringerti io a farlo. Non dimenticare qual è il tuo posto. Il tuo ruolo in questa faccenda è insignificante».

    Bikker scrollò le spalle. Lo sapeva benissimo. Era stato assoldato per portare a termine una serie di piccoli compiti, ma sostanzialmente perché era forse l’unica persona che avrebbe potuto fermare quei due, se solo avesse voluto. Quando aveva acconsentito a incontrarli – e poi aveva accettato la loro titubante e misteriosa offerta – gli erano stati incredibilmente grati. La sua reputazione lo precedeva, e loro non avevano intenzione di offendere la sua vanità, anche se non perdevano occasione di ricordargli che era il loro servo. «Faccio ciò che mi viene ordinato... quando vengo pagato. L’oro ha il potere di sigillare la bocca. Lui lo sa bene», disse Bikker, indicando con un pollice il passeggero della carrozza, «ma cosa ricavate da tutto questo, mago? Cosa vi dà che non potete già ottenere con la vostra magia?»

    «Ho acconsentito a chiudere un occhio sugli... esperimenti di Hazoth», rispose il passeggero, «quando governerò la città. È un problema per te?».

    C’era stato un tempo in cui Bikker non avrebbe potuto accettarlo, veramente. Gli stregoni potevano essere pericolosi, Hazoth puzzava di zolfo e di inferi, ed era capace di infliggere punizioni terribili ai mortali, sofferenze che nessuno dovrebbe mai provare. In passato gli stregoni avevano commesso degli errori, e il mondo intero ne aveva pagato le conseguenze. La spada appesa al fianco di Bikker era la testimonianza di quanto alto, quella volta, fosse stato il prezzo. Era deputata alla difesa del regno dai demoni che uno stregone avrebbe potuto invocare, ma non sempre controllare.

    C’era stato un tempo in cui anche a Bikker era stato affidato lo stesso compito della spada. Ma il mondo era cambiato, i tempi erano cambiati, e anche lui era cambiato. Qualsiasi fiducia avesse avuto nella nobiltà o nell’ubbidienza era stata ormai sepolta in modo lento e inesorabile, ma in passato era stato un paladino del genere umano.

    Ora non gliene importava più nulla. Scrutava la città: da lì avrebbe potuto essere un nido di termiti che si arrampicavano su un cumulo di letame. «Massacriamoli tutti. Se lo vorrete, diventeranno solo cibo per cani, Hazoth! Per allora sarò abbastanza lontano da fregarmene».

    «È vero. L’oro che hai nella borsa ti porterà lontano. E ne arriverà ancora, una volta che avrai portato a termine la tua parte del piano. Sai quale sarà la prossima mossa?»

    «Oh, sì», rispose Bikker. Sputò in direzione della città come se volesse spegnere i fuochi con un solo gesto. «Il prossimo passo sarà trovare il quarto, inconsapevole complice». Doveva essere un folle, qualcuno che non avesse idea di cosa stava facendo. Senza questa pedina, il piano non poteva procedere. «Devo trovare un ladro».

    PARTE PRIMA

    IL RISCATTO DI UN LADRO

    CAPITOLO 1

    Piccole creature maligne si muovevano furtivamente nell’ombra, i loro occhi brillavano nell’oscurità. Dagli scheletri bruciati delle vecchie case, Malden sentiva provenire lo scalpiccio di minuscoli piedi e, di tanto in tanto, un sospiro. In quella zona della città non c’era illuminazione e la nebbia nascondeva sia la luna che le stelle. La luce della lanterna che Malden aveva con sé si posava su un muro diroccato colorandolo di giallo, o rivelava le zone in cui i ciottoli erano stati rimossi e profonde pozze di fango aspettavano un piede incauto. Ma non riusciva a penetrare l’oscurità che avvolgeva le case e le stalle in rovina, né a mostrargli chi lo stesse osservando così insistentemente.

    Tutto questo non gli piaceva.

    Non gli piaceva l’ora dell’incontro, l’una di notte. Non gli piaceva il luogo: lungo le mura, vicino alla porta del fiume, nella terra abbandonata chiamata Ceneri. Nell’anno in cui era nato, quella zona della città era stata distrutta dall’Incendio dei Sette Giorni. I dormitori pubblici e i mattatoi appartenevano ai più poveri, perciò da allora non era stato compiuto nessuno sforzo per ricostruire o demolire i ruderi. Nessuno sceglieva di vivere lì, e Ceneri era stato abbandonato. Dai ciottoli dimenticati spuntavano erbacce, mentre piante rampicanti soffocavano le travi dei tetti caduti o rosicchiavano i vecchi mattoni anneriti. Alla fine la natura avrebbe ripreso completamente il possesso della zona e Malden, che da quando era nato non aveva mai messo piede fuori da lì, trovava questo pensiero – l’idea che una parte della città, che rappresentava per lui il concetto stesso di permanenza, potesse decomporsi, morire ed essere cancellata – decisamente insopportabile.

    Qualcosa dietro di lui attraversò una strada abbandonata. Si girò per far luce con la lanterna, ma nonostante i riflessi gialli, non fu abbastanza veloce da vedere cosa fosse. Percepì solo che spariva nel grosso buco da dove una volta una finestra si affacciava sulla strada. La mano andò verso il pugnale che teneva sul fianco, ma decise di non estrarlo. Non bisognava mai mostrare l’arma finché non si era pronti a colpire.

    Malden rimase fermo dove si trovava e cercò di prepararsi. Se stavano per attaccarlo, sarebbe successo tutto velocemente, ed essere pronti avrebbe fatto la differenza. Non vedeva quasi niente: alla fioca luce della lanterna le travi bruciate e le strade annerite dalla fuliggine apparivano tutte dello stesso colore. Quindi, in cerca di qualche segnale, chiese aiuto a un altro dei suoi sensi. Sentiva solo lo scricchiolio del legno vecchio e consunto e l’aleggiare impalpabile della cenere. A distanza di così tanti anni ancora avvertiva l’odore del fumo.

    Percepì un leggero scalpiccio alle sue spalle, piedi nudi che camminavano sulle travi di legno carbonizzate. Il rumore durò solo un momento, quando smise il silenzio tornò ad avvolgere ogni cosa. Un silenzio così profondo e insolito in quella città chiassosa. Era frastuono per le sue orecchie.

    Si girò lentamente su un tallone, esaminando i telai vuoti delle porte e le stradine tortuose che si arrotolavano intorno agli edifici. Sperava di appoggiare la schiena a qualcosa di solido. C’era un edificio di mattoni più avanti, o almeno ciò che ne rimaneva. Il tetto era crollato, così come uno dei muri, ma gli altri tre resistevano; se fosse riuscito a entrarvi, almeno non si sarebbe dovuto preoccupare degli attacchi alle spalle. Si affrettò in quella direzione tenendo ben alta la lanterna, ma si bloccò quando udì un rumore provenire da molto vicino.

    Uno degli esseri che lo stavano osservando era uscito allo scoperto sulla strada e si trovava dietro di lui: sentiva i suoi piedi sguazzare dentro una pozzanghera. A quel punto non sparì quando Malden si girò per cercare di vederlo, a quel punto non si mosse.

    Ben prima di completare la rotazione, la mano era già sull’impugnatura del coltello. Esitò a estrarlo, quando vide la creatura di fronte a sé. Era una bambina, non aveva più di sette anni. Indossava una sottoveste macchiata fatta di stoffa tessuta a mano e al posto delle scarpe aveva stracci avvolti ai piedi. Reggeva davanti a sé un martello con entrambe le mani. Fissava impassibile il volto del ragazzo.

    Malden allargò le mani per mostrarle che erano vuote. Fece un passo verso di lei e, visto che non fuggiva, ne fece un altro. Si avvicinò ancora di più: all’improvviso la strada si riempì di bambini vestiti di stracci. Spuntavano dalla nebbia come se il freddo e l’umidità li generassero spontaneamente, come i funghi sul legno marcio. Erano maschi e femmine di età varie, ma erano tutti vestiti allo stesso modo: con magliette logore e tuniche troppo grandi per i loro corpi scheletrici. Tutti impugnavano armi improvvisate. Uno di loro aveva una sega da falegname, un altro un punteruolo da calzolaio. Pezzi di legno con chiodi sporgenti, una catena di ferro piuttosto lunga. Un ragazzo più grande stringeva un’accetta da taglialegna, la teneva lungo la gamba come se sapesse usarla.

    Una banda di orfani, pensò Malden. Una banda di monelli uniti dalla povertà pronti ad attaccare viaggiatori abbastanza pazzi da andare laggiù di notte. Un piccolo esercito di straccioni. Erano a dozzine e, nonostante Malden fosse sicuro che avrebbe potuto battere il più grande in un combattimento leale, dai loro occhi si intuiva che non conoscevano il concetto di giustizia o correttezza: questi ultimi erano concetti mitici e impossibili, di cui non avevano esperienza, al pari dei continenti al di là del mare della cui esistenza parlavano i saggi. Gli sarebbero saltati addosso tutti insieme, lo avrebbero sfregiato, colpito, pestato e dilaniato a morte. Senza pietà.

    Aspettavano la sua prima mossa, per correre o combattere. Non perché avessero paura di attaccare, ma volevano che commettesse un errore, che li sottovalutasse. Avrebbero approfittato della minima debolezza e si sarebbero disfatti in fretta di lui.

    Malden si passò la lingua sulle labbra e si girò prima da una parte e poi dall’altra alla ricerca di un’apertura. Non c’era nessuna via d’uscita, o almeno così sembrava... A meno che non ci fosse un’altra ragione dietro a quell’attesa silenziosa e a quegli sguardi fissi e impassibili.

    «Voi volete dei segnali o delle parole d’ordine», disse «ma tutto ciò che ho è questo». Mise la mano sotto il mantello. Si avvicinarono serrando il cerchio intorno a lui. Erano pronti ad attaccare al primo segno di aggressione. Ma Malden non stava afferrando il pugnale: infilò le agili dita nella borsa ed estrasse il brandello di pergamena che lo aveva condotto in quella zona tremenda a quell’ora spaventosa. Lo aprì con attenzione – l’antica carta si spezzò a metà, tuttavia Malden tenne insieme i due pezzi – e mostrò loro il messaggio che aveva ricevuto:

    Questa casa appartiene A NOI,

    e il suo padrone è sotto la nostra protezione.

    Alla prossima Ora delle Streghe non venire IN COMPAGNIA

    a Ceneri vicino al Muro Occidentale – o

    la MORTE prima della prossima Alba ti porterà via.

    «L’ho trovato inchiodato al davanzale di una casa che stavo per svaligiare. Volevate vedere questo, non è vero?».

    Si chiese se sapessero leggere. No, ovviamente no. Era da pazzi pensare che quei bambini avessero mai ricevuto un’istruzione né tanto meno un’educazione religiosa. Nonostante ciò, sembravano rapiti da quel messaggio. Certo, pensò. Riconoscevano la firma, un disegno rudimentale di un cuore trafitto da una chiave.

    Non sapeva cosa significasse, almeno non ne era sicuro, ma il potere che aveva su di loro era affascinante. Uno alla volta si avvicinarono e toccarono la carta, come i mercanti superstiziosi che a volte sfiorano la statua della Signora prima di iniziare difficili negoziati. Una volta controllata la firma e forse deciso che non era falsa, si misero in fila e tornarono nell’oscurità. Tutti eccetto la bambina con il martello, la prima che aveva visto, che ancora lo fissava. Quando furono di nuovo soli, finalmente smise di guardarlo e si diresse verso l’edificio di mattoni in cui lui aveva pensato di rifugiarsi. Lo condusse all’ingresso e con un gesto lo invitò a passare. Poi fece un perfetto inchino e raggiunse gli altri.

    Non c’era dubbio che il posto fosse quello. Tenendo davanti a sé il brandello di pergamena come fosse un talismano, Malden entrò.

    CAPITOLO 2

    Dentro l’edificio diroccato tre vecchi, vestiti di stracci, sedevano su una grande cassa di legno. Due avevano una lunga barba bianca, mentre il terzo era calvo e rasato. La vecchiaia li aveva rinsecchiti ma i loro occhi brillavano di furbizia, senza alcuna traccia di ottundimento. Malden ebbe la sensazione che la faccenda fosse molto più importante di quanto essi non dessero a vedere.

    Li salutò con un cenno del capo ma non disse nulla. Prima studiò l’interno dell’edificio, le assi del tetto distrutte e cadenti, i mucchi di calcinacci bruciati. Il pavimento era coperto da uno spesso strato di macerie. Lì dentro un assassino non avrebbe mai trovato un nascondiglio, anche se, tra la poca luce e i veli di foschia che avvolgevano la lanterna, non si poteva mai dire.

    «E se avessi portato con me le guardie della città?», chiese Malden, rendendosi subito conto che non c’era bisogno di convenevoli. Alla fine, era pur sempre stato minacciato di morte.

    Il calvo fece un sorriso maligno. «Non saremmo qui. Non avresti mai trovato questo posto, e prima dell’alba ti avrebbero tagliato la gola».

    Malden annuì. «Siete ben organizzati. I bambini tengono d’occhio il posto, vero? Controllano che nessun ospite indesiderato arrivi fin qui. Scommetto che se anche provassi a fare qualcosa, voi sareste pronti a reagire».

    Uno dei due vecchi con la barba alzò un lungo dito curvo indicando l’aria. Malden seguì la traiettoria fino a scorgere una guglia che sbucava dalla foschia a due isolati di distanza. Probabilmente era la chiesa del quartiere: era stata costruita in pietra, e perciò aveva resistito al fuoco.

    Mentre scrutava attraverso l’oscurità, qualcosa passò vicino alla sua guancia sibilando e colpì un’asse di legno carbonizzata. Malden guardò con la coda dell’occhio e vide l’asta di una freccia che ancora tremava. La freccia era lunga quanto il suo braccio e il colpo era stato così violento che la punta di ferro era completamente conficcata nel legno.

    Nell’istante successivo Malden non respirò. I polmoni erano come bloccati e tutti i muscoli del corpo gli si erano irrigiditi. Aspettò paziente la freccia successiva, che gli avrebbe trafitto il ventre o la gola. Ma non arrivò.

    Ora capiva il significato di ciò che era successo. La freccia era un messaggio: non doveva dimenticarsi che in quel luogo niente era come sembrava e che ancora correva il rischio di morire. Non c’era bisogno che glielo ricordassero.

    «Riconosco con piacere che non hai fatto una piega», disse uno degli uomini con la barba. «Bravo, ragazzo. Molto bene».

    Non appena riuscì a muoversi e a respirare di nuovo, Malden gli fece un piccolo inchino. «Penso di aver capito, ma presumo che non siate voi le persone che devo incontrare. Forse potete mostrarmi da dove entrare. Siete i guardiani della porta, vero? E non solo questo, ovviamente».

    Il calvo si toccò il petto. «Io mi chiamo Undicidita. Loro», continuò, indicando i barbuti, «sono Feritoia e Mascella Serrata».

    «Piacere di conoscervi», disse Malden. «Un momento... Ho sentito parlare di lui, di Feritoia. È successo un po’ di tempo fa, ma ancora raccontano la sua storia su a Fetore. Se sei la stessa persona, ti hanno dato quel nome quando hai svaligiato la guarnigione vicino al palazzo. È vero che sei entrato da una feritoia sulla facciata, a più di quattro metri da terra?».

    Feritoia rantolò quando rise. «Un’altra volta ti racconterò tutto, se vuoi. Sempre che tu stanotte sopravviva».

    Malden assentì. «Ne sarei onorato. E tu, Undicidita, perché ti chiami così, se posso permettermi di chiedertelo?»

    «Ai miei tempi ero il re dei borseggiatori», rispose il calvo con evidente orgoglio. «Dicevano che nessun uomo con dieci dita soltanto poteva essere così bravo, quindi dovevo averne undici». Alzò le mani, erano nodose e macchiate dall’età, ma perfettamente normali. «È solo un soprannome».

    Malden sorrise al terzo uomo, in attesa che anche lui gli spiegasse l’origine del suo soprannome. Invece fu Feritoia a farlo. «Mascella Serrata sa tenere bene i propri segreti, ecco il motivo. Non dà mai niente per niente».

    «Non parla mai?»

    «Non con quelli come te», borbottò Mascella Serrata, con una voce spaventosa, come una trave di legno che scricchiola in una casa vuota. «Non ancora».

    «Capisco», annuì Malden. Ne rimase colpito. Rubare era un’attività pericolosa: se non si moriva in un’imboscata o sotto la spada di qualche guardia eccessivamente zelante, c’era sempre la legge ad attenderti. Nella Libera Città di Ness, chi prendeva anche solo un centesimo di rame dalla borsa di un grasso mercante veniva punito con l’impiccagione. Quei tre uomini, audaci delinquenti ai loro tempi, famosi per imprese importanti, erano sopravvissuti abbastanza a lungo da diventare vecchi senza essere catturati. Ciò significava che nel fiore dei loro anni dovevano essere stati veramente molto abili. Malden si chiese cosa potessero insegnargli. Ma c’erano questioni più urgenti da sbrigare. «Sono venuto qui per vedere qual­cuno».

    «Allora sei pronto per l’incontro con il nostro capo?»

    «Suppongo che sarebbe meglio esserlo», rispose Malden.

    Mascella Serrata grugnì qualcosa che avrebbe potuto essere una risata. I tre uomini si alzarono contemporaneamente e si spostarono per permettere a Malden di capire cosa fosse il contenitore su cui erano seduti. Era una semplice bara di legno che si restringeva alle due estremità.

    Undicidita sollevò il coperchio e Feritoia fece cenno a Malden di entrare.

    Malden non era un tipo impressionabile o superstizioso, tuttavia un freddo terrore si impossessò di lui al pensiero di sdraiarsi dentro la bara. «Solo un pazzo o un morto si infilerebbe senza remore lì dentro», osservò.

    «Be’, se non lo farai», ribatté Feritoia rivolto a lui, «sarai entrambe le cose».

    Malden spense la fiamma della lanterna che appoggiò per terra con cautela. Non ci sarebbe stato abbastanza posto anche per quella. Poi scivolò dentro, e si rassicurò pensando che, in fondo, non era tanto più terribile che stare dentro una cassa da imballaggio. Chiusero il coperchio e lo sigillarono con i chiodi. Cercò di non respirare troppo forte. Era arrivato fin lì, si disse, ora doveva vedere cosa sarebbe successo dopo.

    CAPITOLO 3

    Dentro la cassa l’oscurità sembrava solida, come se l’aria intorno a lui si fosse trasformata in ossidiana. Tutti i suoni che percepiva attraverso il legno giungevano smorzati e indistinti. Malden sperò ardentemente di uscire da lì al più presto. Nello stesso istante in cui il coperchio fu inchiodato, si rese conto di avere difficoltà a respirare; forse era la sua mente a giocargli dei brutti scherzi, ma gli sembrava davvero che nella bara non ci fosse sufficiente aria per rimanere in vita. Iniziò ad agitarsi e a perdere il controllo delle facoltà mentali, tanto che gli ci volle un notevole sforzo per calmarsi e rassegnarsi a ciò che stava accadendo.

    Solo un pensiero gli era di conforto, una cosa di cui si sentiva relativamente sicuro: il signore di quel luogo aveva già avuto diverse possibilità di ucciderlo, e dunque, almeno per il momento, per qualche ragione si aspettava di sopravvivere a quella prova.

    Quel pensiero lo tranquillizzò.

    La cassa fu sollevata – i tre vecchi dovevano essere più forti di quanto sembrasse, o forse qualcuno li stava aiutando – e trasportata per un breve tratto. Poi fu di nuovo abbassata, prima dalla parte in cui si trovavano i piedi, sopra una specie di scivolo. Per un momento Malden ebbe la sensazione di cadere verso il basso, poi la cassa colpì una superficie solida e dura, così dura da fargli uscire tutta l’aria che aveva nei polmoni. Non sapendo cosa sarebbe accaduto dopo, si sforzò di non respirare.

    Il corpo protestò e cominciò ad annaspare, ma lui riuscì a trattenere il respiro ancora un momento. L’unico modo per capire dove fosse finito era ascoltare i rumori esterni. Nonostante dentro la cassa i suoni giungessero distorti, fu in grado di cogliere qualcosa: sentiva voci di persone, qualcuno rideva, una donna ridacchiava. Quindi non era solo.

    Poi un colpo sul coperchio della bara lo obbligò a buttar fuori l’aria che stava trattenendo. «C’è nessuno in casa?», domandò qualcuno, la voce piena di scherno.

    «Fatti un giro dentro e dai un’occhiata», rispose Malden.

    La persona che aveva parlato rise malignamente, ma non disse altro.

    A Malden non ci volle molto per capire che nessuno sarebbe venuto a liberarlo e che avrebbe dovuto trovare da solo il modo di farlo. Riuscì a estrarre il pugnale piuttosto facilmente, ma dentro la cassa gli risultava difficile maneggiarlo senza infilzarsi. Non era una grande arma: un pezzo di ferro di forma triangolare che terminava con una punta affilata. Era l’unica che la legge gli consentisse di possedere, la lama era lunga non più della distanza che intercorreva dal polpastrello del suo pollice fino all’estremità del medio; inoltre solo la punta era affilata e non serviva a granché, tutt’al più era utile nelle risse per colpire l’avversario. Malden non aveva una natura violenta, e il coltello era più una questione di apparenza. In passato lo aveva usato in vari modi, ma uccidere non era stato uno di quelli. Conficcò la punta nella giuntura tra la copertura e la bara, ma senza una leva ci mise un po’ a sollevare il coperchio, sebbene ogni sforzo fosse ricompensato da un fascio di luce e – cosa più importante – da una boccata di aria fresca.

    I chiodi stridevano mentre cercava di liberarsi. Alla fine riuscì ad aprire il coperchio abbastanza da sollevarlo con le mani. Rimise il pugnale nel fodero, si sedette e si guardò attorno.

    La stanza era ampia ma bassa, il soffitto puntellato da solide travi. Sembrava il pozzo di una miniera. Le pareti erano di pietra nuda e compatta e luccicavano per la condensa. Una dozzina di candele illuminava il luogo, e i riflettori di rame diffondevano la luce e le conferivano una tinta rosa. Sul divano a un lato della stanza era seduto un uomo che indossava un farsetto di pelle e una calzamaglia bicolore. Aveva le spalle forti di un guerriero, non di un ladro, e in braccio teneva una ragazza dai capelli rossi con il corpetto slacciato, che rise piano quando lui le fece il solletico. Nessuno dei due lo degnò di uno sguardo. In un altro angolo della stanza un gruppo di uomini avvolti in mantelli colorati giocava a dadi contro un muro, gridando o grugnendo un risultato.

    L’ultimo occupante della stanza era un nano che avrebbe potuto rappresentare tutti i suoi simili. I nani erano rari a Ness – erano rari dappertutto nel regno di Skrae – ma molti erano giunti dal regno settentrionale in cerca di lavoro, e Malden era ormai abituato alla loro presenza.

    Erano artigiani abili e brillanti, in grado di costruire strumenti migliori e più belli rispetto a qualsiasi fabbro umano. Solo i nani conoscevano il segreto della produzione del vero acciaio e perciò erano molto apprezzati e, se si trasferivano nelle terre degli umani, godevano di speciali diritti. Questo non era diverso dagli altri: anche lui era smilzo, alto circa un metro e venti e con la carnagione bianca come il ventre di un pesce, aveva un ammasso di capelli neri e sporchi e la barba piena di nodi. Indossava solo un paio di calzoni e cuciva pezzi di metallo su un guanto di seta. Lanciò un’occhiata veloce a Malden, poi scosse la testa e tornò a lavorare.

    Il ladro si guardò intorno e girò lentamente su se stesso per controllare che non gli fosse sfuggito nulla. Non voleva trovarsi di fronte a qualche minaccia imprevista. Proprio alle sue spalle vide lo scivolo da cui era sceso, una struttura di stagno sottile forgiata a colpi di martello. Era stata ricoperta da uno strato di grasso marrone, ed era illuminata dalla luce fioca delle candele. Sarebbe potuto scappare da quella parte, se avesse avuto abbastanza tempo e se nessuno avesse cercato di fermarlo.

    L’uomo sul divano aveva una spada, e Malden non aveva dubbi che anche gli altri fossero armati. Qualcuno, pensò, avrebbe sicuramente provato a bloccarlo. Dopotutto, era stato convocato per qualche ragione, e se avesse cercato di scappare proprio adesso, avrebbe perso quell’occasione. Inoltre, basandosi su ciò che i vecchi gli avevano detto, non sarebbe riuscito a sopravvivere.

    Un po’ indolenzito, Malden uscì dalla bara e si rimise in piedi. Si spolverò i vestiti e si diresse verso il divano, con il proposito di capire cosa sarebbe successo dopo. Lo sgherro lo guardava con curiosità. «Devi aver fatto una buona impressione ai tre maestri lassù», disse. Malden riconobbe la voce di quello che gli aveva parlato quando era dentro la cassa.

    «Cosa?», chiese.

    «Ti hanno permesso di tenere addosso i vestiti e il coltello. A volte quelli che vengono inviati qui ci arrivano nudi».

    «So essere molto gradevole quando ho a che fare con la gente», affermò Malden. «Sareste così gentile da indicarmi il vostro capo? Mi è stato detto che desidera parlare con me».

    Lo sgherro aggrottò la fronte. «Cosa ti fa pensare che il capo non sia qui, proprio davanti a te?».

    In segno di scusa Malden fece un inchino. «Un’organizzazione come questa, in un posto così segreto, mi porta a pensare che solo un uomo nella Libera Città di Ness possa essere il capo. Un uomo di cui conosco soltanto la fama, ma una fama tale da indurmi a farmi un’idea piuttosto precisa. Dubito che sia uno di questi giocatori, che si mettono in ginocchio e scommettono pochi centesimi sui dadi. Sono abbastanza sicuro che non sia un nano, e lei...». Malden cercò nella memoria. «Si chiama Rhona. È una delle ragazze di Madam Herwig, della Casa dei Gemiti vicino al Fossato Reale». La ragazza lo guardò con gli occhi sgranati, ma lui le sorrise appena; c’erano ben poche prostitute che Malden non avrebbe riconosciuto con un’occhiata. «Non credo che voi siate il capo, qui. Anche se la vostra figura è impressionante, signore, non credo che rispondiate al nome di Cutbill».

    Al suono di quel nome tutti nella stanza si guardarono alle spalle. Persino lo sgherro e la sua amante aggrottarono le sopracciglia. Tutta la tensione si dissolse all’istante quando lui scoppiò in una risata, e la ragazza lo imitò. «Sei più intelligente di quanto pensassimo».

    «Ma non così presuntuoso da mancare a questo incontro», affermò Malden.

    Quando si alzò, lo sgherro prese in braccio la ragazza, la rimise sul divano e con un balzo raggiunse Malden e gli diede la mano. «Sono Bellard. Servo colui che hai nominato nelle occasioni in cui la gentilezza non basta».

    «Lieto di conoscervi. Mi chiamo Malden».

    Bellard rise di nuovo. «So già il tuo nome. Hai ragione, il maestro ti sta aspettando. Devi entrare lì». Bellard con un ampio gesto indicò il muro più distante, dove era appesa una tenda macchiata.

    «Quindi devo solo entrare lì dentro, giusto?», domandò Malden.

    Lo sgherro sorrise. «Se ci riesci, sei sulla strada giusta».

    Malden fece un inchino e si diresse verso la tenda. La tirò e dietro vide incassata nel muro una grande porta in robusto legno di quercia con grandi cardini di ferro. Si sarebbe aperta tirando uno spesso anello di ferro. C’era solo un problema: una grossa sbarra di metallo passava dentro l’anello ed era ancorata a entrambe le pareti, ma era bloccata dal lucchetto più grande che avesse mai visto in vita sua.

    CAPITOLO 4

    Bene. Ci sapeva fare con le serrature.

    Malden estrasse il coltello e lo afferrò dalla lama. L’impugnatura era costituita da un lungo pezzo di corda arrotolata su se stessa, che in teoria serviva a rendere il manico più comodo. In realtà, la corda aveva altri usi meno ovvi. Sciolse una delle estremità, e la srotolò con un movimento sicuro. Nascosti nella corda c’erano tutti i suoi attrezzi: grimaldelli, punteruoli, uncini, un paio di tensori e due chiavi di grandezze diverse per serrature di varie dimensioni. Quei piccoli pezzi di acciaio erano quanto di più prezioso possedesse Malden: valevano molto più dell’equivalente del loro peso in oro. Se fosse stato catturato, gli sarebbero costati la libertà, visto che non potevano avere un impiego lecito: l’unica loro funzione era quella di permettere di aprire le serrature a chi non possedeva le chiavi.

    Sistemò sul pavimento alle sue spalle gli attrezzi, poi si mise in ginocchio per esaminare la serratura più da vicino.

    «Questo è un famoso esempio di maestria di un fabbro», disse Bellard da dietro le sue spalle. «In origine chiudeva la porta del serraglio del capo della tribù settentrionale dei Krölt. Pensa a quali bellezze selvagge ed esotiche proteggeva, eh?».

    Malden si domandò se fossero state belle almeno la metà del lucchetto. Era, senza dubbio, un eccellente esempio di artigianato e, considerata la complessità, probabilmente era stato costruito da un nano. La parte ricurva era più grande di una sua mano, in bronzo lavorato con rame, che purtroppo nel corso degli anni si era ossidato e aveva assunto un colore verdastro. La parte anteriore era decorata con rivetti di ottone che avevano la forma di bei visi femminili. Era stato realizzato con così tanta abilità che ogni volto aveva lineamenti ben caratterizzati. Quei visi erano uno più incantevole dell’altro. Anche l’arco di chiusura era in ottone, e si sigillava formando una treccia. Una lamina mobile chiudeva la toppa per evitare che polvere e umidità entrassero e bloccassero il meccanismo interno. Quando Malden spostò la lamina, si rese conto che il buco era abbastanza grande da potervi infilare due dita, se si aveva il coraggio di farlo. La chiave in grado di aprire il lucchetto avrebbe dovuto avere le dimensioni di una corta spada.

    La luce fioca della stanza non gli permetteva di vedere dentro il meccanismo, ma aprire il lucchetto richiedeva destrezza manuale non una vista particolarmente acuta. Scelse tra i suoi strumenti un punteruolo a seghetto e il tensore più grande. Sperò che bastasse. Mentre inseriva il più attentamente possibile il punteruolo dentro la toppa per individuare i cilindri e le molle, si augurò che le mani non cominciassero a tremargli.

    Quando il punteruolo fece contatto, tutto il meccanismo iniziò a ticchettare come se avesse fatto scattare una molla. Ebbe appena il tempo di vedere che i rivetti si muovevano, prima di fare un salto all’indietro e trovarsi con le mani per terra. Gli attrezzi volarono per aria e ricaddero sulle pietre facendo un rumore metallico, ma per un momento si dimenticò di tutto.

    «Sei anche più veloce di quanto pensassimo», affermò Bellard. Stavolta non rideva.

    I rivetti a forma di volti femminili in realtà non erano affatto dei rivetti, osservò Malden. Assomigliavano alla lamina che ricopriva la toppa e potevano scivolare dentro buchi nascosti sulla parte anteriore del lucchetto, da ognuno dei quali ora usciva un ago grande come un chiodo da fabbro. Se non fosse saltato indietro in tempo, quei chiodi gli avrebbero infilzato le mani in una dozzina di punti diversi. Guardò più da vicino e si rese conto che la capocchia di ogni chiodo era coperta da un fluido color paglia.

    «Veleno, ovviamente», disse.

    «Il vecchio Krölt era un tipo geloso, e odiava i ladri. Il veleno, ormai, si è seccato e dissolto secoli fa. La sostanza con cui è stato sostituito non è letale, visto che la serratura serve per allenare le nuove reclute, ma ciò non significa che sia piacevole», spiegò Bellard scrollando le spalle. «Avresti avuto la febbre per tre giorni, durante i quali avresti sofferto pene tali da augurarti che ci avessimo messo la cicuta».

    Malden si asciugò il sudore che gli imperlava la fronte. Nonostante vivesse di un mestiere che lo sottoponeva a molti rischi, per i suoi gusti quella notte lo avevano minacciato un po’ troppo spesso di morire e soffrire orribilmente.

    E comunque non era ancora finita. Se non fosse riuscito ad attraversare quella porta e ad arrivare all’appuntamento con Cutbill, la sua vita sarebbe stata in serio pericolo. Bisognava forzare la serratura, ma senza toccare gli aghi, doveva essere cauto.

    Riprese i punteruoli e li afferrò con forza a un’estremità, per avere più gioco possibile. Si augurava che fossero sufficienti a forzare la serratura senza toccare gli aghi, ma per quanto ci provasse, facesse pressione o incurvasse le mani nelle posizioni più scomode, gli attrezzi non riuscivano ad aprire il lucchetto.

    Sprofondò nella frustrazione e nella rabbia e li gettò sul pavimento di pietra. Cosa fare? Non era pronto a rinunciare. Solo Sadu sapeva perché era stato costretto a quelle prove, a quella serie di terribili test. Non pensava che il capo di quel posto fosse un tale sadico da sottoporlo a tutto ciò per puro divertimento: dovevano esserci altre ragioni.

    Quindi il problema aveva una soluzione. Una risposta semplice ed elegante che lo avrebbe consegnato a un uomo che sapeva il fatto suo. Malden si era sempre considerato piuttosto intelligente, non era molto forte – a causa di una cattiva alimentazione – e nemmeno particolarmente affascinante. Aveva quel genere di viso a cui nessuno prestava tanta attenzione, o che rimaneva impresso a lungo. Era furbo, questo sì, e veloce, come aveva detto Bellard: la sua arma migliore era proprio il cervello, l’abilità di riflettere.

    Una soluzione c’era e doveva essere in quella stanza, visto che non gli era permesso di uscire. Inoltre doveva trattarsi di qualcosa che avrebbe scoperto solo se avesse aperto gli occhi. Si guardò intorno, cercando di capire cosa si fosse perso.

    Osservò il nano. Prima non ci aveva badato molto. Si era a malapena reso conto di cosa stava facendo, invece ora si concentrò sul suo lavoro.

    Il nano stava cucendo dei pezzi di metallo su un paio di guanti di seta.

    Malden andò verso di lui con la sua espressione più amichevole. «Accidenti, questi guanti sono fantastici».

    Il nano sogghignò. «Si potrebbe spuntare un bel prezzo», disse.

    Malden sentiva gli occhi dei presenti sulla schiena. Li ignorò. «Posso?», domandò. Prese in mano uno dei guanti e lo studiò. Il nano vi aveva cucito tante piccole lamine di stagno sul dorso e sul palmo. Durante una rissa non sarebbero stati una grande protezione, ma erano perfetti al suo scopo: sembrava fossero stati creati apposta per scassinare la serratura avvelenata. Malden aprì la borsa ed estrasse una manciata di spiccioli, monete di rame ciascuna tagliata in quattro pezzi. «Non sono sicuro di quanto...».

    «Vanno bene», disse il nano, togliendoglieli dalle mani. Li contò velocemente, facendoli rotolare. «Ladri miserabili. La metà di ciò che valgono». Porse i guanti a Malden che li afferrò. «Sono solo in prestito», lo informò il nano. «Me li riprenderò quando riterrò che li avrai tenuti abbastanza».

    «Ma certo», disse Malden. Li indossò e andò verso il lucchetto. Non c’erano dubbi che fossero stati creati espressamente per quello scopo. La seta era delicata e si sarebbe rovinata dopo poco, ma era abbastanza sottile da non ridurre la sensibilità delle dita, indispensabile per forzare la serratura. Le lamine di stagno non garantivano una grande protezione alle mani, ma quando cercò un’altra volta di aprire la serratura, si rese conto che impedivano agli aghi di infilarsi nella pelle.

    Anche con i guanti non fu affatto facile. Il lucchetto era enorme e all’interno c’erano dozzine di cilindri: con gli uncini dovette portarli nella posizione corretta e mantenerli fermi con il punteruolo dentellato, girando intanto il tensore con il giusto grado di forza. Questo lavoro richiedeva mani perfettamente ferme, ma se non perdeva la concentrazione nemmeno per un secondo... sì... ecco. Quando il meccanismo fece clic, quasi balzò di nuovo indietro; quello però era un suono diverso: più pesante, più solido, più definitivo.

    Gli aghi rientrarono nei buchi con una serie di rumori leggeri. L’arco si aprì e il lucchetto rimase penzoloni.

    L’aveva aperto.

    Malden riavvolse gli attrezzi nell’impugnatura del coltello, poi inserì l’arma nella guaina con un sospiro. Tolse il lucchetto dalla sbarra: era così pesante che a malapena riusciva a sollevarlo, così l’appoggiò sul pavimento. Si sfilò i guanti, girandoli al rovescio nel caso un po’ di veleno si fosse depositato sulle lamine di stagno, e li lanciò al nano, che li afferrò. Poi tornò verso la porta e sfilò la sbarra di metallo dall’anello spingendola delicatamente.

    La porta si aprì con un cigolio.

    Si girò verso Bellard.

    «Non gli piace aspettare», affermò lo sgherro.

    Malden assentì ed entrò.

    CAPITOLO 5

    Oltre la porta trovò un piccolo ufficio accogliente, riscaldato da un braciere di carbone e insonorizzato da pesanti arazzi appesi al muro. Di fronte c’era una grande scrivania di legno pregiato, annerito dal tempo. Dietro, si vedevano una grande mappa dettagliata della città, una bacinella per lavarsi il viso e le mani e una credenza con una caraffa di vino e alcuni calici. Nessuno sedeva al tavolo. L’unica persona che occupava la stanza era appollaiata su uno sgabello in un angolo, e scarabocchiava dei numeri su un registro appoggiato sopra il leggio che aveva davanti.

    Era un uomo molto magro, con lineamenti affilati e malinconici e sopracciglia molto arcuate. Era stempiato e i capelli neri erano attraversati da due ciocche grigie. Gli occhi, una volta neri e brillanti, ora socchiusi e senza pietà, non si posarono su Malden che era entrato nella stanza.

    Il ragazzo si chiuse la porta alle spalle e aspettò con pazienza che l’uomo finisse di scrivere. C’erano delle sedie, ma non si accomodò, indeciso su cosa aspettarsi da quella stanza accogliente.

    La penna dell’uomo appuntò altre cifre e poi si fermò.

    «Tua madre era una puttana», disse l’uomo in tono piatto.

    Malden sentì una stretta al cuore, ma gli era chiaro cosa stava succedendo. L’uomo – che sicuramente era Cutbill, avesse o no l’aspetto della mente di una banda di ladri – lo stava mettendo alla prova. Cercava di capire se si sarebbe messo ad attaccarlo con furia o a piagnucolare offese.

    Non provò a negare l’affermazione. «È vero. Una brava donna in una brutta situazione, che ha fatto del suo meglio per tirarmi su con affetto e pazienza. È morta di sifilide, ero ancora un ragazzo».

    Cutbill annuì, accettando la nuova informazione come se fosse un dato da inserire in uno dei suoi registri contabili.

    «Tuo padre?»

    «La metà degli uomini di questa città potrebbero dichiararsi tali, anche se nessuno l’ha mai fatto».

    «Siediti. Ci potrebbe volere un po’», gli disse Cutbill. Malden prese posto su una sedia vicino al muro. «Per la maggior parte della giovinezza hai vissuto in una casa di piacere, facendo piccoli lavori e commissioni per la tenutaria. In quel periodo probabilmente hai assistito a varie attività illecite. Forse sei stato anche coinvolto in alcune di esse: trasportare fuori gli ubriachi, truffare i clienti, o per lo meno spillargli dei soldi maggiorando le tariffe, procurare piccole quantità di sostanze illegali per le meretrici. Solo dopo la morte di tua madre hai cominciato a lavorare anche in città».

    «Non avevo molta scelta», confermò Malden. «Nel bordello non c’è spazio per un ragazzo, non quando è già pieno di bambini indesiderati che puliscono e fanno qualche lavoretto. Mi hanno dato qualche spicciolo e mi hanno detto di andarmene e cercare fortuna. Avevo deciso di vedere come vivesse la gente onesta, ma ho capito che la città ha ben poco da offrire al figlio squattrinato di una prostituta. Questo posto non è fatto per chi è nato nella parte sbagliata del mondo».

    Se aveva sperato di suscitare simpatia in Cutbill, rimase deluso. L’uomo dall’aspetto di un impiegato non lo degnava neppure di uno sguardo.

    «Ho cercato lavoro in diversi posti. Ero già troppo grande, nessuna bottega mi avrebbe preso come apprendista alla tarda età di quindici anni. Ho provato a cercare

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